Pur essendo una raccolta di testi pensati e scritti per specifiche occasioni (seminari, convegni, pubblicazioni su riviste, in particolare il web-magazine fuoricollana.it che l’autore dirige insieme a Federico Losurdo), il libro di Antonio Cantaro, L’orologio della guerra. Chi ha spento le luci della pace, NTS Media, è pervaso da una forte ispirazione unitaria: il desiderio di comprendere e svelare la drammatica complessità della tragedia che stiamo vivendo dal 24 febbraio 2022; cioè dal giorno in cui la guerra – un’altra guerra, ma diversa e molto più pericolosa rispetto a tutte le altre che si stanno combattendo nel mondo –, ha cominciato il suo crudele lavoro in Ucraina. Di capire quello che è successo c’è infatti un drammatico bisogno, schiacciati come siamo dalle semplificazioni prodotte dalle opposte propagande – parti integranti esse stesse del conflitto – che tendono a imporre un’unica razionalità, quella binaria esemplificata dalle perenni polarità: buono-cattivo, vittima carnefice, Occidente-Oriente, democrazia-autocrazia, noi-loro. Nulla di nuovo, si dirà. Lo sappiamo, la guerra ha bisogno di mobilitare i cuori e di spegnere i cervelli, costruendo un’immagine demonizzata del nemico e una idealizzata di sé. Ma davvero possiamo rassegnarci a questa china?


Eppure dovremmo sapere, per esperienza diretta, quanto sia pericoloso questo processo di “incretinimento nazionale”, come lo chiamò Gramsci riferendosi alla campagna antitedesca con la quale i settori più beceri dell’interventismo italiano cercavano di rappresentare la prima guerra mondiale come uno scontro tra civiltà, tra umanità e barbarie. Una china pericolosa per il nostro presente. Ma a maggior ragione per il futuro, visto il contesto globale nel quale il conflitto tra Federazione russa e Ucraina è inscritto: quella “Guerra grande”, come la definisce “Limes”, che coinvolge, per ora non direttamente, numerosi altri soggetti, a cominciare da USA e Cina.
In questa prospettiva non si tratta solo di combattere le manifestazioni più becere di ostracismo della cultura russa a cui fa esplicito riferimento il capitolo “Morire per Kiev?”, che prende spunto dall’incredibile sospensione del corso su Dostoevskij all’Università Bicocca. Certo, quell’episodio e gli altri analoghi che si sono verificati nel nostro paese sono particolarmente gravi. E soprattutto fanno il gioco di Putin. Il quale gongola: «almeno su questo piano ha vinto.» L’odiato Occidente lo sta imitando. «Vuole escludere la Russia dall’Europa esattamente come il Presidente russo vuole escludere l’Europa dalla Russia. Una trappola.”» (pag. 48) Sul piano culturale, e quindi anche politico, un vero disastro. Perché così si finisce per negare le radici europee della cultura russa e, viceversa, l’importanza per l’Europa e non solo della cultura russa. E non a caso è proprio contro questo legame, certo problematico e aperto, che si sono scagliati i fautori del mito retrivo della Russia eterna.
Però non basta evitare gli eccessi censori contro gli scrittori e gli artisti russi o denunciare le forme più triviali delle opposte propagande. Il compito che il libro di Cantaro si prefigge è molto più ambizioso. Si propone di capire chi ha spento le luci della pace.
«Poiché agli uomini è concesso di tornare con il pensiero e con l’animo libero da pregiudizi a quei giorni, quando ebbero origine molte delle cose che stanno accadendo, la guerra infinita» (pag. 99) in cui il mondo rischia di sprofondare, allora, come direbbe Kant, questo esercizio di valutazione critica sulle origini del conflitto diventa un imperativo morale, un atto di libertà. Quell’impegno di riflessione e di scrittura quotidiana di cui le pagine di questo diario intellettuale sono una sintesi necessariamente parziale.


