di Luciana Castellina

L’arrivo di Covid aveva suscitato, nei primi mesi, oltre alla legittima paura, anche una positiva curiosità: molti avevano finalmente cercato di capire perché e come e da dove il virus era arrivato. E le sacrosante parole di Papa Francesco, quelle dell’enciclica Laudato si – in un mondo malato non possono esserci umani sani – avevano finalmente preso senso anche per i molti che all’inizio non ne avevano riconosciuto l’importanza.

E poi c’era stato il salutare richiamo dell’Unione Europea che aveva indicato, subito dopo l’esplosione della pandemia, come obiettivo primario il risanamento dell’ambiente; e anzi l’avvertimento che aiuti finanziari non sarebbero stati dati se non per affrontare seriamente il disastro ecologico.

A pochi mesi di distanza temo che curiosità e presa di coscienza si siano drammaticamente andati esaurendo: l’ecologia continua a essere invocata, ma un progetto serio e complessivo per cominciare a riparare i guasti gravissimi del nostro eco sistema non solo non è stato approntato, non sembra più neppure all’ordine del giorno.

I movimenti e le associazioni ambientaliste, per fortuna molte e vitali nel nostro paese, continuano a parlarne – ovviamente – ma per via della difficoltà di coordinarsi fra loro e di coinvolgere il grosso dell’opinione pubblica, sembrano non esser ancora riuscite ad avere un reale impatto sulle istituzioni che devono decidere come usare i fondi di “next generation europe”.

Credo che abbiamo poco tempo, sempre di meno, per far fare un salto di qualità alla battaglia ingaggiata. Che consiste, per un verso, nel far crescere la consapevolezza dei rischi che si corrono e dell’enorme costo che i danni che sono destinati a moltiplicarsi faranno pesare su tutti, ma per l’altro nella capacità di avviare vere e proprie vertenze per ottenere concreti risultati.

La questione ambientale è molto complessa e per niente indolore. Se nonostante tutto si fa così fatica a correre ai ripari è perché non basta qualche pannello solare o qualche auto elettrica, occorre riconquistare un minimo di controllo politico – e cioè degli umani – sul più delicato meccanismo del sistema capitalista, il mercato. Se a guidarlo continuerà ad essere la ricerca del massimo profitto, non andremo lontano. Perché i guasti si producono nel tempo, non subito, e quando diventano visibili, il conto del danno non verrà pagato da chi, all’origine, con il suo investimento ha intascato profitto, ma la collettività tutta. Bisogna dunque avere un controllo a monte, un’autorità politica in grado di porre veti e di obbligare a scelte diverse. Occorre un consistente investimento pubblico che costituisca almeno l’asse di un modello diverso.

Le prime vittime, in questo contesto, saranno gli operai dei settori industriali. Non solo quelli delle fabbriche nocive che dovranno essere se non chiuse pesantemente ridimensionate, ma anche molte di quelle che continuano a produrre merci largamente superflue, il cui consumo viene imposto ogni giorno da martellanti e asfissianti pubblicità; e che consumano, e dunque sprecano, risorse naturali che verranno meno, giacché sono esauribili e dovrebbero soddisfare invece bisogni vitali.

Bisogna dunque chiedere che nuovi cantieri vengano aperti, ma non per continuare a produrre qualsiasi cosa, bensì per approntare altre cose e per rifare daccapo le nostre città: i suoi edifici che dovrebbero e potrebbero diventare a emissioni zero; il loro disegno urbano che produce la necessità di costosissimi trasporti; il loro sistema di rifiuti, che non consiste solo nel problema dello smaltimento ma nell’utilizzo delle acque e dei rifiuti organici oggi sprecati e che potrebbero esser restituiti alla terra se fossero rifatte le fogne, apposti depuratori adeguati, e così via.

