Riflessioni a modo mio, cioè “terra terra” (ma non tutte).
Per cominciare, credo sia realistico ritenere che poco sarà come prima e ci vorrà un po’ di tempo per recuperare il “prima”. O, meglio, quella parte, quelle caratteristiche del prima che ci piacerà recuperare e/o ci sarà consentito di recuperare.
Cominciamo dalla cosa più semplice e meno “grave” che è l’estetica: sono salvi solo i calvi, ma gli altri? Quando ritorneremo per le strade e riavremo accesso a barbieri e parrucchieri saremo una società di capelloni; molti risulteranno invecchiati perché coperti di capelli insolitamente bianchi che la tinteggiatura (il colore come dicono i parrucchieri) non ha più potuto coprire; non pochi maschi saranno anche barboni; tutti saremo più in ciccia.
Ma questo sarà anche un modo dal quale quelli che vorranno potranno più agevolmente recuperare il “prima”. Cioè, questa è una resilienza più agevole da realizzare.
Altre ve ne sono che, per scelte personali o per imposizioni dall’alto, potranno avere tempi più lunghi o, addirittura, non potranno essere recuperate.

Ripropongo a questo riguardo una riflessione che avevo fatto per “repubblica” il 17 marzo ( Più libri, meno tv. Cosa resterà dopo la crisi?) sul modo, su cosa, sul modo e in particolare, su chi può avere influito in modo irreversibile il tempo del coronavirus.
Ne scrivevo in questo modo osservando che molti, parafrasando il titolo di uno dei capolavori di Gabriel Garcìa Marquez, scrivono di “… al tempo del coronavirus”. Come riempire quei puntini? Una parola che le comprende tutte è vita: la vita ai tempi del coronavirus. Una vita il cui modo di portarla quotidianamente avanti è stato imposto e non è il frutto di una personale scelta. Il che ha obbligato molti ad esercitare la fantasia sul modo in cui convivere con l’ambiente di casa, con l’eccezionale quantità di tempo a disposizione, con i divieti e le progressive mancanze.
Le possibilità offerte dalla convivenza non sono uguali per tutti, ma differenti per chi vive in case definibili confortevoli e chi –forse i più- non ha questa fortuna. Ma quale che sia la confortevolezza dell’ambiente domestico, dovunque c’è una sedia sulla quale accomodarsi per leggere un libro. Magari non dovunque c’è un libro e, in tal caso non è facile approvvigionarsene perché le librerie non sono state comprese tra i negozi che forniscono servizi essenziali, il che è perfettamente in linea con le tendenze di un paese in cui si legge tuttora molto poco. Molto più diffusa, invece, è la presenza di un televisore le cui diecine di reti offrono di tutto. Di un “di tutto” però decrescente se i suoi contenuti –proprio per motivi di coronavirus- non possono essere rappresentati dai programmi tradizionalmente seguiti. Bisognerà farsene una ragione e imparare che si può vivere (per quelli che ne avevano una serale frequentazione) senza Bruno Vespa e il suo “porta a porta” sino a dover rinunciare (pare dai primi di aprile) al quotidiano “un posto al sole” e per sapere come andranno a finire gli attuali intrecci di amori, casi giudiziari e problemi di lavoro bisognerà attendere la ripresa delle registrazioni e la loro messa in onda che difficilmente avverrà prima dell’autunno. Ma, soprattutto, come ci si adatterà ad una quarantena senza calcio e soprattutto senza il Napoli?
Ecco un argomento serio: il dopo coronavirus che certamente ci sarà (certus an incertus quando) quanto sarà di resilienza e quanto di adattamento?
Intendo dire che quando il capovolgimento del quotidiano che ha trasformato la maggior parte di noi da nomadi in stanziali avrà fine, si dovrà scegliere e magari senza o con scarse imposizioni, se tornare al modo di vita precedente o modificarlo adattandolo ai risultati che ha avuto su ciascuno un’esperienza mai vissuta con queste caratteristiche. Varrà la pena riflettere molto su questo “dopo” e non solo in termini di cittadini, ma ancor più di amministratori. Tra i tanti due casi su tutti: il recupero delle sedi ospedaliere buttate alle ortiche per ridurre la spesa della Sanità; il telelavoro.
Anche la morte ai tempi del coronavirus ha colpito e insegnato. Non mi riferisco alle migliaia di persone morte perché colpite dal virus, ma a quanti lo sono per altre patologie i quali –ma questo vale per tutti- sono stati privati del funerale. Una privazione, però, da considerare molto più limitata per quanti hanno scelto la cremazione. Anche questa sarà una scelta da mettere in bilancio (Ma in proiezione molto futura, per carità) anche per contrastare gli abusi e le speculazioni che caratterizzano nei cimiteri il post-mortem.

