Ringraziamo Piero Bevilacqua che ha voluto regalarci questo intenso ricordo della sua Catanzaro. Ricordo arricchito da un componimento poetico parte del più ampio suo lavoro di alcuni anni fa Il Vento nelle città edito da Donzelli : uno sguardo sempre originale sulla realtà del Mezzogiorno reso ancora più denso in questo caso dai caldi ricordi della sua gioventù.



I COLORI DELLA MEMORIA

di Piero Bevilacqua



Credo che non ci sia ricordo del nostro passato che non coinvolga in qualche modo i nostri diversi sensi corporei: olfatto, udito, vista, odorato. E intendo per ricordo, ovviamente, quel tipo di evocazione che coinvolge in qualche modo anche una dimensione emotiva.

Com’è noto, Marcel Proust, grande e raffinato cultore della memoria, lo sapeva assai bene, e vi aveva esercitato la sua profonda sapienza letteraria. Il passato, infatti, quando non è irrimediabilmente scolorito dagli anni, ha per noi odori e profumi, colori, luci, ombre, suoni. Anche chi oggi vive immerso nella fretta frenetica della vita urbana, chi è ormai irretito in quella vera e propria convulsione che è diventata la vita nell’«età dello sviluppo», se ha un legame non superficiale con il proprio passato, non può non rammentarlo, riviverlo, rielaborarlo attraverso il filtro di qualche suo senso. Ci sono, ad esempio, odori legati a luoghi precisi della nostra infanzia, che non ci abbandonano mai, e se il nostro naso, dovunque ci troviamo, percepisce qualcosa che vi somiglia, subito la mente fa riemergere la strada, la piazza, la casa dove l’abbiamo «appreso» e frequentato per la prima volta.
L’aver preso visione di una raccolta di di fotografie realizzate da Silvia De Sensi e Antonio Renda dedicate ai colori del paesaggio calabrese mi ha spinto a interrogarmi, più di quanto non avessi fatto finora, suoi colori dei miei ricordi di ragazzo, nato e vissuto in questa regione sino alla prima giovinezza. Quale luce, quale particolare colorazione aveva per me la Calabria negli anni Cinquanta e Sessanta? Certamente, posso dire che essa non appare fissata in una tonalità dominante. Nella mia memoria la Calabria di allora non appare sotto una stessa e uniforme luce. Com’è del resto ovvio e comprensibile. E’ soprattutto nella varietà, nella mutevolezza di toni, di luminosità e colori che l’evocazione del passato mi restituisce oggi la corposità multiforme della mia terra.

Bastioni di Catanzaro visti da via Carlo V. Foto di Caro M. Elia


Pur essendo nato e vissuto in una città, Catanzaro, i miei ricordi non sono infatti avvolti nel grigio monotono delle sue case, dei suoi muri, dei suoi palazzi. Intanto, perché un tempo – prima che venisse sfigurato da una classe dirigente rozza e anarcoide – questo centro urbano era al suo interno punteggiato da orti e giardini. Il verde degli alberi di aranci, di limoni, di fichi, di melograni esplodeva di tanto in tanto al di là dei muri, dei cancelli, degli androni dei palazzi, come una sfida gioiosa della natura sulla morta uniformità delle pietre. Ancora oggi, quando ritorno per qualche ragione a Catanzaro, vado cercando nei vicoli dei vecchi quartieri le tracce superstiti di questo verde incastonato fra muri di cinta, case, slarghi, chiese silenziose. Ultimo lascito di una cultura greco-bizantina, forse con qualche influsso arabo, che voleva una presenza domestica della natura anche fra le case degli uomini.
Ma era il passare delle stagioni che scandiva il colore della città, per lo meno di alcuni suoi frammenti, quelli che coincidevano con lo spazio della mia vita quotidiana di allora.

Ancora bastioni di Catanzaro visti da via Carlo V. Foto di Caro M. Elia

A Sant’Angelo, il quartiere dove sono nato e vissuto per oltre vent’anni, l’avvicendarsi delle stagioni tingeva le cose della loro varia luce, di una patina talora struggente. Ricordo ancora adesso il bianco sontuoso dell’estate: una colorazione del cielo che non ho più ritrovato in altri luoghi del mondo. Quando capitava di svegliarmi presto, in qualche mattina di piena estate, e di dare un’occhiata allo slargo di Sant’Angelo, rimanevo incantato ad ammirare il cielo colore di mandorla che si destava silenzioso, prima che apparisse il sole. Era una distesa quasi lattea, senza una nube, senza ancora un volo di rondine, che mi inghiottiva per qualche istante nell’incantesimo di una età remota, fuori dal tempo. Era un tempo breve e insieme infinito. Al levarsi del sole una luce d’Oriente scioglieva poco dopo in oro quel bianco srotolato sui tetti delle case.

