di Franco Astengo

“Gutta cavat lapidem”: può essere così sintetizzato l’utilizzo dell’opera di Gramsci nell’ambito della “doppiezza togliattiana” per far sì che si scavasse nel monolite del “marxismo – leninismo” (solidificato in chiave idealistica)?
Il tema percorre la prima parte di “En attendant Marx” di Marcello Montanari (2023 edizioni Biblion) che descrive l’itinerario del marxismo italiano dal 1945 al 1989.

Almeno fino al convegno gramsciano del 1958 con le relazioni di Togliatti e Garin il confronto teorico sul marxismo sembrava misurato tra lo storicismo di “Società” che conservava un rapporto con la filosofia idealistica (anche se verso di questa era fortemente critica) nel modo di immaginare la trasformazione di una classe particolare in classe generale e il collocarsi tra “uomo copernicano” e “uomo totale” nell’interlocuzione con i livelli più alti della filosofia moderna (il neo-kantismo di Banfi e il neo-positivismo di Dalla Volpe).

Il tutto però non oltrepassava il marxismo ortodosso.

Togliatti (nel corso del convegno già citato e rispondendo anche a Bobbio) utilizza Gramsci (di cui aveva già fatto pubblicare un’edizione “ragionata” dei Quaderni) sorpassando l’interpretazione di Sereni che lo riduceva a esponente del materialismo storico – dialettico.

Nell’occasione Togliatti richiama come la stessa formazione del gruppo dirigente del PCI fosse avvenuta al di fuori dagli orientamenti ideali e politici sovietici (nel testo di Montanari si fa cenno al volume “La formazione del gruppo dirigente del partito comunista italiano 1923-24).

E’ da questo orientamento che deriva (riprendo il testo di Montanari) : “il Partito non più espressione degli interessi di una sola classe sociale, ma di una soggettività politica di massa, co-fondatrice della nuova democrazia costituzionale nata nel’48”. Così di seguito : “il marxismo doveva mostrare di sapersi misurare anche con una lettura della storia nazionale (della storia del Risorgimento così come di quella del fascismo, cui Togliatti stesso aveva dedicato le lezioni pubblicate da “Stato Operaio”) per offrire una propria lettura dei processi costitutivi dell’identità nazionale, per mostrare la sua capacità di guardare agli interessi collettivi e, infine, per giungere a una esatta comprensione delle mutazioni della morfologia sociale indotte dalla modernizzazione capitalistica”.

Su di un punto però la riflessione post- togliattiana accumulò un sensibile ritardo : nella costruzione di quell’intellettuale collettivo, interlocutore di movimenti e istituzioni dal basso, promotore di una riforma culturale e morale che Gramsci aveva indicato (un ritardo che poi si sarebbe visto, spaventosamente, al momento della liquidazione del partito nell’89): riforma culturale e morale che avrebbe dovuto colmare, nel disegno del grande pensatore sardo, la realtà di un paese che non aveva avuto la riforma religiosa e che aveva costruito il suo “Risorgimento” soltanto attraverso l’opera di una élite intrisa di romanticismo.

Non si può fare a meno di considerare la “centralità gramsciana” pur nell’articolazione della riflessione marxista sviluppata in Italia nel corso del XX secolo.

Gramsci infatti fu il solo, tra i marxisti della sua epoca, che non si limitò a spiegare il fallimento della rivoluzione nei punti alti dello sviluppo capitalistico con la teoria del “tradimento” dei socialdemocratici, o con la debolezza e gli errori dei comunisti; e allo stesso tempo non ne trasse affatto la conclusione che la Rivoluzione russa era immatura ed il suo consolidamento in Stato un errore.

Cercò invece le cause più profonde per le quali il modello della Rivoluzione Russa non poteva essere riprodotto nelle società avanzate.

La rivoluzione russa rappresentava, però, il retroterra necessario (e il leninismo un prezioso contributo teorico) per una rivoluzione in Occidente, di percorso diverso e di esito più ricco.

La rivoluzione era dunque, per Gramsci, un lungo processo mondiale, per tappe, in cui la conquista del potere statale, pur necessaria, interveniva ad un certo punto secondo le condizioni storiche, e in Occidente presupponeva comunque un lungo lavoro di conquista di “casematte”, la costruzione di un blocco storico tra classi diverse, ciascuna portatrice non solo di interessi diversi ma con proprie radici culturali e politiche.

Nel contempo, una tendenza già inscritta nello sviluppo capitalistico e nella democrazia ma altrettanto il prodotto di una volontà organizzata e consapevole che vi interviene, di una nuova egemonia politica e culturale, di un nuovo tipo umano già in formazione.

Tutto questo è stato disperso e sospeso nella polverizzazione degli anni’80-’90.

Franco Astengo



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