FRANCO ASTENGO

DAL 25 LUGLIO ALLA COSTITUZIONE di Franco Astengo 

Il “Corriere della Sera” (16 luglio 2023) ha pubblicato una lunga intervista allo storico Emilio Gentile che presenta un suo testo “1943” che sarà allegato al quotidiano proprio nel giorno della caduta del fascismo di cui ricorrono gli 80 anni.

Gentile, sollecitato dalle domande di Walter Veltroni, analizza compiutamente i fatti di quei giorni e conclude che Mussolini “si rese conto che l’unica soluzione, per lui, era scendere dal treno della storia”.

Le cose poi andarono diversamente fino all’epilogo del 25 aprile e di Piazzale Loreto con in mezzo quasi due tragici anni di completa distruzione del Paese.

Un ricordo del 25 Luglio 1943 non può però essere riservato semplicemente alla narrazione dei fatti che portarono alla caduta del fascismo, attraverso quella che generalmente viene ricordata come “una congiura di palazzo”.

In questa fase di ascesa al potere di un governo di destra la cui forza principale si richiama ancora al MSI e di conseguenza alla Repubblica di Salò, è il caso di analizzare sul piano storico – politico quanto accaduto nei successivi fondamentali passaggi dell’8 Settembre 1943 e del 25 Aprile 1945.

Una valutazione che deve riguardare l’analisi delle scelte che si svilupparono e furono adottate in funzione della costruzione/ricostruzione della democrazia in Italia.

Processo di costruzione/ricostruzione della democrazia in Italia che trovò poi nell’Assemblea Costituente la sua sede d’espressione fino al varo del testo costituzionale.

In Italia dopo il fascismo le difficoltà della ricostruzione democratica si innestarono di su un processo storico che, già, prima del fascismo appariva fragile e incerto.

Non si deve perciò immaginare la rinascita democratica in Italia, nel secondo dopoguerra, come liberazione di un corpo estraneo o come ritorno a una scontata fisiologia democratica.

Per entrare in questa prospettiva critica è necessario accennare ad alcuni fra i tanti elementi della eredità del passato che condizionarono la rinascita democratica: un’incertezza, anzitutto, nella classe politica antifascista, sulla stessa idea di democrazia legata alle diverse premesse ideologiche e alla diverse letture della storia del Paese; una ancor più profonda incertezza su quello che potremmo definire uno statuto democratico dei partiti politici; infine il complesso e contraddittorio vissuto degli italiani nel corso del ventennio.

Rientrarono in scena i partiti politici che, fino a quel momento, avevano vissuto tra esilio e lotta interna le vicende di una difficile sopravvivenza, ma non erano disposti a ripartire dal passato, al di là delle polemiche sulla consistenza del fascismo, dell’antifascismo e dell’afascismo.

La fase di riorganizzazione impedì ai partiti di avere influenza sugli avvenimenti che portarono al colpo di Stato del 25 Luglio.

La trasformazione del comitato dei partiti antifascisti in Comitato di Liberazione Nazionale, avvenuta fin dal 9 Settembre a Roma,invece pose subito l’interrogativo di fondo: la democrazia italiana che rinasceva dopo il fascismo riprendeva un cammino interrotto proprio dallo stesso fascismo e si presentava, quindi, in linea di continuità con lo Stato Liberale o ci si sarebbe dovuti avviare verso una strada del tutto nuova? Il fascismo aveva segnato una totale rottura rispetto alla storia precedente o non aveva nella storia dello stato liberale le sue radici?

Si svilupparono, nel corso della fase storica cui ci stiamo riferendo, risposte diverse: la posizione liberale, rappresentata da Benedetto Croce e quella azionista, che si opposero tra di loro ma, per certi aspetti, finirono entrambe con il rimanere interne a una stessa concezione della politica che era quella degli eredi del Risorgimento nelle sue due componenti: la moderata e la democratica.

