Metodica e morfologia si apprestano ad essere – ancora una volta – assertivi compagni di un transito creativo che Giorgio Moio affronta (posso dire «da sempre»?) con Testo al fronte, risalendo le vette di una realtà di cose talora intorpidita da reclami e da repliche fuorvianti.


chi parla – leggiamo sulla copertina del volumetto: uno scampolo in primo piano, collocato in obliquità a intraprendere la tensiva affermazione in un territorio dove le idee sembrano protrarsi a un richiamo non finito; dove perdere tempo sembra evocare l’antinomico squarcio. Dove, ancora, l’intelaiatura dell’imperativo Imparare ad imparare si dissolve tra le maglie impervie di un tempo consegnato alla dissoluzione. E chi parla, se non il poeta della parola inclusiva e dei raccordi creativi. Nel caso attuale, il chi parla rielabora la simultaneità visuale in forma di un testo al fronte, di un testo, cioè, tendente a uno scuotimento, a una rielaborazione articolata e che attrae all’idea di viaggio.


Fermiamoci un attimo e riflettiamo: quando si pensa al viaggio, l’immagine che si configura nella mente risale a una combinazione tra la meta, l’idea complessa dell’andare nel computo dei tempi del prima, del possibile successivo e, soprattutto, del durante (là dove il viaggio conquista la scena), insieme a un’eccitazione che, tuttavia, non prelude né a un senso di sazietà, né tantomeno all’ovvietà del risultato. Orbene, partiamo da questi capisaldi e accediamo alle stanze di Testo al fronte, ma lo facciamo in un modo del tutto libero da grammature convenzionali, inoltrandoci al pari di come l’idea portante del viaggio si ramifichi lungo tratti di definizione e temporalizzazione delle fasi e dei contenuti, senza trascurare la variabilità delle intuizioni, senza opporre impedimento alcuno a possibili interferenze emozionali e non, quant’anche a inferenze che, nella strutturazione, vanno a insinuare assonanze e dissonanze che Giorgio Moio recupera nell’immagine primordiale che vive le intemperanze di un pensiero in movimento.
Visto in questa sintesi meta-verbale, quindi, il pensiero è viaggio, tanto quanto il viaggio medesimo del poeta stabilisce la scientificità di un metodo che concorre a ritrarre le fasi del meditare in maniera a sé coerente, vale a dire con una nettezza disposta a opporsi a qualsiasi tentativo di esterna sopraffazione; con una tensione assimilabile a una scultura mobile animata da una logica che sottende allo spontaneo interscambio tra le parti. Epperò, pur se le mete possono esser conosciute, o quant’anche riconoscibili, il viaggio che ci si appresta a svolgere nell’operazione visivo-meditativa di Testo al fronte apporta un superamento talora attivato mediante un’orchestrazione che investe forme e contenuti sottraendoli alla calcificazione, adattando la versatilità propria e congeniale dell’arte alla convergenza metascenica di un esercizio volto a veicolare l’esserci d’artista lungo la traiettoria di intonazioni e in una configurabilità dall’assetto acuto, viepiù in grado di manifestare la solerte reazione attraverso un alfabeto organato da imprevedibili accezioni semantico-strutturali. Il che comporta il trovare, in un unico usbergo di immagine-metaverso, la conciliazione tra l’evento poetico e la caratterizzante trasformazione del modo stesso di pervenire non soltanto a una lettura, quant’anche a una traslazione che veicola lo sconfinamento dagli archetipi della scrittura a una composizione che unifica aspetti tattili, visuali, insieme a pause dense e serrate in una logica acribica; insieme all’assordante intonazione, al gigantismo, al verso bianco, quanto al sussurro o al tacito dubbio recuperato a segni di per sé altamente parlanti (esclusivamente evocativi). D’altro canto, procedendo nelle volumetrie del libro, ci si rende conto di come tutte le modalità integrative dei passaggi (tattili, visuali, eccetera, organati per moto proprio nella logica immaginativa) tendano a concertare un’interazione divergente (talora ludica, talora aspra, guizzante, penetrante o declinante) che non restringe affatto la prospettiva, anzi: lo stesso fronte metascenico rende la tempestività con la quale la presenza di Giorgio Moio poeta-artista coabita la sua creazione, nella quale è possibile identificare l’azione del meditare in una testualità intensificata dalle trasformazioni e in-potenza, così andando a pregiudicare qualsiasi insinuante artificialità.
Disposto nella coralità di implicite voci e di evidenti significanti, il libro si manifesta quale organismo ritmato secondo relazioni che collaborano all’orientamento intrinseco di tutte le componenti della struttura, che pure si figura nella mente poetica a partire da una realtà di cose che – come spesso mi piace specificare – sia parlante attraverso i suoi elementi e che, viepiù, sia pensante attraverso un’organazione che si disfa del tutto da una sequenzialità stringente, per attingere – e compiersi – in un tracciato epistemico dal neo-morfico equilibrio. Qui l’andamento linguistico e la riformulazione figurale danno respiro a un verso iperbolico dall’apparente tratto sfuggente, e che richiama la condizione di una altrettanto neo-morfica sineresi, rimandando a una sorta di ricalcolo dell’immaginabile insolcato, affinché il sistema creativo non ne venga impedito, e, in più, sopraggiungendo in un’incessante trasformazione che dispone la parola, l’immagine di essa e la sua repentina ricollocazione, al di fuori di qualsiasi accezione vincolante.
In tal senso, dunque, l’operazione creativa – come tale si prospetta nel richiamo olofrastico che Giorgio Moio consegna con Testo al fronte – assume una comprensività di tipo ostensivo e questo per il fatto di essere scena dell’avvenimento eterofilo che il pensiero è, vale a dire, non già come condizione astratta, quanto nella sua ineccepibile forma di un’esperienza che si protrae in intensiva perturbazione del controvertibile e che qui si formula in un possibile composito di interni ed esterni, di divagazioni e restringimenti, di digressioni figurali, di aderenze e sconvolgimenti epigrammatici, estraniandosi dalle conclusività di mera rappresentazione. Un siffatto approccio permette di accantonare qualsiasi metodo basato sull’espressività assoluta e di evidenziare la potenza inesauribile di segni talora interrotti all’interno dei confini dell’irrilevanza e che, invece, evocano l’efficacia configurativa nell’atto di incastrarsi con speditezza con tutto quanto rientri in un altro non ancora delineato. Ed è in questa forma complessa di «ancora» che l’artista elabora i suoi «fronti», vale a dire, un testo «a» fronte pari a una traccia di corale movimento; un testo «al» fronte, altresì, giacché lascia emergere quel che, pur nella distintività del riconoscibile (un libro non è luogo serrato; esso è identità non trascurabile di partenze e di fasi linguistiche multiformi e priva di qualsiasi irenicità ascrivibile), comporta una sonorità insistente nei legami intrinseci tra i segni; una sonorità incisa, per altro, in un montaggio che delinea la varietà tissutale di uno spazio atipico che non soltanto ospita, ma pure incarna una presenza di tipo logaritmico, in una coordinazione spedita tra i nessi e le corrispondenze.


