Partendo dalla destrutturazione delle arti visive, orientate nel verso di un addensamento estetico trans-disciplinare, l’ambito che meglio di altri rappresenta la peculiare qualità di esprimere una traccia estetica nello scenario antropologico contemporaneo è la sperimentazione drammatica. Napoli esprime in tal senso voci rilevantissime che, fin dagli anni ‘60 hanno fatto propria la volontà di registrare l’evento quale specchio del sociale esteticamente connotato; in cui l’azione drammatica viene determinata da un’ integrazione degli spazi, attoriale e spettatoriale.
Forse il più straordinario esempio della scena sperimentale napoletana è quello di Leo de Berardinis, l’attore più apprezzato da Carmelo Bene (con il quale nel 1968 ha firmato uno storico Don Chisciotte). Della sua azione speculare al mondo sociale è testimonianza il laboratorio di Marigliano, nel quale presero vita, nei primi anni ’70, improvvisazioni teatrali provocatorie e aggressive, contaminazioni riflettenti lo scenario reale circostante. Tra le azioni drammatiche più rilevanti ricordiamo allora “Avita murì” del ’78 o lo shakespeariano “King lacreme Lear napulitane ”, in cui l’azione è sopraffatta da centinaia di clacson ed elementi urbani.
L’azione dunque non si propone la volontà di animare personaggi: « […] e’ un organismo unico, un io, non una persona con tutte le proprie componenti. I personaggi formano un organismo, e creano uno scontro, nel nostro teatro non si parla di personaggi ma di stati di coscienza[…]» . (1)

E in questo senso si delineano numerose esperienze di carattere concettuale tra le quali emerge senz’altro Teatro Spazio Libero, animato – pure negli anni ’70 – da Giuseppe Bartolucci e Vittorio Lucariello, che rappresenta, nel senso ora profilato, una delle forme più compiute. E’ questo infatti il soggetto collettivo che più di ogni altro ha tessuto relazioni con l’ambito delle arti visive, nazionale e internazionale (“Beat ‘72” di Roma; “la Gaia Scienza” nel ‘77; Simon Forti-Peter Van Riper, del gruppo Fluxus, nel 78; Marcello Sambati-Dark Camera di Roma, Stringaci e Pedrotti di Aut Off di Milano, nel 1980). Sicché opere rappresentate in rassegne come “Paesaggio Metropolitano ‘82” (catalogo Feltrinelli), alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e di Bologna, e alla Biennale di Venezia, nel 1982 e 1986, compiono una parabola che affronta proprio il problema della differenza dei linguaggi, in una direzione che declina il tema “cinema-teatro-comportamento” e apre, prima in Italia, a una metodica ricognizione sul post-moderno, imponendosi come punto di partenza e di consacrazione per figure come Mario Martone, Toni Servillo, Antonio Iuorio, Alba Primiceri, Bruno Roberti, Luca De Fusco e tutti gli esponenti dei Teatri Uniti.

Ci piace poi ricordare che nel 2000 proprio Teatro Spazio Libero è stato il tramite per un re-incontro con il “Living Theatre”, il movimento, fondato nel 1947 da Julian Beck e Judith Malina, riattivando il legame con la Compagnia che, tra il ‘65 e il ‘69, fu una presenza stabile sui palcoscenici napoletani ( al San Ferdinando, al Politeama e al Mediterraneo) portando un grande contributo all’esercizio dell’esperienza drammatica, creando cioè l’incontro, allora inedito, tra la tradizione locale e la performance. E quella contaminazione, tra tradizione e Living, delineò ai tempi un humus evolutivo che, alla luce della storia, possiamo considerare significativo rilancio del patrimonio espressivo, un po’ offuscato nel decennio post bellico. Esso costituì cioè l’ossatura di un processo di auto-riconoscimento in seno alla platea giovanile, che ritrovava una propria sponda culturale patria, da affiancare a quella ideologico politica protestataria che sembrava, ai tempi, imprescindibile.
Una presenza perciò pregnante nello scenario culturale napoletano, importante al punto che nel 2003, al Castel Sant’Elmo, in memoria di questo proficuo incontro è stata realizzata un’importante e completa esposizione dedicata al “Living Theatre”.

Ma, non dimentichiamo che la disposizione alla sperimentazione è una fondata attitudine nel contesto napoletano, e non stupisca se l’attribuiamo a una costante espressiva di ampia fruizione sociale qual è stata la sceneggiata. Essa è infatti la forma in cui è pacifica la partecipazione emotiva del pubblico e in cui, più che altrove, si definisce la metafora del doppio specchio riflettente, di identificazioni attore-personaggio, spettatore-personaggio-attore.
In ogni caso, ciò che caratterizza il pensiero creativo napoletano, nell’ottica di entrambe le direzioni delineate, è la consapevolezza dell’ inessenzialità del fatto estetico in termini autoreferenziali, sia esso materiale o immateriale. Il pensiero e l’ atto creativi sono stati, e continuano ad essere, un discorso sulla morte, e una storia di relazione tra il mondo della luce e quello dell’ombra.