Si manifestò così un doppio cleavage fra le forze politiche italiane; vi si trovava, certo, una discriminante sul tema della libertà e del suo rapporto con la democrazia e sui contenuti della democrazia stessa, se solo formali o anche sostanziali; ma vi trovava anche un’altra e più profonda  contrapposizione che riguardava, per così, dire i “protagonisti” della democrazia e il ruolo, rispettivamente, dei gruppi di élite legati alla tradizione del Risorgimento e dei partiti che rappresentavano le realtà popolari.

Il problema della democrazia si intrecciava, subito all’indomani del 25 Luglio, con quello dei soggetti politici della democrazia e sul ruolo dei partiti.

I partiti si sarebbero affermati in ragione di una necessità storica più forte di qualsiasi consapevolezza critica, attraverso la stagione delle grandi formazioni di massa, capaci di condurre ,attraverso un forte radicamento sociale, un lavoro capillare di insediamento della democrazia nel Paese: la scelta del “Partito Nuovo” compiuta da Togliatti fu, in questo senso, del tutto fondamentale per la conformazione dell’intero sistema.

Si tratta di un altro elemento dell’eredità del passato sul quale giova riflettere.

Nell’assoluta centralità della Resistenza assunta nella costruzione del nuovo processo democratico italiano, soprattutto sul piano morale, non si può dimenticare quanto le radici della democrazia, non solo a livello di idee e di cultura politica della classi dirigenti, ma anche della sensibilità popolare fossero fragili e incerte.

Il problema per l’Italia, al momento della rinascita democratica era dunque quello di saldare antifascismo e democrazia.

Era un problema culturale ma anche e soprattutto un problema politico, che investiva in profondità come si è visto tutte le forze rappresentative delle realtà popolari e che non poteva essere risolto se non nel quadro della collaborazione nata dalla lotta stessa contro il fascismo.

Nessuna comprensione e valutazione storica del processo di ricostruzione democratica è possibile se non si tiene conto del punto di partenza e dell’ eredità del passato : la valutazione dell’eredità dei fatti avvenuti e del dibattito svolto tra il 25 luglio 1943 e il 22 dicembre 1947 (giorno della definitiva approvazione del testo costituzionale) deve ancora stare alla base della volontà di affermazione del dettato della nostra Carta fondamentale.

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LUIGI VASSALLO

25 luglio 1943: una tragedia con tratti farseschi

Luigi Vassallo, RICORDANDO IL 25 LUGLIO 1943

25 Luglio 1943: una tragedia non priva di tratti farseschi. Gerarchi fascisti che cercavano di salvare se stessi e una certa idea di fascismo scaricando su Mussolini tutte le colpe del disastro in cui era stata precipitata l’Italia. Un re che tentava di ricostruirsi una propria statura morale facendo arrestare Mussolini già abbandonato dai suoi gerarchi. Un’opposizione antifascista che faticava a parlare un linguaggio comune. Gli alti ufficiali che congiuravano per sostituire il duce con uno dei loro. Gli italiani che si illudevano che la caduta di Mussolini significasse finalmente la pace e sarebbero stati risvegliati dalle loro illusioni dalle fucilate sparate sui manifestanti per ordine del nuovo capo del governo. Tanti fascisti che avevano applaudito Mussolini nei giorni del suo trionfo che gettavano via camicie nere e simboli del fascismo. I fratelli Cervi che organizzavano una pastasciutta popolare per festeggiare la caduta di Mussolini, evento che viene ogni anno ripetuto in tutta Italia per iniziativa dell’Istituto Cervi: a questo proposito ha ragione la mia amica Claudia Carosi (storica dirigente dell’ANPI di Finale Ligure) a rivendicare che l’evento della pastasciutta, per non essere ridotto ad una delle tante sagre estive dei nostri borghi, deve essere sottolineato nella sua carica antifascista, non solo dell’esplosione di gioia per la caduta del duce, ma soprattutto perché quella prima pastasciutta fu resa possibile dalla disobbedienza antifascista che i fratelli Cervi avevano praticato per anni nascondendo il burro che i fascisti pretendevano di requisire e perché, nell’offrire al popolo il loro cibo, i fratelli Cervi non lo negarono ai carabinieri che non sapevano cosa fare davanti a quell’assembramento e neppure all’unico che si era presentato con ancora indosso la camicia nera, perché non aveva altro da mettersi.