La nuova Guerra fredda
L’inquieta ricerca che anima queste pagine si concentra in particolare su alcuni nodi, essenziali per comprendere ciò che è accaduto e dove stiamo andando. Il primo è appunto quello dell’inquadramento del conflitto ucraino nel più generale scontro USA-Cina, che porta impresso il segno dell’incertezza, come momento particolarmente intenso del disordine che caratterizza il declino del globalismo neoliberale (pag. 86). A differenza della prima guerra fredda, che aveva prodotto un ordine (pur basato su un clima di angoscia per la minaccia nucleare e sulla repressione interna), questa seconda guerra fredda si sviluppa in modo più pericoloso e confuso. Perché gli Usa si battono per scongiurare il declino della loro egemonia globale contro un avversario, la Cina, in ascesa. Infatti, nel concetto strategico statunitense il baricentro del confronto egemonico è ormai da tempo l’Indo Pacifico, e non più l’Atlantico. La lotta contro la Russia è un fronte importante, ma tutt’altro che l’unico. Il principale convitato di pietra di ciò che è accaduto dal 25 febbraio 2022 continua ad essere la Cina. È la seconda guerra fredda, freddo-calda. E Taiwan potrebbe, un giorno, diventarne uno dei simboli, come molti osservatori ripetono da tempo.
Inoltre, la prima guerra fredda fu il confronto in un certo senso equilibrato di due universalismi progressisti, che vedevano ciascuno nel proprio nemico un concorrente nell’impresa di razionalizzare il mondo. La Prima Guerra Fredda non è stata certo un pranzo di gala: da una parte l’anticomunismo occidentale, dall’altra l’anticapitalismo terroristico in alcune parti del mondo. Tuttavia si è basata anche su un clima di fiducia nel progresso e nelle risorse di sviluppo sociale su cui i due sistemi competevano. Putin è molto più imprevedibile. Il suo nazionalismo è per certi versi più familiare – con i suoi caratteri tradizionalisti e autoritari, così simili a tanta parte della cultura della destra nostrana –, ma è al tempo stesso luttuosamente segnato da un nichilismo, figlio di un trauma da modernizzazione violenta, che lo spinge alle scelte più scellerate.


L’Europa vittima, l’Unione complice
L’altro punto cardine attorno al quale si concentra la riflessione di Cantaro è quello dell’Europa. Vengono al pettine con la guerra in Ucraina i nodi della costruzione europea che si sono intrecciati dall’inizio del processo di integrazione comunitaria e nel trentennio successivo alla dissoluzione dell’Unione sovietica. Prima del ’91 all’Europa era stata affidato il compito di prevenire lo scoppio di un’altra Guerra Mondiale. I trattati di Roma del 1957 non contengono per la verità una strumentazione politico-costituzionale idonea a perseguire questi obiettivi.«E, tuttavia, il tema della pace in Europa [ha agito] prepotentemente, come un imperativo, sottotraccia.» (pag.144) È piuttosto al benessere e allo sviluppo dei commerci che fu affidata la missione di rendere inoffensivi e pacificati al loro interno gli Stati nazionali. «La comunità europea ha, insomma, in questa fase il dichiarato scopo di diluire nazionalismo e rivalità di potere, aiutando tutti nel prosperare e sostituendo la logica a somma zero della politica di potenza europea con quella a somma positiva di un processo decisionale comune.» Ma ciò che è avvenuto nei trent’anni che ci separano dalla fine della guerra fredda e da Maastricht ha sconvolto la auto rappresentazione pacifista dell’Unione. Se da una parte infatti si è assistito a una progressiva rimilitarizzazione dei rapporti tra gli Stati e tra le principali potenze e alla riattivazione dello scontro ideologico tra democrazie ed autocrazie, dall’atra il processo di allargamento a est dell’Unione si è ambiguamente sovrapposto all’espansione militare della Nato, di cui l’Unione europea è sembrata essere un’articolazione economico-ideologica. «La vocazione dell’Europa quale potenza civile e con essa la sua deontologia multilaterale nelle relazioni internazionali, la sua flessibilità diplomatica quale strumento privilegiato per la composizione e risoluzione dei conflitti» sono state riassorbite all’interno di una logica di rimilitarizzazione dei rapporti internazionali che è stata imposta nei rapporti con la Russia e con la Cina.
Le risoluzioni del Consiglio Nato di Madrid dello scorso giugno sono in questo senso esplicite. «Con la conseguenza di intrappolare il Vecchio continente in una competizione regionale con la Russia e in una competizione globale con la Cina, rendendo ulteriormente problematiche e quanto mai temerarie le deboli velleità di una sua autonomia politica e strategica. La seconda guerra fredda sta, insomma, da tempo erodendo la pur relativa autonomia che l’Europa aveva coltivato nel corso di oltre mezzo secolo e mettendo definitivamente la parola fine all’illusione della nascita di un nuovo ordine internazionale liberale che ne avrebbe ulteriormente alimentato il ruolo e la funzione nel mondo.» (pag. 144) Ecco allora l’assunzione dell’attuale postura atlantista-bellicista delle classi dirigenti dell’Unione, che anziché essere come si vorrebbe nella retorica ufficiale, l’indizio di un rafforzamento dell’unità politica di un’Europa soggetto autonomo, è in realtà ancor più dipendente e subalterna.
Un’Europa a rimorchio del disordine globale che “regna” nel mondo, lontana dall’essere un soggetto di riferimento capace di indicare nella (de)globalizzazione in corso un orizzonte di giustizia, di cooperazione, di pace. Un’Europa in realtà incapace di affrontare la sfida di una politica climatica ed energetica all’altezza della drammatica prospettiva che abbiamo di fronte perché prigioniera del fideismo tecnologico e di quello mercatista. Ma soprattutto un’Unione europea incapace di perseguire il proprio interesse, anzi complice del progressivo assoggettamento strategico. Come dimostra da ultimo dall’Inflation Reduction Act (Ira), recentemente lanciato dal governo statunitense. Un provvedimento che mira a colpire anche l’Unione europea. In gioco c’è la scelta americana di attuare il decoupling dalla Cina, che è palesemente contro l’interesse del Vecchio Continente e in particolare contro quello della Germania. Un altro colpo, insomma a quella autonomia strategica in campo economico che l’Europa ha visto compromessa dalla guerra in Ucraina e di cui i crescenti costi per l’energia sono solo la punta dell’iceberg.