E poi c’è l’enorme problema dell’agricoltura, di cui nessuno parla: tutti gli scienziati ci hanno detto che è dagli allevamenti industriali che viene il grosso dell’inquinamento, ma pochi sembrano preoccuparsi del cosa occorre fare per ricondurre i giovani nelle campagne – una nuova riforma agraria, questa volta dotata dei fondi per l’innovazione che le nuove tecnologie consentono. Non è vero, come recita la leggenda, che senza le grandi stalle con migliaia e migliaia di poveri animali nutriti di veleni non ci sarebbe da mangiar per tutti: il grosso del prezzo degli alimenti è intascato dalle grandi catene di distribuzione, e sono quelle che verrebbero colpite se si sviluppasse seriamente una ripresa del lavoro contadino. Per non parlare dei costi del disastro del territorio, che a ogni pioggia si aggrava facendo straripare fiumi e ruscelli, abbattendo terrazzamenti, provocando frane: il 60 per cento del territorio italiano è ormai semiabbandonato ed è ovvio che col il ritorno alla terra e quindi della presenza umana nelle campagne potrà esserci nuovamente quella sorveglianza del territorio che un tempo veniva praticata.

Non voglio continuare. Molti dei lettori di questa rivista conoscono bene questi problemi. Anche perché Infiniti Mondi se ne è già largamente occupata.

Non così, però, l’opinione pubblica e spesso nemmeno i tanti giovani che manifestano per la protezione dell’ambiente. Quelli che potrebbero aiutare ad aprire specifiche concrete vertenze, investire i sindaci delle loro città perché facciano questo o quello. Per aiutare i sindacati, stretti nel ricatto dell’occupazione che si perde, affinché vengano operati investimenti pubblici per creare lavoro alternativo e necessario.

Con alcuni compagni scienziati e professionisti di alto livello, ma anche con qualche “contadino di ritorno”, abbiamo approntato, ormai da qualche mese, una Task force chiamata “Natura e lavoro”. Un titolo scelto proprio per sottolineare che indicare nuovi settori di occupazione per chi perde quelli che oramai si devono sopprimere è obiettivo prioritario. Non si tratta solo di una rivendicazione sociale decisiva e che spesso non viene presa in conto, si tratta anche di una battaglia culturale : contro la cultura industrialista che domina da alcuni secoli il nostro pianeta. Convincere l’operaio qualificato con indosso il caschetto metallico che lavora negli altoforni delle aziende siderurgiche, immagine del mito della modernità e eroe del lavoro, a andare invece in campagna a occuparsi del torrente che straripa, sebbene ad ogni persona non obnubilata dal mito della fabbrica dovrebbe apparire la liberazione dall’inferno, non sarà facile. Il mondo rurale è stato per troppo tempo considerato l’immagine dell’arretratezza, e sarà arduo far capire che oggi, con i suoi fumi velenosi, è il lavoro industriale che rischia di apparire come quello dei dinosauri.

Non voglio dire, per carità, che dell’industria non ci sarà più bisogno, ma solo che rivalutare quello rurale è indispensabile. E per questo, però, dovremo ottenere molte cose: quell’operaio di Taranto avrà sempre ragione a preferire l’acciaio al bosco, fin quando non avremo imposto quello che abbiamo chiamato “reddito di contadinanza “, e cioè una remunerazione che paghi chi sta in campagna non solo per la produzione di cibo ma anche perché sono i custodi della terra e del paesaggio. Fin quando, tuttavia, la sua casa non sarà collegata alla rete digitale e i mille borghi dei territori dell’interno non verranno rianimati, dotati di bibliotche, teatri, cinema, ospedali e collegamenti ferroviari, giustamente nessun giovane ci vorrà rimettere piede. Si tratta di una grandissima fetta dell’Italia, il 60 per cento dei suoi comuni, che vanno dall’Appennino emiliano fino alla Calabria, e oltre lo stretto, oggi quasi ovunque centri fantasma privi di vita, che come aveva cercato di fare il sindaco di Riace (per questo incarcerato) potrebbero invece diventare nuovi insediamenti per gli immigrati, per i giovani italiani oggi costretti a loro volta ad emigrare; e anche a dar vita ad una nuova, inedita rete di un turismo che oggi si concentra, assendiandole, nelle città più conosciute, ignorando i tanti gioielli di cui è fatto il nostro paese .

La nostra Task Force non è un movimento, vuol essere un servizio per i movimenti, offrire loro un contributo che li aiuti a formulare progetti alternativi da rivendicare. In proposito abbiamo pubblicato, ed è presente in tutte le reti di distribuzione , un piccolo e-book che si chiama “Attenti ai dinosauri” (quelli che preferiscono le autostrade),editore la Manifestolibri.