Le premesse del 25 luglio

Nel 1940, quando Mussolini chiuse la parentesi della non belligeranza e ordinò l’attacco alla Francia già sconfitta dalla Germania, molti (escluso Ciano) prevedevano che la guerra sarebbe stata breve; anzi erano favorevoli all’entrata in guerra sia il re che i conservatori che si erano riavvicinati al regime.

Le cose, invece,  andarono diversamente: fu una guerra disastrosa per il popolo italiano e fu una guerra disastrosa per il regime fascista. I tedeschi presero la direzione del conflitto e imposero agli italiani le loro scelte, umiliandoli anche quando intervenivano  per evitare l’insuccesso militare italiano, come nel caso della fallimentare spedizione italiana in Grecia.  L’andamento della guerra scavò un solco tra il Paese e il regime, ma anche all’interno dello stesso regime tra fascisti e fascisti.

La retorica fascista, a partire dal mito del duce, non poté a lungo nascondere la verità, che la popolazione italiana sperimentava sulla propria pelle, prima attraverso le difficoltà economiche e la crisi alimentare, poi con i bombardamenti sulle nostre città, infine con le notizie dello sbarco degli alleati in Sicilia.

L’11 giugno 1943 l’VIII armata britannica del maresciallo Montgomery e la VII armata statunitense del generale Patton occupavano le isole di Pantelleria, Lampedusa e Licosa e si meravigliavano della scarsa resistenza opposta dagli 11.000 soldati italiani. Il 10 luglio gli anglo-americani sbarcavano in Sicilia e anche qua, a dispetto della retorica mussoliniana secondo la quale sarebbero stati fermati sulla linea del bagnasciuga, non incontrarono significative resistenze, anzi furono accolti con sollievo dalla popolazione e questo a prescindere da eventuali trame organizzate dalla mafia siculo-americana.

Il consenso popolare al fascismo, in parte spontaneo, anche per le iniziative fasciste in campo assistenziale e associazionistico, in parte canalizzato e rafforzato dalla retorica fascista e dal mito del duce, è ormai svanito. Il lancio di volantini da parte degli alleati su Roma e altre città italiane per invitare il popolo a ribellarsi al regime fascista “asservito al potere malefico dei nazisti” e a riconoscere non solo in Mussolini ma in tutti i gerarchi fascisti la responsabilità della guerra trova senz’altro facili echi nella popolazione.

Che cosa pensino le masse popolari, del resto, lo hanno già dimostrato gli scioperi operai del marzo 1943, formalmente scoppiati per questioni economiche, ma in realtà densi di contenuti politici, che Mussolini non intende riconoscere derubricando le manifestazioni operaie a rivendicazioni economiche, mentre il comandante dei carabinieri Hazon sottolineava l’ostilità della popolazione a Mussolini e al fascismo e il questore di Torino, nel denunciare 87 operai al Tribunale speciale di Roma, parlava esplicitamente di “movimento sedizioso inscenato con pretesti di miglioramenti economici”.

E il distacco dal fascismo era presente tra gli industriali, che davano per sicura la sconfitta di italiani e tedeschi nella guerra, nel Vaticano e nelle stesse forze armate con episodi di “divorzio” dal fascismo che lo stesso Mussolini enumerava ai suoi collaboratori: a Genova, a Milano, in certi casi dissenso degli ufficiali con propositi di attentati contro il duce o i gerarchi.

Intanto, mentre la sconfitta militare si profilava sempre più sicura, Ciano non riuscì a convincere Mussolini della necessità di abbandonare la Germania e di stipulare una pace separata con le potenze occidentali, appoggiandosi al re e al Vaticano, che, mentre il regime fascista stava crollando, andava aumentando il suo prestigio e poteva quindi costituire un canale privilegiato per i contatti con gli USA.