Catanzaro, basolato strada per S.Angelo. Foto di Carlo M. Elia


Ma c’era un mese dell’anno che nella mia memoria continua a rappresentarsi come uno scrigno di ricordi e di varie luminosità. Come dimenticare il mese di maggio, a Sant’angelo, negli anni Cinquanta? Lo slargo, circondato dalle case, era uno specie di catino in cui i bambini sul selciato e le rondini in cielo facevano a gara a chi strillava più forte, a chi correva più veloce. Le rondini sfrecciavano intorno alla fontana, sfidavano la terra volando radenti le basole della strada. Credo che realmente quegli uccelli si eccitassero per la presenza e il vociare di tanti bambini. Ricordo gli innumerevoli pomeriggi trascorsi in strada, sereni come solo maggio sa essere sereno dalle nostre parti. Allora il profumo delle rose inondava il quartiere: era un effluvio che veniva dagli orti vicini, spesso nascosti e invisibili, ma anche dalle donne che le portavano a mazzi nella chiesetta di San Michele Arcangelo. Maggio era il mese di Maria e l’omaggio serale delle rose era, di quei tempi, a buon mercato. Dalla chiesa, che rimaneva silenziosa tutto il giorno, giungeva a quell’ora il mormorio delle donne in preghiera e ondate di profumo che stordivano.
Il colore del ricordo di quei giorni innumerevoli della primavera, ben distinto nella mia memoria, è comunque la porpora del tramonto. Sant’Angelo, nel mese di maggio, ha per me la tinta gioiosa e insieme struggente del crepuscolo. Il declinare del sole avveniva allora per me in un tempo lunghissimo, con un andamento estenuato. Mentre eravamo intenti alle nostre corse, alla frenesia dei giochi, la luce intorno dileguava lentissimamente, fino a che non ci avvolgevano le ombre. Ma persino le ombre avevano riflessi di sangue, conservavano a lungo una traccia del sole morente. Sui muri delle case si stampava e durava un velo purpureo, ultima consunzione del giorno glorioso, che si imbruniva a poco a poco, e poi si faceva inghiottire dalla notte.

Paesaggio silano. Villaggio Mancuso.


Ma la Calabria ha nella mia memoria non solo patine e colorazioni urbane. Anche da ragazzo ho avuto modo di frequentare la campagna. Del resto negli anni della mia fanciullezza la campagna era dentro la città. Era sufficiente affacciarsi dal muretto della via di Pratica per avere davanti un mare di colline, che si stendevano a vista d’occhio, sino al vasto golfo del mare Jonio. Erano terre coltivate a grano o poggi coperti di uliveti, che risalivano oltre il vallone della Fiumarella, al di là degli orti che cominciavano giusto qualche metro sotto il muretto. Si trattava di una zona della città, posta alle spalle del mio quartiere, che si animava particolarmente nella primavera, quando le famiglie si recavano direttamente negli orti per acquistare fave e piselli freschi. Un mondo da tempo scomparso e rimpianto da molti catanzaresi.
E tuttavia non è genericamente la campagna ad aver depositato l’emozione di un particolare colore nel fondo della mia memoria. Non è, certamente, il verde degli alberi e dei campi, anche se non mi mancano particolari ricordi che hanno intorno il paesaggio lussureggiante della campagna. Il verde della Sila, per esempio, che è obiettivamente, direi, una tinta storica della Calabria, una sua connotazione per così dire originaria, non colora i miei ricordi. Quel fervido colore della vita, che occupa tanta parte del territorio della regione, non appartiene alle mie esperienze, se non tardive e da visitatore occasionale.

Per la verità un  verde più appartato e remoto emerge di tanto in tanto nella mia memoria, con la stessa frammentarietà con cui mi appariva nell’adolescenza e giovinezza. Benché lontano circa 13 km da Catanzaro, il mare Jonio appariva d’improvviso a chi transitava in  alcuni punti della città come l’occhio d’un dio, emerso d’improvviso sopra i tetti delle case, oltre le balze e le colline che degradavano a Sud.

