di Iaia De Marco

Sul Corsera del 30 dicembre scorso, leggo un articolo di Elena Tebano che, muovendo dalla notizia del congedo parentale del marito della ministra degli Esteri Analena Baerbock, tratteggia la situazione tedesca in materia di donne/produzione/riproduzione.
“Eppure i pregiudizi sulle «Rabenmutter», le «madri corvo» che abbandonano i figli nelle mani di estranei per fare carriera, pesano ancora molto in Germania e molte donne sacrificano il lavoro per stare dietro ai bambini. Uno studio dell’Istituto dell’economia tedesca pubblicato quest’anno mostra che quasi il 69% delle madri con figli sotto i tre anni non lavora, ma solo il 27% di loro lo ha scelto. Da una ricerca del 2019 emerge che dopo dieci anni dalla nascita del primo figlio una madre tedesca guadagna in media il 61% in meno rispetto a un anno prima del parto, perché molte riducono l’orario di lavoro o lasciano l’impiego. Secondo un altro studio, sempre del 2019, due terzi delle tedesche occupate con almeno un bambino sotto i 18 anni lavoravano a tempo parziale (il 66%, quasi il doppio della media Ue che è del 35%), contro il 6% dei padri. Il marito di Baerbock è ancora un’eccezione. Anche per questo il suo esempio è politicamente importante. Dal 2026 arriverà anche il sostegno pubblico: 8 ore di assistenza al giorno (tra scuola e doposcuola) per i bambini delle elementari. La legge, voluta da Merkel, è stata una delle ultime approvate nella scorsa legislatura.
Fin qui l’articolo che, associato all’eco dell’espressione “inverno demografico” pronunciata da Papa Francesco pochi giorni prima, mi ha indotto alcune riflessioni che vorrei proporre al confronto.
Non sono mai stata madre, ma avrei potuto, e sono una buona osservatrice delle tante esperienze che mi circondano. Considerando un assunto filosofico il carattere peculiare del rapporto madre-figlia/o, proverei a scendere in quella dimensione ancora più intima in cui la naturalità sconfina nell’apprendistato e la responsabilità nella dipendenza…reciproca. La potenzialità materna appartiene a ogni donna, il suo realizzarsi è, con de Beauvoir, cosa che si apprende, giorno dopo giorno, nell’interazione con la persona nuova, appena distaccata dal corpo unico, unisono, per farsi altro.

Ho visto sorelle, amiche, nipoti, patire la ripresa del lavoro (per la verità, anche il primo giorno di asilo) come un’amputazione, ancorché temporanea. Perché il distacco si impara, vuole il suo tempo, e non dovrebbe consumarsi prima che il bambino o la bambina siano almeno in grado di camminare, prima elementare forma di autonomia nel mondo.
Al netto di tutte le possibili insofferenze che un rapporto così totalizzante può generare, resta il fatto che si tratta dell’esperienza più strepitosa e più gratificante che sia dato di vivere: assistere al dispiegarsi della vita, alla trasformazione di un complesso biologico in un essere umano, favorendo tale sviluppo e orientandolo secondo la propria morale e responsabilità.
È un motivo di felicità, della mamma e del bambino o della bambina ed è un bene per la società. Un bene che si cerca in qualche modo di incentivare e tutelare, a mio avviso in maniera del tutto errata, monetizzando il tempo che vi si dedica con bonus bebè et similia che, nel caso di mamme lavoratrici, servono, detto brutalmente, a “esternalizzare” la cura (e la gioia e la responsabilità di essa) a babysitter o asili nido.
Penso che bisognerebbe cambiare la prospettiva da cui si affronta il tema maternità-lavoro.
Se la maternità è un valore riconosciuto dalla società (e lo è, la controprova è la colpevolizzazione della sua recusa che dai demografi al Papa piove sulle donne) dovrebbe essere incoraggiata da una normativa premiale che, lungi dall’essere esiguamente risarcitoria, fosse esplicitamente premiale.


Mi spiego: congedo materno a stipendio pieno e senza interruzione del computo di anzianità fino al primo anno di età, rientro al lavoro con un bonus della consistenza di un corso di aggiornamento, per esempio. Analogamente, nei concorsi l’anno di maternità darebbe punteggio e, in caso di parità con altro/a concorrente, precedenza. Ovviamente, fermo restando il diritto della donna a scegliere liberamente se avvalersi o meno, in tutto o in parte di tale previdenza e quello del coniuge al congedo parentale, misura questa che integra la configurazione familiare più consona a uno sviluppo armonioso di figli e figlie.
Probabilmente, tutto ciò avrebbe un senso se il parametro di riferimento non fosse il PIL, ma il FIL.

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