Così, si delineavano nel Paese tre congiure: la congiura dei fascisti moderati (guidati da Grandi) che puntavano a una trasformazione del regime dittatoriale fascista in regime parlamentare; la congiura dei militari (guidati da Badoglio) che puntavano a un colpo di stato militare; la congiura degli antifascisti moderati (guidati da Bonomi). Il re scelse la soluzione Badoglio e si servì della congiura di Grandi (col voto del Gran Consiglio del Fascismo del 24-25 luglio 1943) per sbarazzarsi di Mussolini.

Ma vediamo in azione  protagonisti e comprimari del 25 luglio 1943.

I partiti antifascisti

L’opposizione antifascista sta riorganizzando le sue strutture e, a fatica, tenta di arrivare a un coordinamento, consapevole della necessaria unità di tutte le opposizioni per la sconfitta del fascismo, ma permangono significative differenze nelle elaborazioni politiche dei diversi partiti.

Il Partito comunista è il più organizzato: ha mantenuto, a prezzo di grossi sacrifici, un Centro interno in Italia oltre alla Direzione all’estero, ha praticato anche nei momenti più bui una propaganda antifascista in mezzo al popolo, specie nelle fabbriche e nei gruppi universitari fascisti; dal 1942 pubblica il suo organo L’Unità; sostiene la necessità dell’unione di tutto il popolo italiano; propugna l’alleanza anche con i fascisti ricreduti ed onesti; gli obiettivi da perseguire sono la pace separata immediata e la cacciata dei tedeschi; la questione istituzionale, monarchia o repubblica, viene dopo.

Il Partito socialista sostiene una Lega del popolo per la liberazione del Paese e la pace separata; punta a un governo provvisorio e alla costituzione di consigli di fabbrica, di mestiere e di professione; ritiene irrinunciabile sostenere la Costituente e la Repubblica. Ancora più intransigenti sono gruppi socialisti giovanili come Socialisti rivoluzionari, Unione proletaria italiana Movimento di unità proletaria per la repubblica socialista.

Il Partito d’azione (nato dalla fusione del movimento Giustizia e Libertà con gruppi liberalsocialisti) si batte per un regime repubblicano, per la nazionalizzazione dei grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali, per la solidarietà sociale, per la cooperazione operaia e per l’autogoverno.

La Democrazia cristiana (nata dall’incontro di “anziani” del Partito popolare con “giovani” cattolici antifascisti, soprattutto del Movimento guelfo d’azione) rinvia la questione istituzionale (monarchia o repubblica) a una consultazione popolare dopo la fine della guerra, essendo al suo interno divisa sulla forma istituzionale. Subordina la politica alla morale senza, però, sostenere la subordinazione temporale dello Stato alla Chiesa; vuol favorire l’azionariato nel lavoro; afferma la centralità della piccola proprietà, soprattutto contadina, per la rinascita del Paese.

liberali rivendicano di essersi rinnovati nello spirito e negli uomini e di appartenere a un partito decisamente progressista, senza per questo rinunciare a conservare e difendere tutte le conquiste del passato. Al loro interno si distinguono una tendenza conservatrice (che è contraria al sovvertimento affrettato di un sistema produttivo provato e efficiente, anche se socialmente arretrato) e una tendenza più aperta (che propone un controllo rigoroso, senza escludere la nazionalizzazione, delle grandi industrie che operino nei servizi pubblici e di quelle che operino in regime di monopolio).

Intanto, l’opposizione mantiene i contatti col re attraverso Bonomi, anche se il re resta diffidente e restio a un coinvolgimento degli antifascisti nella soluzione della crisi.