Tuttavia c’è altro da aggiungere alla riflessione per completarla perché per paradossale che possa sembrare il “classico” bicchiere che conteneva il coronavirus può anche essere visto per la parte “piena”. Non mezza, certamente, ma un po’ sì. Soprattutto per quello che riguarda l’invito a ricostruire la storia delle negligenze del passato; il peso da dare a soluzioni attuali; l’esigenza di attrezzarsi per prevenire in modo non più traumatico eventi di questo tipo.
Dunque quando tutto sarà finito (anche questo succederà) potremo cominciare a vedere la parte piena del bicchiere. Certo considerando i contagiati, i malati, i morti c’è poco da vedere di pieno nel classico bicchiere i cui contenuti certamente non sono da dividere equamente a metà. Tuttavia una parte da considerare meno negativamente, diciamo così, c’è.
Può sembrare cinico e paradossale, ma è così. È stato così durante tutte le crisi, economiche e sanitarie, che hanno costretto a regolare diversamente stili di vita che poi sono diventati oggetto di un più ricorrente e definitivo mutamento. Dopo il tremendo colera del 1884, Napoli fu “sventrata” nei quartieri focolaio del vibrione e risanata anche urbanisticamente. Dopo quello del 1973 si capì che le cozze –esageratamente colpevolizzate- e i frutti di mare in genere non andavano mangiati crudi e si diffusero le vasche di stabulazione eccetera eccetera.
Dopo il coronavirus, quello che sarà il dopo, non mancheranno ripercussioni provocate dagli insegnamenti di questo virus.
In una intervista a Stella Cervasio su “Repubblica Napoli” Mimmo De Masi sottolineava l’importanza, in questo difficile momento, del ruolo svolto dalla Sanità pubblica; di quello svolto dalla Televisione più e meglio di quello dei più utilizzati social; del telelavoro.
Su quest’ultimo vorrei continuare la riflessione che da decenni invita a fare De Masi. Per molti anni ne ho discusso con i miei studenti affrontando l’argomento da vari aspetti: recupero di aree in via di spopolamento; riduzione sino all’abbattimento del pendolarismo; ridotto uso edilizio del suolo; riduzione dei problemi della circolazione automobilistica e delle “ore di punta”.
La riflessione partiva dalla considerazione della crescente ubiquitarietà di molti aspetti del lavoro nel settore terziario per realizzare il quale è importante poter disporre di una linea elettrica, una telefonica e un computer che, tanto per cominciare, consentono di poter realizzare dovunque i lavori frutto dell’intelletto: un articolo, un saggio, un romanzo…
Io sto scrivendo dalla mia casa a Napoli, ma se avessi un’altra casa al mare, monti, collina in un altro comune di questa o di altra regione potrei farlo ugualmente. Vale per ciascuna delle categorie alle quali prima mi riferivo.
Ricordo che quando Felice Ippolito mi raccontò di trascorrere tempo nella sua casa di Cetona, mi aggiunse anche che qui lavorava più tranquillo.
Da allora cominciai a chiedermi perché nelle belle colline senesi o marchigiane e non nelle non meno belle colline avellinesi e beneventane? Perché a Cetona e non a San Lorenzello o a Cerreto sannita? Domande che tanto più sono da porsi oggi con lo sviluppo tecnologico intanto intervenuto col passare degli anni.
Ma tutto questo non ha molto a che fare con l’obiettivo telelavoro del quale si comincia a discutere in seguito al coronavirus che costringe a stare in casa senza poter andare a lavoro. Ne ha, però, l’uguaglianza del contesto che se fosse stato tenuto nel dovuto conto quando ne cominciava a parlare De Masi, oggi il problema inciderebbe meno pesantemente sul quotidiano lavoro nelle amministrazioni pubbliche e private e nell’insegnamento scolastico e universitario. Poiché è inutile piangere sul latte versato, diventa comunque importante guardare al futuro. Intendo quella parte piena del bicchiere di cui parlavo all’inizio, per dire che, dopo avere risanato le ferite, sarà doveroso intervenire preventivamente facendo tesoro dell’insegnamento che quel maledetto virus ci ha dato.
Ugo Leone

Docente Universitario della Federico II,  storico ambientalista, autore di innumerevoli studi e saggi. Già Presidente del Parco Nazionale del Vesuvio.

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1 commento

  1. Oggi , 31 marzo 2020, ho voluto rileggere il tuo “bel pezzo” Ugo. Molto stimolante per “guardare oltre”
    Ormai ho superato con razionalità e “strumenti culturali” lo stordimento dei primi giorni accentuato anche mie emozioni personale nella totale consapevole “ubbidienza” messa in atto dai tanti familiari (di tutte le età, vicini e lontani).
    Spesso mi sono guardata intorno “nel mio rifugio casa ” ( sentimento che porto con me dai miei 28 anni) e con un sorriso un po’ “impertinente” mi sono detta ” Sono fortunata perché non sono ammalata, mi piace tanto stare per ritrovo risorse da riscoprire con occhi nuovi : I miei libri, e non solo.
    Il mio sorriso impertinente non annullava il dolore e lo sgomento dei drammi e dei danni del fuori anzi potenziava la mia partecipazione attenta ad aggiornamenti in alcune ore della giornata e pensieri ed azioni di forte solidarietà. Sono diventata inaspettamente svelta e concentrata in piccoli lavori di manualità, anche di fantasie…forse è imperiosa la mancanza di bella e ineguaglianza fisicità con le mie nipotine.
    Suggestivo leggerti oggi, in queste prime ore.
    Buon tutto, nonostante tutto…

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