Michele Mezza mi ha segnalato una sua riflessione sul PD di Elly Schlein pubblicata su terzogiornale.it. Vi ho trovato molti elementi condivisibili sul nodo di fondo: qual è la cultura politica che si esprime e dove essa si colloca rispetto al capitalismo reale del nostro tempo? E’ bene averlo chiaro, fosse anche solo per evitare disillusioni amare ex-post. Ovviamente questo non vuol dire che il Pd non possa recuperare spazio e forza nuovi proprio in virtù della svolta che la Schlein sta imprimendo. Che questo non potrà che fare bene alla democrazia è ben evidente. Che risolva il tema della Sinistra mi pare altra cosa. E comunque, su questi temi, ci piacerà continuare il confronto ospitando tutte le idee che si manifesteranno. G.N.

La borraccia che le viene passata quando inizia a parlare, al posto del solito bicchiere d’acqua, è il simbolo dello stile da determinata attivista sociale che la segretaria del Pd, Elly Schlein, si trova a proporre. Una disinvolta millennial, con pratiche di attivismo sociale, all’assalto del mausoleo della sinistra italiana. Emblematico lo sguardo alla platea: in prima fila le icone del passato, con gli sfidanti sconfitti e il vecchio gruppo dirigente, da Letta a Zingaretti; alle spalle, frotte di ragazzi venuti alla ribalta con le Sardine emiliane. Tutti raggruppati nella pletorica direzione. Ma il discorso d’insediamento conferma la cesura antropologica, prima che politica, che si sta consumando rispetto al continuismo degli eredi del Pci e della sinistra cattolica. Il Partito democratico è da oggi una comunità liberal e radicale con la borraccia.

In sostanza, il manifesto della leadership del nuovo Pd sembra tradurre in italiano le suggestioni della mobilitazione obamiana, a cui partecipò, all’inizio della sua esperienza politica, la segretaria democratica. Il programma è segnato da un vigoroso ed entusiastico impegno contro gli eccessi del capitalismo – sfruttamento illegale, ingiustizie palesi, sperequazioni ingiustificate –, e inoltre da un recupero del welfare come fattore di riequilibrio, innanzitutto sanità e scuola pubblica. Al centro delle preoccupazioni, la correzione – non certo la trasformazione – delle deviazioni del lavoro, soprattutto quelle del precariato. Il Pd sarà il partito dell’ispettorato del lavoro.

Una tematica, questa delle correzioni delle distorsioni più macroscopiche dell’economia, a cui il neopresidente Bonaccini ha aggiunto la tradizione del partito emiliano, concreto e governista, con un uso delle politiche sociali per rompere il sodalizio fra destra e ceto medio. Una versione amministrativista di ceti medi ed Emilia rossa. Del tutto assenti, invece, i temi strutturali. Il lavoro non si rappresenta per condizionare la proprietà, e dunque negoziare le soluzioni politiche, ma solo per bonificare le forme più indecenti di sfruttamento, come appunto il precariato.

Mai citata la politica industriale, nessun riferimento ai modelli di sviluppo, e tanto meno alla collocazione del Paese nella divisione internazionale del lavoro. L’Europa rimane uno sfondo inevitabile ma non problematico. Nell’economia si predica ma non si interferisce. Lo scontro con la destra è innanzitutto una contrapposizione di sensibilità e di stili di vita: inclusione e attenzione agli ultimi rispetto alla radicalizzazione sovranista e localista dei secondi e dei penultimi.

Il digitale, e qui cominciano anche le delusioni rispetto alle aspettative, non è apparso mai in tutto il dibattito: né come aggettivo, il mondo che diventa digitale, né come sostantivo, la transizione verso un nuovo mondo. Silenzio assoluto circa il dominio dei monopoli digitali sulle relazioni sociali e sui rapporti di produzione; e nessuna critica alla deriva individualistica. La comunità, che sembra avere in mente Schlein, è un mosaico di individui, non certo una concatenazione di soggetti negoziali.

La segretaria ha molto insistito su una linea di “corpo a corpo” con la sua dirimpettaia di Palazzo Chigi: non cederemo niente alla Meloni, dice, prendendo come bandiera la mobilitazione antifascista di Firenze.

Dopo il tentativo del Lingotto di Veltroni, e l’incursione del guastatore Renzi, questa volta la trasformazione del partito del centrosinistra sembra più strutturale e definitiva, anche perché – è la vera novità – è vissuta come una conseguenza dell’evoluzione della base sociale e non come una rivoluzione dall’alto del suo gruppo dirigente. Come diceva nel film di Luigi Magni In nome del papa re Nino Manfredi, che interpretava un abate che raccoglieva le confidenze di un cardinale in Vaticano alla viglia di Porta Pia: “Eminenza qui non finisce tutto perché arrivano i bersaglieri, ma arrivano i bersaglieri perché è già finito tutto”.