Il movimento per la pace che manca
E infine il nodo del pacifismo irrilevante, sia quello politico ed etico-religioso, sia quello giuridico. Tanto privi di peso politico da spingere recentemente Gaetano Azzariti a scrivere sul “Manifesto” del 31 gennaio un’amara parodia dell’articolo 11 della Costituzione aggiornato alla condotta politica delle classi dirigenti del nostro paese e non solo: «L’Italia ripudia la pace e riconosce la guerra come strumento di libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.» Ciò che più sconcerta al riguardo è che al permanere e al rafforzarsi della opposizione maggioritaria nel nostro paese alla prosecuzione del sostegno indiscriminato ai combattimenti, corrisponde la totale assenza di iniziative in sede politica finalizzate a ottenerne una sospensione. Nonostante il crescente numero degli intervistati si dica contrario a inviare armi da parte dell’Italia, la condotta dei governi Draghi e Meloni, in assoluta continuità su questo come su altri dossier, non cambia di una virgola. Insomma, nonostante le iniziative anche importanti che si sono svolte in questo periodo, non si riesce a dare espressione politica adeguata alla domanda che sale dal paese. E ciò nonostante sia palese la menzogna di chi parla dell’escalation in corso come un modo per far cessare la guerra e non per alimentarla. Come peraltro è indiscutibile che la lunga attività di militarizzazione (fornitura di armi, assistenza militare, esercitazioni congiunte) della crisi ucraina messa in atto negli anni che separano EuroMaidan dall’invasione russa non hanno fatto che preparare questa guerra. Se il loro intento era quello di scoraggiare i russi e prevenire la guerra, è chiaramente fallito. Forse si potrebbe dire, allora, che le conseguenze di queste azioni dei riarmo (il loro vero obiettivo) era piuttosto quello di consentire all’Ucraina di resistere all’invasore e cioè di fare la guerra. Con il che si dovrebbe concludere che non è vero che chi vuole la pace prepara la guerra (si vis pace para bellum), ma chi prepara la guerra vuole la guerra (come peraltro dimostra, da parte sua, la condotta di Putin).
Cantaro rileva che in occasione di questo conflitto ha raggiunto l’apice il processo di capovolgimento di senso del significato della guerra. «Da parte “russa”, da parte “ucraina”, da parte “occidentale”.» Il presupposto, che tanti postulavano come «indisponibile nel secondo dopoguerra, che l’unica posizione moralmente seria (M. Dogliani, 2022) non potesse essere che quella politica, altamente politica, per cui le guerre, se si vuole essere fedeli al dovere giuridico-costituzionale di perseguire la giustizia tra le Nazioni, vanno ripudiate e fermate il più presto possibile», ha iniziato a vacillare.
Cosa fare, dunque? Come superare l’impotenza di una maggioranza che chiede invano azioni concrete per interrompere il conflitto? Il pacifismo, sostiene l’autore, deve innanzitutto «interrogarsi sulla natura divisiva, ancora oggi, dell’evento guerra. L’operazione militare speciale di Putin e la resistenza Ucraina hanno prodotto incomprensioni e lacerazioni nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie, nei rapporti con persone con le quali abbiamo sempre condiviso di fronte ad eventi drammatici un inscalfibile sentire comune, una comunanza di giudizio e di sentimenti. Uno smarrimento sul quale un pacifismo, che voglia essere all’altezza dei tempi, deve profondamente interrogarsi.» Ma è forse necessario anche riflettere sull’assenza di un discorso mobilitante, non solo in termini simbolici (che sono sempre essenziali), ma anche di contenuti. Se è vero, come ricorda Cantaro sulla scorta di Papa Francesco, che la guerra nasce dall’ingiustizia, sarebbe necessario ricostruire il nesso tra pace e giustizia, perché è «dal mancato riconoscimento dell’eguaglianza nell’accesso alle risorse, da una eguale speranza di futuro per i propri cari, per la propria comunità» che discende la dinamica che produce inevitabilmente conflitto. Perché non c’è pace sino a quando non viene concretamente ricostruita «la dignità la possibilità di sentirsi protagonisti.»