Il duce

Fuori  dalla retorica autoreferenziale Mussolini non riesce più ad agire spregiudicatamente per volgere gli eventi a suo favore. Non riesce a convincere Hitler a sostenere con rifornimenti bellici lo sforzo militare dell’Italia o forse non riesce a parlargli con franchezza quando lo incontra. Si mostra stupito e amareggiato dalle notizie del diffuso malcontento nei suoi riguardi e minaccia, fantasticando, una terza ondata di riscossa fascista per far fuori oppositori e traditori. Si adatta a cedere alla richiesta di convocazione del Gran Consiglio del fascismo quando crede che la posizione di Bottai, che ritiene un suo fedelissimo, sia maggioritaria nel Consiglio. Poi, dopo il voto del Gran Consiglio, nell’incontro col re del 25 luglio, stando alla testimonianza dell’aiutante di campo del re, Puntoni, che, su richiesta del re, era rimasto nei pressi del salotto per intervenire in caso di qualche colpo di testa di Mussolini, appare smarrito, al punto che il re, che pure non brilla nell’occasione né per statura politica né per statura morale, si fa garante della sicurezza personale del duce, che, a fine colloquio, sarebbe stato invece arrestato proprio per ordine del re.

Sopraffatto dagli avvenimenti, Mussolini visse la fine del suo regime con un profondo atteggiamento di rancore: verso il re, contro l’alta borghesia che lui aveva favorito e dalla quale ora si vedeva abbandonato, contro generali e gerarchi dai quali si accorgeva adesso di essere stato ingannato quando gli avevano lasciato coltivare le sue illusioni sulla scelta militarista del Paese, contro il Vaticano e i preti verso i quali tornava a galla il suo giovanile anticlericalismo, contro i tedeschi stessi e contro il popolo che lo aveva assecondato nelle sue adunate di piazza e ora gli si rivoltava contro .

Così il fascismo concludeva drammaticamente la sua vicenda con una spaccatura tra la componente moderata conservatrice (che si strinse intorno al re e al Vaticano e successivamente intorno al rifondato partito cattolico) e la componente estremista che cercò di rianimare il presunto spirito originario del movimento fascista nella Repubblica Sociale di Salò, la quale, al di là della retorica, costituì uno strumento operativo della Germania nazista nella sua occupazione dell’Italia centrosettentrionale.

Il ruolo del Gran Consiglio

Era dal 1939 che il Gran Consiglio non si riuniva. Il 16 luglio 1943 una parte dei componenti rivolgono a Mussolini una formale richiesta di convocazione. Nella riunione, che Mussolini concederà convinto che Bottai abbia la maggioranza, si fronteggeranno due linee: quella di Bottai e quella di Grandi, che ha anche tentato di allacciare rapporti con Churchill e ora prova a intessere trame con gli ambienti del re.

La posizione di Bottai

  • Trarre il duce “dal soliloquio al colloquio”
  • Determinare la posizione del duce nell’ambito dei poteri che le leggi gli attribuiscono, esigendone da lui la puntuale osservanza
  • Riattivare il funzionamento di tutti gli spazi di consultazione, di controllo e di esecuzione, richiamando in vita il Gran Consiglio del fascismo e riportandolo alla sua struttura originaria e restituendo funzioni alle Camere, ai sindacati e alle corporazioni, nel nome di una necessaria corresponsabilità
  • In sintesi: rinvigorire l’azione fascista

La posizione di Grandi

  • Restituire al re i poteri militari, lasciando al duce quelli politici di primo ministro
  • Separazione dalla Germania prima che si effettui in Italia un colpo di stato nazista
  • Determinare le condizioni per impedire agli anglo-americani di esigere la resa incondizionata dell’Italia.

Nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, con 19 voti a favore (compreso quello di Bottai), 8 contro e 1 astenuto, fu approvato l’ordine del giorno Grandi:

“Il Gran Consiglio, riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzitutto il suo pensiero agli eroici combattenti d’ogni arma che, a fianco della fiera gente di Sicilia, in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e d’indomabile spirito di sacrificio delle nostre gloriose Forze Armate.
Esaminata la situazione interna ed internazionale e la condotta politica e militare della guerra, proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere a ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni, dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia, per l’onore e per la salvezza della Patria, assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione, che le nostre istituzioni a lui attribuiscono, istituzioni che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra augusta dinastia di Savoia.”