Guardatevi attorno, dice la vincitrice delle primarie, non vedete che siamo già un’altra cosa? E l’assemblea è infatti un’altra cosa.La vecchia narrazione del Novecento è completamente esaurita. Questa comunità, per rimanere alla definizione della segretaria, è un altro sogno, o meglio è un salto di stile: un soggetto che contende la forma del capitalismo e ne riduce gli eccessi. Rivendicando reddito, non potere.Non a caso, il terreno di scontro che oggi appare più irriducibile – la strage di Cutro e la legge Bossi-Fini – viene vissuto dal nuovo Pd come una rivendicazione di umanità, non come quella di un riassetto strutturale delle relazioni di scambio nel Mediterraneo.

La sinistra soccorre non trasforma: appare questo lo slogan di un partito di ceto alto, che scambia attenzione per gli ultimi con una supremazia culturale, che vuole poi trasformare in diritto a governare quello che c’è. Sarà così un partito molto simile alla Comunità di Sant’Egidio, ma senza il suo respiro globale. La rivendicazione di avere uno sguardo lungo sul mondo per tornare a essere forza internazionale si riduce, al momento, alla conferma del sostegno dell’Ucraina; su tutto il resto silenzio distratto, dal Medio Oriente alla questione africana, al tema della Cina, neanche una volta citata.

Il vero buco nero, però, quello che trasforma la leggerezza irridente di una nuova generazione che si scaglia contro la pesantezza della politica in una frivolezza irritante, è il totale silenzio sullo scontro aperto intorno alle nuove forme di interferenza digitale. Siamo nel pieno di una spirale che vede forme di intelligenza artificiale affiancare, per poi sostituire, funzioni e abilità; siamo nella programmazione ferrea di lavori e di professioni da parte di centri di controllo sovranazionali. Ogni svincolamento dalle vecchie politiche industrialiste diventa visione moderna, e non furbizia radicaloide, se viene compensato da una chiara cultura antagonistica ai grandi proprietari dei nostri dati e delle nostre discrezionalità. È la voragine che rischia di ingoiare anche questo ennesimo tentativo di dare corpo a una sinistra che affronti la modernità, per convivere con un sistema che sta restringendo ogni spazio di autonomia politica e sociale.

Tanto è vero che, mancando una missione di contestazione delle tendenze deterministe del presente, manca anche una proposta organizzativa. Il gioco semantico di sostituire il termine “partito” con “comunità” avrebbe senso se si organizzasse concretamente la modalità di partecipazione alle decisioni. Aprite le porte dei circoli e mandate a casa i cacicchi – ha gridato la segretaria, facendo intendere che questa volta non si convive con i gattopardi, ma poi? Dietro a quelle porte che succede?

La nomina di una direzione larga, di 175 componenti, con dentro tutti, quelli di ieri e quelli di domani, non fa intendere cosa accadrà: sicuramente si restringeranno le sedi di deliberazione, come sempre accade quando si allargano incontrollabilmente i luoghi di rappresentanza. Il balletto dei volti nuovi che in questi giorni ha caratterizzato il debutto mediatico del “nuovo corso” non rassicura: al momento si sostituisce ruolo per ruolo, come si dice nel calcio quando l’allenatore cambia i titolari con i panchinari, senza però mutare lo schema della squadra. Nella società “a rete” l’organizzazione invece è sostanza: la condivisione delle fasi decisionali deve essere la conseguenza della condivisione delle fasi promozionali, oppure si cambia tutto per non cambiare niente. E il vero nodo riguarda la natura dell’adesione e della vita di un partito. Il superamento della narrazione del Novecento non è inevitabilmente pacificazione e neutralizzazione della politica: piuttosto – la destra lo ha mostrato – capacità di contestare equilibri e titolarità dei poteri.

Un partito diventa un sistema di connessione fra interessi e deliberazioni se organizza conflitti e attiva protagonismi nel negoziato sociale. Se non si collegano movimenti sociali con l’elaborazione strategica, abbiamo appunto una comunità che testimonia ma non dirige, e tanto meno trasforma. La declamata priorità ambientale, come recitava un cartello in una delle ultime manifestazioni, se non prevede un cambio dei modi di produrre e consumare diventa solo giardinaggio. E un partito giardino non serve a nessuno.

Michele Mezza

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