Era un pozzo di luce, al mattino, un lago d’oro fuso che abbagliava e che solo quando il sole era alto si faceva smeraldo. In quelle occasioni, che capitavano di frequente in città, prima che la devastante colata di cemento sbarrasse tante prospettive verso l’orizzonte marino, si restava stupiti nello scorgere fra tanto grigio di case, quell’ampio golfo d’acque ferme, d’un verde solenne, che si stendeva all’infinito, fin dove l’occhio poteva spingersi. Quel mare appariva come   una finestra schiusa sull’immensità, che faceva volare oltre l’angustia delle strade e dei vicoli, le limitatezze della vita, una promessa  colorata d’infinito.
Invece, il colore per eccellenza della campagna calabrese – questa volta non solo nella mia memoria, ma anche in senso propriamente storico, è certamente il giallo.

Raccolta grano a Cortale. Foto di Carlo M. Elia

In realtà un giallo particolare, non piatto né squillante, ma morbido, mutevole, tendente all’oro e talora al più caldo bronzo e nella sua fase estrema addirittura al rame. E’ il giallo dei vasti campi di grano che per tanti secoli hanno dominato le campagne della regione, soprattutto lungo la fascia jonica, tra la tarda primavera e l’autunno. Sulle colline oltre la via di Pratica, o più ampiamente ai lati della statale che da Catanzaro Marina porta a Botricello, verso Crotone, già da maggio il grano brillava sotto il sole, formava onde flessuose sotto la sferza del vento, trasformando in un mare in tempesta i poggi e i pianori coperti di spighe sino all’orizzonte. Qui il giallo dei latifondi celebrava la sua festa, che durava alcuni mesi. In altre occasioni, quando il cielo era mutevole, e il sole si alternava alle nuvole, il giallo dei quei campi trascolorava continuamente, brillava di luce o si rabbuiava d’ombre, come in un gioco inquieto che non conosceva soste.
Ad un bambino che ammirasse quello spettacolo, in quel momento dell’anno, il mare di grano maturo doveva necessariamente apparire come una esuberanza spontanea della natura. Guardando quei campi senza un albero, talora senza un casa, senza un asino o qualche pecora, e soprattutto senza la presenza di un solo uomo, era facile credere che lì la natura avesse fatto tutto da sola. Era ormai lontano il passato autunno, quando su quei campi si era arato e seminato. E ancora lontana era l’estate della mietitura e della trebbia, quando quelle terre si sarebbero affollate di donne e uomini, di carri, di voci, tutti persi nel mare giallo delle paglie sotto il sole cocente dello stesso colore.

Contadina entroterra soveratase. Foto di Bonaventura Zumpano


Ma ricordo che non meno profondamente legato a quelle terre, elemento antico e per così dire perenne di quel paesaggio, era il giallo delle stoppie. Dopo la mietitura, quei poggi e radure e colline rimanevano nudi, tosati come pecore, e così lasciati sotto la calura della lunga estate mediterranea. Un paesaggio monotono e arido si stampava allora su quiei suoli e durava a lungo senza alcuna presenza umana, come un luogo di abbandono, una sorta di deserto lunare. A mezzogiorno quel bronzo accecava, ma col passare dei giorni, sotto l’ardore sempiterno del sole, si imbruniva, perdeva la sua vivida e luminosa asprezza. E tuttavia restava pur sempre lì, immodificato, salvo qua e là la presenza, verso settembre, di qualche mandria di pecore che stentatamente brucava tra l’erba secca.. Secondo la temporalità speciale costruita dalla mia memoria, quel giallo durava a lungo, più di qualsiasi altro colore nel paesaggio calabrese. Era come la trasfigurazione dell’anima antica della regione. Un che di arcaico e remoto che sembrava tramandare i segni taciti dei millenni trascorsi su quelle terre. Lande austere che duravano fino ai nostri tempi, con volto immutato. Quel giallo consumato e deserto traduceva i silenzi, la solitudine, la sobrietà dei luoghi e delle genti passate e presenti. Talora, sul finire dell’estate, i contadini appiccavano il fuoco alle stoppie, in omaggio all’antica pratica del debbio. Le colline si coprivano allora di fumanti fiammelle che correvano basse per le terre come animule infernali. E alcune sere, quando il vento si alzava, l’odore acre della paglia bruciata giungeva fino al cielo della città, si sentiva per le strade, come il fiato caldo della terra, che ricordava agli uomini la sua vicina e materna presenza.