Nel ricomporre in unità integrale l’elaborazione crittogrammica evocativa e l’immagine calligrammica seguendo un vettore invisibile, ci ritroviamo, dunque, a confluire nella combinazione di multiformità neo-logica, quanto neo-strutturale, nell’atto di proiettare sulla carta (ma potrebbe anche essere efficacemente uno schermo) un reticolato simultaneo di intenzioni in un orientamento che mette in scena l’azione ideografica con un personalissimo linguaggio in grado di sconvolgere tutte le resistenze che sovente impongono l’incantamento (o la costrizione). Non basta: concedendosi in un’univoca soluzione che edifica la simultaneità di riflessione-lettura-rimando evocativo-aspettativa ed estranea a qualsiasi schema illusorio, al di fuori, cioè, di qualsiasi gioco estroversivo di parole, con Testo al fronte Giorgio Moio dà vita a un tensivo equilibrio metamorfico tra le parti, districando il labirinto delle consuetudini.
Cambia, pertanto, la modalità attentiva e cambia, di conseguenza, l’immagine corale, quanto moltiplicabile, che ne deriva, e che è esplicabile in una mutevolezza meta-dimensionale che sfugge all’abulia dell’appiattimento, e include il tutto-tutto e il dettaglio del tutto (o, meglio, il dettaglio che il tutto costruisce, tassello per tassello, quanto relazione per relazione) in un’ascesa che incontra la «sua» abitabile realità, il «suo» fronte di azione, esattamente in quel che non può essere spiegato, se non vivendolo all’interno di una particolare coreografia. Così, allora, quel che appare avvicendamento porzionato riassume una nuova identità artistica dalle insospettabili proporzioni, divenendo miniatura convergente in un impianto unitario, laddove le vicende non sostano in una ripresa, bensì emergono con le loro solidità ergonomiche; laddove convivono con i loro comportamenti e i possibili effetti tanto in immediatezza, che nella lunga distanza. Ciò detto, l’intelaiatura di Testo al fronte accompagna la in-divisione degli elementi in un’arte di tipo anabolico, fondata, cioè, su una rielaborazione che, partendo dalle cose, dai (mis/dis)fatti, di questi segue i processi, le evoluzioni, quanto le fratture, auto-costruendosi in uno spettro che richiama l’intervento di tutte le forze senza alcuna subalternità e concedendo una sapiente dosatura di impercettibili, ma altresì energiche, rivoluzioni, così che la distanza tende all’avvicinamento e l’avvicinamento presume un nuovo distacco in una parabola continua.
In questa densità in ampio respiro – laddove anche i vuoti e le pause manifestano la propria ragion d’essere nella concretizzazione visivo-poetica-immaginale –la tessitura di tipo cinematico di Testo al fronte manifesta una drammaturgia essenziale, robusta e illimitata, incline a procedere nel dire-sapere-cercare-scoprire mediante il saper muoversi, nella ricerca al saper agire e conquistare internamente contenuti, con un linguaggio che è straordinariamente visuale, consistendo in quel che rientra in un’esperienza estetica autentica, per la quale quel che accade un momento prima e un momento dopo va a miscelarsi nel significante di un grande costrutto palinodico. Ed è mediante il costrutto palinodico che Giorgio Moio con Testo al fronte scardina le cattedrali noiose della contrapposizione e dell’agalmico impatto, andando a forgiare l’intra-tela di una nuova esegesi, dalla quale l’esasperazione è categoria del tutto assente, e nella quale, ancora, i toni si sottraggono a una verbalità secondaria, di comparsa, cioè, oppure calcificata in un’intonazione facilmente riferibile a un’insegna di ampollosa polemica. Piuttosto, al lettore perviene un segnale che smussa l’eccedente e protrae la (ricerca di un’azione di) scientificità priva di sottomissioni, traducendo la correlazione in un inesauribile amalgama interattivo che adagia in un primo e unico fronte il carattere analitico e formativo di una poesia in grado di amplificarsi in una tonica oralità per immagini.

Carmen De Stasio


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