Quello che vorremmo è che nascano tante altre task forces, perché c’è molto lavoro da fare.

L’arrivo di Covid aveva suscitato, nei primi mesi, oltre alla legittima paura, anche una positiva curiosità: molti avevano finalmente cercato di capire perché e come e da dove il virus era arrivato. E le sacrosante parole di Papa Francesco, quelle dell’enciclica Laudato si – in un mondo malato non possono esserci umani sani – avevano finalmente preso senso anche per i molti che all’inizio non ne avevano riconosciuto l’importanza. E poi c’era stato il salutare richiamo dell’Unione Europea che aveva indicato, subito dopo l’esplosione della pandemia, come obiettivo primario il risanamento dell’ambiente; e anzi l’avvertimento che aiuti finanziari non sarebbero stati dati se non per affrontare seriamente il disastro ecologico.

A pochi mesi di distanza temo che curiosità e presa di coscienza si siano drammaticamente andati esaurendo: l’ecologia continua a essere invocata, ma un progetto serio e complessivo per cominciare a riparare i guasti gravissimi del nostro eco sistema non solo non è stato approntato, non sembra più neppure all’o.d.g.

I movimenti e le associazioni ambientaliste, per fortuna molte e vitali nel nostro paese, continuano a parlarne – ovviamente – ma per via della difficoltà di coordinarsi fra loro e di coinvolgere il grosso dell’opinione pubblica, sembrano non esser ancora riuscite ad avere un reale impatto sulle istituzioni che devono decidere come usare i fondi di “next generation europe”.

Credo che abbiamo poco tempo, sempre di meno, per far fare un salto di qualità alla battaglia ingaggiata.Che consiste, per un verso, nel far crescere la consapevolezza dei rischi che si corrono e dell’enorme costo che i danni che sono destinati a moltiplicarsi faranno pesare su tutti, ma per l’altro nella capacità di avviare vere e proprie vertenze per ottenere concreti risultati.

La questione ambientale è molto complessa e per niente indolore. Se nonostante tutto si fa così fatica a correre ai ripari è perché non basta qualche pannello solare o qualche auto elettrica, occorre riconquistare un minimo di controllo politico – e cioè degli umani – sul più delicato meccanismo del sistema capitalista, il mercato. Se a guidarlo continuerà ad essere la ricerca del massimo profitto, non andremo lontano. Perché i guasti si producono nel tempo, non subito, e quando diventano visibili, il conto del danno non verrà pagato da chi,all’origine,con il suo investimento ha intascato profitto, ma la collettività tutta. Bisogna dunque avere un controllo a monte, un’autorità politica in grado di porre veti e di obbligare a scelte diverse. Occorre un consistente investimento pubblico che costituisca almeno l’asse di un modello diverso.

Le prime vittime, in questo contesto, saranno gli operai dei settori industriali. Non solo quelli delle fabbriche nocive che dovranno essere se non chiuse pesantemente ridimensionate, ma anche molte di quelle che continuano a produrre merci largamente superflue, il cui consumo viene imposto ogni giorno da martellanti e asfissianti pubblicità; e che consumano, e dunque sprecano, risorse naturali che verranno meno, giacché sono esauribili e dovrebbero soddisfare invece bisogni vitali. Bisogna dunque chiedere che nuovi cantieri vengano aperti, ma non per continuare a produrre qualsiasi cosa, bensì per approntare altre cose e per rifare daccapo le nostre città: i suoi edifici che dovrebbero e potrebbero diventare a emissioni zero; il loro disegno urbano che produce la necessità di costosissimi trasporti; il loro sistema di rifiuti, che non consiste solo nel problema dello smaltimento ma nell’utilizzo delle acque e dei rifiuti organici oggi sprecati e che potrebbero esser restituiti alla terra se fossero rifatte le fogne, apposti depuratori adeguati, e così via.