***

da  IL VENTO NELLA CITTA’

di Piero Bevilacqua

Prefazione di Alberto Asor Rosa

DONZELLI 2010

***

Ebbre di mille voli

garrivano in tempesta

le rondini

vorticando

sui tetti di Sant’Angelo.

***

A volo radente

sfioravano i gradini della chiesa

sfrecciavano intorno alla fontana,

fra gli spruzzi

dell’acqua,

di pazzi giri

intessevano l’aria

e di clamori

a gara con gli urli dei bambini

nella piazza.

***

Lungamente il sole si sfiniva

avvampando

nelle pietre,

suggendo sui muri

il profumo

delle rose

che vagava, 

ebbro,

dagli orti

***

Sfuggito alla cattura dei compagni,

steso

sul selciato,

con la testa riversa    

miravo il pozzo dell’azzurro,

a precipizio

sprofondavo

nella  vertigine del cielo.

***

Sere di maggio,

consumate entro   un giro di case imporporate fino a notte,

l’ora che strugge

brucia nella memoria come viva

ed è perduta.

***

Dall’alto del vicolo,

per i gradini erti

scendevo

come sospeso

incontro al vento 

che m’arrestava,

mi sollevava  in volo,

come un uccello

strepitando nei panni

frustandomi il viso  trafitto dal sole.

***

Ai meriggi della prima estate,

senza compagni,

era avventura

tuffarmi nella lama di luce

fra le case,

budello scosceso

dove il vento era signore,

fragoroso torrente

rotolante sui muri,

che soffiava odori d’erbe e di capre.

***

Lungo la bianca via di Pratica finiva la citta’,

chiusa in alto nei bastioni,

sotto il sole

che ardeva

in mille specchi  di finestre .

***

Dal muretto rovente,

confine degli orti,

mi si apriva dinnanzi la campagna

sotto di me distesa,

all’ orizzonte

rotonde colline correvano

a torme,  

greggi d’erba,

verso il  golfo ampio del mare.

***

Fiorivano talora

nell’azzurro

sfrangiate nuvole

veloci,

cavalli alati,

gabbiani senza méta

che correvano a stormi

oltre  orizzonte.

E se  nell’ora incantata,

per  tedio

si fiaccava il vento,

e la citta’  svaniva nel    silenzio,

potevo di lontano udirne il canto,

che  in alto mi chiamava

e mi rapiva.

***

Quando al suo colmo

germinava l ‘estate mediterranea,

e l’alba si destava,

sciogliendosi dai grumi delle ombre

il cielo di latte

si rotolava

sulle colline dei tetti,

calcinava la luce

fino alla lontana pozza del mare.

***

Tacevano ancora

le famiglie delle rondini,

nei nidi di creta,

le famiglie degli uomini

nei nidi di pietra.

Prima che si destasse il tempo

caduto nell’oblio della notte

da una finestra

stringevo in mano

la chiave del sortilegio,

la magia

che teneva la citta’ sospesa

bloccata in un istante

per gioco ritornata

al primo albore,

all’infanzia stupita della terra.

***

Era degli uccelli

la città,

al primo sbiancare dell’alba.

Rondini inquiete

saettavano dall’ombra delle case

tracciando muti ghirigori

nel cielo di mandorla.

Dal nulla   passeri

arruffati rotolavano

sul selciato,

aspettavano il sole  sui fili della luce,

s’adunavano  a frotte i colombi

borbottando, 

come bande di monelli all’avventura.

***

Non un passo dal fondo della strada,

un finestra spalancata.

un cigolio di ruote

Senza uomini e voci

la foresta di pietra

era silente,

dormiva il sonno dei sussurri.

***

Ogni alba d’estate

prima che si levasse il sole

sulle case

si faceva possibile l’incanto,

l’imprevista magia,

che la vita cominciasse in altro modo,

per un altro sentiero,

che in volo si levasse,

all’improvviso,

con un battito d’ali.

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1 commento

  1. Pagine suggestive, versi struggenti : risvegliano dolcemente le mie origini calabresi ( responsabile la mamma, provincia di Catanzaro, con mio padre di Bronte ) ricordi di irripetibili esperienze di infanzia e prima giovinezza con innumerevoli zii, cugini e amici mai persi, la forza delle tradizioni ben presenti nella mia cucina …
    Indiscutibile la luce del mare, il gioco delle coste e la cornice dei monti e delle Serre di San Bruno . Grazie Piero Bevilacqua

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