di Piero Bevilacqua

L’Italia non è solo – in misura storicamente più rilevante che nel resto d’Europa – terra di città. E’ anche un paese di borghi, di paesi, piccoli e medi,  disseminati lungo la dorsale appenninica e preappeninica e fin sulle Alpi, ma presenti anche, con caratteristiche proprie, nella Pianura padana. E una saliente caratteristica è la loro varia origine storica, che va da epoche remotissime sino all’Otto-Novecento, insieme alla diversità  delle genti e delle colonizzazioni che li hanno plasmati. Qui dobbiamo necessariamente limitarci a pochissimi cenni, su un patrimonio composto da migliaia di centri. Si pensi a un centro come Bobbio, in Emilia Romagna, abitato in età neolitica, poi colonizzato dai Liguri, dai Celti, dai Romani; oppure Pitigliano, in Toscana, parimenti attivo nel neolitico, colonizzato  dagli Etruschi e successivamente romanizzato. E ancora, sempre per sottolineare l’antichità della fondazione e la varietà delle civilizzazioni – ma per cenni necessariamente  avari e sporadici – si può ricordare, scendendo verso Sud, Norcia, in Umbria, centro d’incontro di varie etnie nel mondo antico, poi assoggettata ai Romani; Gerace, in Calabria, colonizzata dai Greci a partire dal VIII-VII secolo e poi divenuta bizantina. Nel Lazio e in parte dell’Italia meridionale dominano i borghi di origine medievale del cosiddetto incastellamento -studiato dallo storico  Pierre Tourbet – risultato dell’aggregarsi degli abitati intorno a un castello feudale, per proteggersi dalla incursioni saracene e poi normanne di quell’età turbolenta. Ma è solo per suggerire una idea della vetustà storica e della multiformità delle culture. Non sorprende, dunque, se un numero grandissimo di questi borghi possiede al suo interno e nei suoi immediati dintorni un patrimonio immenso di resti e di manufatti, che custodiscono la memoria millenaria d’Italia, l’operosità  di innumerevoli generazioni di artigiani e artisti. In questi centri sono disseminati santuari, torri, casali, abbazie, chiese, pievi, palazzi signorili, necropoli, ville, mausolei, sepolcri, chiostri, affreschi, statue e dipinti, anfiteatri, aree archeologiche, cinte murarie, strade, porte, vasche termali, cisterne, acquedotti. I resti, insomma, talora ben conservati, di una civiltà impareggiabile. Nel 1980 Alberto Guidoni introdusse l’ VIII volume della Storia dell’arte italiana per Einaudi, curata da Federico Zeri ,e dedicata ai Centri minori , dove tanto tesoro è illustrato per ricchissimi esempi. Mentre le benemerite guide rosse del Touring Club, come ricordava Italo Calvino, costituiscono il “catalogo nazionale” dove  così innumerevoli beni sono registrati nel loro contesto storico e territoriale.

Ora che cosa accade nella nostra civilissima Italia? Accade che una parte crescente di questi borghi sono a rischio di abbandono, o  sono già divenuti dei centri fantasma. Si calcola che siano almeno 5000 in tali condizioni. Naturalmente, la tendenza in atto non è senza contraddizioni. Esistono territori montani, come il Mugello, in Toscana, dove la popolazione tende a crescere. Negli ultimi anni i paesi intorno a Roma  si sono gonfiati di popolazione. A causa degli elevati costi dei fitti, molti cittadini che lavorano a nella capitale sono andati  a vivere nei paesi vicini, eleggendoli quali dormitori rurali del loro pendolarismo. Ma la corrente prevalente è l’abbandono, lo svuotamento demografico, soprattutto lungo la dorsale appenninica e nelle aree interne. Nel Mezzogiorno poi il fenomeno si inscrive in un vasto processo di declino demografico, legato al generale arretramento delle condizioni economiche rispetto al resto del paese, che investe la popolazione giovane e che colpisce la natalità. Un noto circolo vizioso, che parte dalla mancanza di occasioni di lavoro e di reddito, spinge i soggetti giovani più attivi a emigrare, non favorisce la formazione di coppie  ritardando i matrimoni e le nascite di chi resta.

A questa situazione da tempo si vanno opponendo con varie iniziative non pochi enti e  gruppi, come l’ Associazione Borghi più belli d’Italia, sorto nel 2001 per impulso della Consulta del turismo e dell’Anci, il Gruppo Touring Club, il Paesi Fantasma Gruppo Norman Brian (che si occupa della mappatura dei borghi) e varie altre associazioni a scala locale, come l’Azione Matese, impegnata a favore  dei paesi del Massiccio del Matese. Ciò di cui queste associazioni e varie altre hanno bisogno, tra l’altro, è senza dubbio una visione territoriale più ampia delle aree interne italiane e della formazione di una rete veramente attiva di informazione, scambi e cooperazione. Le aree interne fanno oggi parte di un vasto progetto, necessariamente di lunga lena, avviato da Fabrizio Barca all’interno del Ministero per la coesione territoriale. Ma già gli studi degli ultimi anni mostrano le luci e le ombre di questi ambiti territoriali, che certamente sono attraversati da dinamiche contrastanti. Di recente ci ha offerto un quadro di grande interesse il testo a più mani a cura di Antonio De Rossi, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli Roma, 2018.

 Occorre dunque avviare  di un disegno di riequilibrio demografico, sociale, ambientale che può offrire nel tempo vaste prospettive al lavoro italiano e alla valorizzazione delle immense risorse naturali ospitate in queste terre.