L’ordine del giorno gronda ancora di retorica che fa a pugni con la realtà (come il richiamo alla fiera gente di Sicilia, in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo italiano, proprio mentre i siciliani applaudivano l’arrivo degli anglo-americani come liberatori), ma ciò che conta è la resa incondizionata del fascismo in quel restituire al re tutte le sue responsabilità per la condotta della guerra.

Ora il re poteva intervenire facendosi scudo del voto del Gran Consiglio. Con questo voto e con l’affidamento del governo a Badoglio il fascismo, più che crollare, evapora, mentre resta in piedi la fascistizzazione dello Stato, senza che venga avviata, da parte della monarchia e del governo, una riflessione sul ventennio fascista per introdurre nella vita politica italiana anticorpi contro un possibile ritorno del fascismo o, meglio, contro una sua sopravvivenza sotto mutate sembianze e senza, ovviamente, avviare un recupero delle masse popolari al protagonismo politico.

Il re

Si conferma una figura debole e, a tratti, meschina. Sotto la spinta degli eventi, vorrebbe liberarsi di Mussolini ma si fa scudo con lo scrupolo che ogni sua mossa abbia un significato “perfettamente costituzionale”. Matura l’idea, stando alla testimonianza del figlio Umberto, di liberarsi di Mussolini entro la fine di luglio e, a seguito della convocazione del Gran Consiglio del fascismo, fissa la data del 26 luglio per la sua decisione. In realtà si aspetta proprio dal Gran Consiglio il pretesto costituzionale per un suo intervento, scartando pregiudizialmente la possibilità di valorizzare il malcontento popolare e le significative manifestazioni del marzo, perché preoccupato di eventuali derive rivoluzionarie che possano mettere a rischio la monarchia. In realtà, farebbe volentieri a meno di intervenire direttamente e ancora in un colloquio del 22 luglio cerca di far capire a Mussolini l’opportunità di un suo passo indietro da decidere autonomamente e responsabilmente. In ogni caso, scarta altre opzioni, come quella suggerita dal capo di stato maggiore Ambrosio di affidare il governo al generale Caviglia o quella proposta da Bonomi, a nome degli oppositori democratici, di ritirarsi dall’alleanza coi tedeschi e dalla guerra e di costituire un governo politico con gli oppositori antifascisti.

Così, sfruttando l’ordine del giorno Grandi approvato dal Gran Consiglio del fascismo, il re destituisce Mussolini e affida il governo (di tecnici e non di politici) al generale Badoglio, avviando una “sceneggiata” con la quale, mentre si proclama la continuazione della guerra accanto ai tedeschi, si avviano trattative con gli anglo-americani per una pace separata cercando di giocare anche la carta di un imminente pericolo rosso in Italia se la guerra dovesse continuare. Una “sceneggiata” che sarebbe una farsa se non fosse tragicamente puntellata da un lato dall’arrivo in Italia di 16 divisioni tedesche, che, con la scusa di difendere l’Italia dagli anglo-americani, preparano l’occupazione militare di lì a poco, e dall’altro dalla repressione delle manifestazioni antitedesche e antifasciste.

Il recupero delle masse popolari al protagonismo politico non avvenne il 25 luglio, anzi l’illusione che la caduta di Mussolini portasse automaticamente alla fine della guerra e al recupero dei diritti per tutti fu pagata duramente, con repressioni da parte del governo Badoglio e con altri due anni di sofferenze e di sacrifici, nei quali, attraverso la scelta di campo della Resistenza, operata da una minoranza di donne e di uomini,  trasversale alle classi sociali e agli schieramenti politici, si posero le basi per la costruzione, mai definitivamente compiuta ma sempre in lavorazione, di una società democratica che, coniugando libertà e uguaglianza, affonda la sua legittimità e la sua vitalità nella Costituzione della Repubblica Italiana.

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