E poi c’è l’enorme problema dell’agricoltura, di cui nessuno parla: tutti gli scienziati ci hanno detto che è dagli allevamenti industriali che viene il grosso dell’inquinamento, ma pochi sembrano preoccuparsi del cosa occorre fare per ricondurre i giovani nelle campagne – una nuova riforma agraria, questa volta dotata dei fondi per l’innovazione che le nuove tecnologie consentono. Non è vero, come recita la leggenda, che senza le grandi stalle con migliaia e migliaia di poveri animali nutriti di veleni non ci sarebbe da mangiar per tutti: il grosso del prezzo degli alimenti è intascato dalle grandi catene di distribuzione, e sono quelle che verrebbero colpite se si sviluppasse seriamente una ripresa del lavoro contadino.Per non parlare dei costi del disastro del territorio, che a ogni pioggia aggrava facendo straripare fiumi e ruscelli, abbattendo terrazzamenti,provocando frane: il 60 per cento del territorio italiano è ormai semiabbandonato ed è ovvio che col il ritorno alla terra e quindi della presenza umana nelle campagne potrà esserci nuovamente quella sorveglianza del territorio che un tempo veniva praticata.

Non voglio continuare. Molti dei lettori di questa rivista conoscono bene questi problemi. Non così, però, l’opinione pubblica e spesso nemmeno i tanti giovani che manifestano per la protezione dell’ambiente. Quelli che potrebbero aiutare ad aprire specifiche concrete vertenze,investire i sindaci delle loro città perché facciano questo o quello.Per aiutare i sindacati, stretti nel ricatto dell’occupazione che si perde,affinché vengano operati investimenti pubblici per creare lavoro alternativo e necessario.

Con alcuni compagni scienziati e professionisti di alto livello,ma anche con qualche “contadino di ritorno”, abbiamo approntato, ormai da qualche mese, una Task force chiamata “Natura e lavoro”.Un titolo scelto proprio per sottolineare che indicare nuovi settori di occupazione per chi perde quelli che oramai si devono sopprimere è obiettivo prioritario. Non si tratta solo di una rivendicazione sociale decisiva e che spesso non viene presa in conto, si tratta anche di una battaglia culturale : contro la cultura industrialista che domina da alcuni secoli il nostro pianeta. Convincere l’operaio qualificato con indosso il caschetto metallico che lavora negli altoforni delle aziende siderurgiche ,immagine del mito della modernità e eroe del lavoro, a andare invece in campagna a occuparsi del torrente che straripa, sebbene ad ogni persona non obnubilata dal mito della fabbrica dovrebbe apparire la liberazione dall’inferno, non sarà facile. Il mondo rurale è stato per troppo tempo considerato l’immagine dell’arretratezza, e non sarà arduo far capire che oggi, con i suoi fumi velenosi, è il lavoro industriale che rischia di apparire come quello dei dinosauri.

Non voglio dire, per carità, che dell’industria non ci sarà più bisogno, ma solo che rivalutare quello rurale è indispensabile. E per questo, però, dovremo ottenere molte cose: quell’operaio di Taranto avrà sempre ragione a preferire l’acciaio al bosco, fin quando non avremo imposto quello che abbiamo chiamato “reddito di contadinanza “, e cioè una remunerazione che paghi chi sta in campagna non solo per la produzione di cibo ma anche perché sono i custodi della terra e del paesaggio. Fin quando la sua casa non sarà collegata alla rete digitale e i mille borghi dei territori dell’interno non verranno rianimati, dotati di biblioteche, teatri, cinema, ospedali e collegamenti ferroviari, giustamente nessun giovane ci vorrà rimettere piede. Si tratta di una grandissima fetta dell’Italia, il 60 per cento dei suoi comuni, che vanno dall’Appennino emiliano fino alla Calabria, e oltre lo stretto, oggi quasi ovunque centri fantasma privi di vita, che come aveva cercato di fare il sindaco di Riace (per questo incarcerato) potrebbero invece diventare nuovi insediamenti per gli immigrati, per giovani italiani oggi costretti a scappare; e anche una nuova, inedita rete di un turismo che altrimenti assedia le città più conosciute e ignora i tanti gioielli di cui è fatto il nostro paese . La nostra Task Force non è un movimento, vuol essere un servizio per i movimenti, offrire loro un contributo che li aiuti a formulare progetti alternativi da rivendicare. In proposito abbiamo pubblicato, ed è da una settimana in tutte le reti di distribuzione, un piccolo e-book che si chiama “Attenti ai dinosauri” (quelli che preferiscono le autostrade), editore la Manifesto libri. Quello che vorremmo è che nascano tante altre task force, perché c’è molto lavoro da fare.

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