La crisi della democrazia: là dove tutti i fili si intrecciano
Inoltre bisognerebbe riconnettere il tema della irrilevanza della opposizione alla guerra con quello della degenerazione oligarchica delle democrazie, anche in questo caso, ricorda Cantaro, denunciata da Papa Francesco. (pag 193) Un processo di svuotamento degli istituti democratici – ne abbiamo avuto un’ulteriore conferma con le percentuali di astensione nelle elezioni regionali in Lombardia e Lazio – che viene da lontano e che ha tra le molteplici matrici anche la percezione dell’assoluta irrilevanza della volontà degli elettori nella determinazione delle scelte politiche, sempre più chiaramente prodotte da apparati di potere culturalmente omogenei. Il crollo della partecipazione elettorale viene, d’atra parte, a conclusione di un lungo processo di inaridimento della vita democratica, concretizzatosi nella distruzione dei soggetti collettivi ( partiti, sindacati, ecc.) e dei luoghi di socializzazione. Come è stato acutamente osservato da Mark Fisher, il neoliberismo ha utilizzato a questo scopo sia la speranza che la paura, con una doppia strategia con la quale ha da un lato attaccato le reti sindacali, le identità politiche e i corpi sociali, mentre dall’altro ha cercato di sedurre i singoli lavoratori promettendo un paradiso consumistico e un lavoro più appagante, libero dalle rigidità del modello fordista e dalla “burocrazia” del welfare. Le persone sono state insomma disattivate come agenti politici. Al posto di soggetti formati e politicamente attivi si è cercato di creare individui isolati e dediti esclusivamente alla intensificazione delle proprie capacità imprenditoriali. La pandemia di ansia e depressione che costituisce la cifra esistenziale caratteristica della società neoliberale si accompagna non a caso alla demoralizzazione prodotta dal venir meno di un futuro che sfugga alla tirannia del profitto come unico valore nella vita umana.
Il risultato di tutto ciò fa impallidire le più sfrenate fantasie oligarchiche. Assistiamo difatti a una limitazione della cittadinanza ottenuta non per mezzo di una violenta resezione dei diritti politici, ma per una sorta di auto mutilazione del corpo elettorale. Di fatto la cittadinanza tende a coincidere con la condizione di coloro che sono economicamente e culturalmente privilegiati. Tornano a operare le paurose “clausole di esclusione” teorizzate dal liberalismo classico, sia all’interno delle società che tra le diverse aree del mondo per realizzare quella “democrazia dei signori” di cui parlava Domenico Losurdo. Come sostenne Karl Polany: quando gli individui umani vengono privati della copertura protettiva delle istituzioni culturali, diventano vittime di un marasma sociale, che distrugge le basi stesse della democrazia. E se si vuole porre rimedio a questa deriva è necessario un radicale mutamento del modello di sviluppo economico, perché quello attuale, ricorda Cantaro citando Berlinguer, «produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità» . E, potremmo aggiungere senza temere di tradire il pensiero di Berlinguer, mette in pericolo il sogno di una società più libera e pacifica.

Donato Caporalini

Donato Caporalini è Docente ed è stato Direttore dell’Istituto Gramsci delle Marche

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