King LeoR

Tragedia e commedia che s’avvicendano, in continua successione, sulla sua faccia e stanno lì a testimoniare che il “genere” è tramontato; e penso a quanto mi sarebbe piaciuto vivere i tempi del teatro di Marigliano.
Camminiamo a lungo senza parlare passiamo davanti ai palazzi eleganti di Via delle Belle Arti e le nostre figure si specchiano nelle vetrine.
È Marigliano che ha condotto Leo fino a qua. Interagendo con la gente, mischiandosi al casino, passando indifferente in una folla folla indifferente e rumorosa. «E’ “E’ proprio vero che il “genere” non c’è più !” afferma di punto in bianco. Ricollego questa frase sospesa a un altro ragionamento; quando dice che in questo evo si deve parlare solo di “atto estetico totale”, non di teatro, o di arti visive, o letteratura.
«Ci aspettiamo pianto e arriva riso, aspetti riso e viene pianto».
E’ tramontata, dice, persino la capacità di vivere l’emozione senza ambiguità. La percezione della sofferenza e della gioia stanno sempre su un labile confine e perciò l’azione drammatizzata ha l’obbligo di trattare col medesimo limite.
Ma questo, io lo so, comporta una vita in bilico, non solo “artisticamente” parlando, che non si può parlare più d’ “arte”, e le nostre vite annaspano nel pantano.
«Oggi Bologna è grottescamente silenziosa» dice. Scansiamo le lunghe teorie di bottiglie abbandonate nella notte goliardica degli studenti, quelli che ora dormono, ed entriamo nel primo bar dove silenziosamente ci servono il caffè.
« E’ proprio il nostro annaspare nella mota che genera il grottesco, perché il grottesco è il carattere connotante, totale, che significa il tempo che viviamo. Possiamo soltanto percorrere con l’intuito la reminiscenza crudele, del tragico, ma la reminiscenza è un solco primario, sottoposto a una continua cancellazione. E’ mito continuo, un oggetto imperscrutabile che vive nel crepuscolo e produce…i che schifezza ‘e cafè!»
Rido, perché alle sette del mattino le macchine dei bar sono fredde, e sono certo che il nostro sia stato il peggiore caffè tra quelli che la macchina sfornerà in tutta la giornata.
«Vedi? È la realtà stessa che ti fa comprendere quanto sia presente la contaminazione: il bar non è proprio bar… gli ingegneri sono un po’ artisti e non ingegnano…viviamo nella contaminazione. Viviamo l’ossimoro più estremo. Tutto è oggetto del grottesco, tutto è parodia».
Perciò, penso, il teatro di Leo smitizza e mescola la drammaturgia nobile a quella plebea e confonde intenzionalmente il reale alla rappresentazione scenica. Il suo è un teatro che non è più tale, è specchio. Una parodia, appunto, anche volgare, ma non per la scelta, è proprio una necessità per lui che si fa riflesso della crudeltà che offre lo scenario post-contemporaneo. E’ un gioco dell’equivoco, mai del tutto inteso durante gli anni di direzione a Teatro Laboratorio San Leonardo (2) qui a Bologna. Infatti spesso è finita in lite. Percorsa tutta via Del Guasto ci siamo fermati all’inizio di Largo Trombetti, dove c’erano alcuni amici ad attenderci. «Auguri»; «Grazie, grazie ».
Una scintilla è brillata nel suo occhio luciferino e per un istante, ma un istante soltanto, sono apparsi sul volto gli anni e la vita sofferta.
Tutti insieme abbiamo imboccato la via Zamboni e a passo placido siamo arrivati davanti all’atrio, un attimo di indugio. Appena dentro c’era Mario Merz che ha fatto un cenno di saluto.
Ho visto lo sguardo smarrito, il leone con lo sguardo smarrito, e nel brusio è apparso il magnifico rettore.
« Oggi 4 di maggio dell’anno 2001 conferiamo la laurea ad honorem con la seguente motivazione: Leo de Berardinis ‘uomo – teatro’ radicatosi a Bologna da quasi vent’anni essendo ormai internazionalmente riconosciuto: questo attore capace di sapienti variazioni drammaturgiche, regista e scenografo dei suoi spettacoli nonchè straordinario pedagogo, dopo avere agito con Carmelo Bene e alcuni altri innovatori, creò una storica ditta con Perla Peregallo ancora giovanissimo[…] ».
Pochi mesi dopo Leo si addormentava nel lungo abbandono che sappiamo… (3)

Gennaro Avano

[1] Intervista a Leo De Berardinis su “silviastorelli.it”

[2]  Teatro Laboratorio San Leonardo è stato diretto da Leo de Berardinis tra il 1994 e il 1997.

[3]Leo de Berardinis è mancato il 19 settembre del 2008 dopo dopo otto anni di coma in stato vegetativo.


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