di Massimiliano Amato
Il settecentesimo della morte di Dante; il centosessantesimo dell’Unità d’Italia; il centenario della tumulazione della salma del Milite Ignoto all’Altare della Patria. E, infine, il settantacinquesimo del referendum che cambiò la forma istituzionale dello Stato. Nel tradizionale discorso di fine anno, dedicato in gran parte all’emergenza pandemica in atto, il Presidente Sergio Mattarella ha ricordato le ricorrenze del 2021 che, singolarmente, sono tenute insieme da un filo indistruttibile: il processo di formazione dell’identità nazionale, nel nostro Paese più accidentato che altrove pieno com’è stato, nel corso del suo secolare dispiegarsi, di improvvise frenate e altrettanto brusche (e salvifiche) ripartenze. Raramente c’è stata una simile concentrazione di anniversari legati a suggestioni collettive così potenti. Ognuno dei quattro eventi richiamati dal Capo dello Stato ha, infatti, in modi e misure differenti, contribuito a trasformare una composita entità geografica in una comunità tenuta insieme da un tessuto di valori e sentimenti condivisi. A questo obiettivo nel suo complesso, come cercano di dimostrare anche i più recenti lavori, da quello di Alessandro Barbero a quello di Aldo Cazzullo, passando per quello di Giulio Ferroni, fu protesa l’opera di Dante Alighieri, che alla “serva Italia, di dolore ostello” della celebre invettiva è opinione largamente diffusa abbia donato uno degli elementi identitari costitutivi. La lingua. Non è questa la sede per approfondimenti specialistici, ma non è del tutto condivisibile (perché storicamente poco fondato) l’entusiasmo di chi (Cazzullo, per esempio) ritiene che l’Italia sia nata nel Trecento, e che la particolarità del nostro Paese risiederebbe nel fatto che esso non sarebbe nato “né dalla politica né dalla guerra” e nemmeno da un matrimonio dinastico o da un trattato diplomatico, ma “dalla cultura e dalla bellezza”. Opinione dotata di un discreto livello di fascinazione, ma purtroppo smentita dai cinque secoli di storia successivi alla morte di Dante. Per il resto, allo stesso modo di come ha costruito il principale strumento di affermazione dell’identità italiana, Dante ha anche messo in campo la più profonda e spietata censura dei maggiori – e tuttora resistenti – vizi nazionali.
Come ha recentemente sottolineato il filosofo Gennaro Sasso, che dopo aver trascorso una vita a studiare Machiavelli negli ultimi anni si è intellettualmente “invaghito” del papà della Comoedia, “la violenza del mondo comunale da lui descritta è quello stesso odio che sembra una caratteristica che divide l’Italia in fazioni e che ancora ci trasciniamo dietro”. E qui veniamo alla seconda delle ricorrenze ricordate da Mattarella. Il 1861. Atto di nascita ufficiale della nazione, siglato insieme dalla politica e dalla guerra. L’una e l’altra si contesero la scena – di fatto convergendo su un unico obiettivo – per un tempo molto lungo, qualora si voglia fissare il punto d’inizio del processo unitario nel 1815, con il proclama di Rimini di Gioacchino Murat, oppure nei primi moti del 1820-21, con i quali vedeva la luce lo spirito del Risorgimento. Al di là e al di fuori dei suoi limiti, in questi ultimi tempi strumentalmente amplificati dal risorgente revisionismo a trazione falso meridionalistica (mentre la vera questione del Risorgimento incompiuto, con la quale la moderna pubblicistica rinuncia a misurarsi, resta la gramsciana “teoria del blocco storico”), quel processo fu il punto di sintesi e di coagulo determinato dall’affermazione della linea moderata cavourriana sul versante della politica, e dai successi militari dell’esercito piemontese nella lotta alle forme più violente di resistenza del fronte neolegittimista su quello della guerra. D’accordo, probabilmente quella duplice vittoria non creò un popolo: però allestì, finalmente, il perimetro dentro il quale esso avrebbe potuto (e dovuto) formarsi. Prima, non c’era. Perché cominciasse a riconoscersi in ideali comuni e trovasse un principio, o quanto meno un abbozzo, di unitarietà storica e morale, quel popolo avrebbe dovuto attendere più di mezzo secolo.
L’Italia si formò nelle trincee fangose e insanguinate della Grande Guerra. Per la prima volta masse di diseredati fino a quel momento completamente estranei al processo di unificazione recitavano un ruolo da protagonisti sul palcoscenico della vita nazionale. A sancire il grande passo avanti del Paese sulla strada della creazione di se stesso, fu un grande evento simbolico: il trasporto, su un convoglio che attraversò quasi tutta la Penisola tra due ali di folla commossa, delle spoglie di un fante anonimo caduto in una di quelle trincee, dalle quali i suoi commilitoni più fortunati erano riemersi laceri nel fisico, negli abiti e nel morale, minati da malattie (come l’influenza Spagnola, la più illustre antenata dell’odierna pandemia) che avrebbero falcidiato un’intera generazione. La solenne cerimonia di cui quest’anno si celebra il centenario fu un altro momento unitario in un Paese percorso da forti tensioni sociali e squassato dalla violenza delle squadracce fasciste, che si apprestavano a produrre la più potente e clamorosa cesura della dinamica di civilizzazione democratica e costituzionale avviata dal Risorgimento. Una frattura durata 20 anni, passata attraverso l’immane carneficina del secondo conflitto mondiale e ricomposta da un’altra Guerra: quella di Liberazione, durata dal mese di settembre del 1943 a quello di aprile del 1945. Senza quella che Claudio Pavone avrebbe definito “la moralità della Resistenza” la rottura istituzionale prodotta dal referendum del 1946 non avrebbe assunto il senso di un ricongiungimento ideale dell’Italia di metà Novecento uscita dall’incubo della dittatura a quella del Risorgimento, che poteva dirsi finalmente compiuto il 2 Giugno di 75 anni fa. Dei quattro anniversari del 2021, probabilmente il più importante.
Massimiliano Amato