L’agricoltura della biodiversità agricola e la sua trasformazione agroindustriale, la selvicoltura, l’allevamento, l’utilizzo delle acque interne, l’escursionismo, il turismo, l’agricoltura sociale, le fattorie didattiche, la produzione di energia rinnovabile su piccola scala, l’artigianato del riciclo costituiscono le leve potenziali della rinascita di queste aree dove è prosperata per secoli la nostra civiltà rurale. E’ una strada da intraprendere anche perché favorita da processi naturali in atto su scala mondiale. Come ha mostrato Jan  Douwe van der Ploegh,(I nuovi contadini.Le campagne e le risposte alla globalizzazione, Donzelli Roma 2009) è  la stessa agricoltura industriale, che si muove su scala globale, a spingere gli imprenditori più marginali fuori mercato, perché non possono più permettersi di sostenere una concorrenza che innalza i costi di produzione (concimi, diserbanti, pesticidi, ecc) e diminuisce i prezzi dei beni agricoli tramite la grande distribuzione.Da qui i “nuovi contadini”, costretti a creare una nuova agricoltura multifunzionale e senza veleni .

Tale base economica è necessaria dunque per far rivivere le aree interne e i nostri preziosi borghi. A condizione, naturalmente, che i servizi fondamentali ( scuole, ospedali, trasporti) riacquistino o conservino il loro ruolo   irrinunciabile. Ma i borghi possono svolgere una specifica funzione attrattiva. Al loro interno si custodiscono non solo i manufatti artistici che abbiamo sommariamente elencato, ma, assai di sovente, essi sono scrigni invisibili che conservano antichi saperi, dialetti, culture e letterature popolari, strumenti musicali tradizionali e  canti antichi, conoscenze di erbe e di piante, forme di preparazione e conservazione dei cibi, cucine multiformi. Ma in questi luoghi  si rinviene dell’altro. In realtà, il nostro immaginario colonizzato dal demone dell’utile ci impedisce di scorgere tanti invisibili tesori immateriali. Si ritrovano infatti in  tanti borghi, talora intatti, modalità del vivere, ritmi quotidiani, un rapporto speciale con il tempo e la memoria, emozioni e modi di guardare, lentezze e assaporamenti della realtà circostante  che nella città sono ormai perduti per sempre. Una dimensione antropologica del vivere e del sentire, travolta dalla modernità, che si ritrova ancora conservata come per una miracolosa regressione in un altro tempo storico. Perciò occorre  stabilire un nuovo rapporto di curiosità e scoperta, creare un nuovo sguardo sul nostro passato – come da tempo va facendo Franco Arminio, anche sulle pagine del Manifesto  e del Fatto  oltre che in tanti suoi libri- mescolare  l’antico con il presente: ad es. trasformando vecchi edifici in abbandono, riattivando antiche manifatture con nuove produzioni, o cambiandole in “manifatture delle idee”, cioè  in sedi di  nuovi centri di ricerca. Occorrerà dunque seguire e documentare le iniziative che vanno sorgendo nei borghi, perché essi segnano il sentiero di un nuovo possibile rapporto degli italiani col proprio territorio e con il proprio passato. A tal fine trovo qui quanto mai opportuno soffermarmi, sia pur per pochi accenni, su una singola esperienza in uno degli angoli più difficili e fisicamente avversi della nostra Penisola. E anche impervi sul piano civile, a causa della   criminalità endemica. Non mi riferisco a Riace, che negli ultimi anni ha conosciuto una celebrità mondiale, grazie all’azione (e alle persescuzioni subite) di Mimmo Lucalo, ma ad un’altra esperienza.  Voglio qui ricordare le attività che per alcuni anni, dal 2010 è andata  svolgendo l’Agenzia dei borghi solidali nei comuni dell’estrema Calabria come Pentedattilo, Roghudi (spezzato in due da una alluvione nel 1971) e Montebello, all’interno del progetto “i luoghi dell’accoglienza solidale nei borghi dell’area grecanica”. L’Agenzia,  aggregazione di numerose altre associazioni,  ha sede, a Pentedattilo – pittoresco paese sullo Jonio che scende a cascata da una rupe – in un edificio, Villa Placanica , sottratto alla mafia. E, tra le varie iniziative messe in cantiere, ha organizzato campi di lavoro estivo nazionali e internazionali, facendo affluire centinaia di ragazzi, provenienti da ogni dove, negli ostelli presi in gestione nei borghi. E’ stato un modo per  valorizzare il patrimonio edilizio pubblico e privato in abbandono, per riportarlo a nuove funzioni e utilità. E in questi spazi si vanno aprendo anche  le  cosiddette Botteghe solidali. Nel frattempo, all’interno dello Spazio fiera di Roghudi nuovo e di Pentedattilo, sono state aperte botteghe artigiane che miravano  a riscoprire e dare nuovo valore alle tradizioni manifatturiere grecaniche, offrendo nello stesso tempo lavoro a immigrati e cittadini svantaggiati. Si è trattato di una esperienza  condotta da giovani molto capaci e legati al proprio territorio per passione e sensibilità storica. Con un tenace sforzo di aggregazione  hanno cercato di diffonderne culture di solidarietà e di legalità, soprattutto mettono in moto rapporti interculturali e di cooperazione fra le persone: quelle forme di comunicazione e di scambio che erano già vive su queste terre quando nel Mediterraneo fioriva la civiltà greca e il mare era luogo di vicinanza e di dialogo fra popolazioni diverse. Purtroppo queste esperienze su base volontaria non durano a lungo, anche perché, con la nota inettitudine  e micragnosità, il potere pubblico le lascia morire, privandole di ogni sostegno.