di Gianfranco Nappi
Bisogna davvero essere grati ad Elena Coccia per questo suo nuovo lavoro di vera e propria inchiesta che trae direttamente dal suo impegno professionale: avvocato dei più deboli, dei più esposti, dei più bisognosi di una interlocuzione che li aiuti a raddrizzare una schiena spesso piegata dalle ingiustizie e dalle sofferenze sociali.
Questo in fondo è l’impegno di sempre di Elena: l’impegno di una vita.
Qui lei raccoglie gli spezzoni di una sconfitta certo di Torre Annunziata, certo di una classe operaia ma sicuramente anche di un intero Paese.
La svendita della Deriver acciaieria del gruppo delle Partecipazioni Statali a Torre Annunziata, il suo vero e proprio regalo ad un imprenditore privato, come preludio alla sua chiusura, con quell’intreccio di superficialità, di mancanza di visione e con una buona dose di cose poco chiare, di veri e propri imbrogli che ha attraversato buona parte del processo di privatizzazione dell’industria pubblica italiana è appunto paradigmatica di tutto questo.
Ed è paradigmatica anche del fatto che quando una crisi sociale avanza non ci sono isole felici, purezze inattaccabili e all’interno di quella stessa soggettività che aveva incarnato la classe operaia maturano ripiegamenti, regressioni: come Elena fa dire ad uno dei protagonisti del libro: erano lazzari, diventarono operai, sono tornati lazzari con la benedizione dello Stato.
La sua vicenda matura tra fine degli anni ’80 e primi Novanta e si proietta in buona parte di questi ultimi con la coda giudiziaria che alla fine, pur vedendo conclamate le assurdità di quella svendita, si concluderà senza colpevoli.
Attraverso le voci e le storie di diversi di quegli operai sconfitti, a cui con stile lucido Elena da’ voce intensa; attraverso la vicenda di Antonio che si suicidò di fronte alla concreta prospettiva delle perdita di lavoro, si ricostruisce davanti a noi un processo più generale di disfacimento del ruolo pubblico in economia – già nei fatti entrato in crisi per la sua assunzione piena all’interno dello scontro di potere in atto nel pentapartito degli anni ’80 – e l’avvio di quel percorso che condurrà all’affermazione neoliberista, tanto forte nel suo obiettivo di scomposizione e riduzione della forza e della dignità di una soggettività di classe e del lavoro quanto capace di ergersi a ‘regola’ del Mondo a cui larga parte di quella stessa Sinistra che avrebbe dovuto contrastarla e resistervi si piega e ne diventa addirittura, in più di un caso, sostenitrice convinta di fronte all’idea introiettata di fine della Storia.
In questo senso, la vicenda che Elena ci restituisce se ci parla di Torre Annunziata, una realtà ricchissima e dolentissima che, dal momento in cui ci entri in rapporto non esce più dalla tua carne viva, ci parla anche direttamente di una sconfitta nei fatti di un intero Paese che si è trovato, alla fine della sbornia delle privatizzazioni, più debole, più esposto e con un Mezzogiorno nel suo insieme meno capace di guardare con fiducia al futuro.
Chi ha pensato colpendo il lavoro, la sua dignità, i suoi diritti di poter costruire un futuro più forte si è risvegliato tra crisi del 2007 e 2008 e Pandemia oggi con un collasso ambientale alle porte, in una realtà non solo più ingiusta ma con uno sviluppo che ha raggiunto un suo punto estremo di crisi.
E se si vuole reimmaginarlo un futuro; se lo si vuole giusto, equo, sostenibile – ambientalmente e socialmente – è dal protagonismo e dai diritti del mondo del lavoro – certo un mondo radicalmente cambiato ed in condizioni affatto nuove – che però occorre muovere.
E qui c’è la possibilità/necessità oggi di un ri-partire.
E in fondo, in qualche modo , lo sciupio che Elena ci racconta, tutto da leggere e da comprendere, anche con il suo grande carico di sofferenza sociale, nella sua radicalità è l’esigenza di questa ri-partenza che ci squaderna.
C’è chi può, vuole, si sente di raccogliere questa sfida? E’ la domanda aperta sul futuro a cui Elena con questo scritto e con il suo impegno di sempre non ha smesso di lavorare.