Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Maurizio de Giovanni
Giallo (Noir sentimentale)
Einaudi Torino
2024
Pag. 253 euro 18,50

Fortino (Cilento) e Napoli. Luglio 1940. Ricordi di bimba. Intanto, il vedovo
Luigi Alfredo Ricciardi si siede davanti alla tomba di Enrica;
da tre mesi, grazie
anche al mausoleo di famiglia dei baroni di Malomonte in quel tranquillo
cimitero, ha convinto i suoceri Giulio e Maria a trasferirsi nell’antico castello del
paese del basso Cilento, insieme alla nipote, sua figlia Marta (nata mentre la
mamma moriva nel parto), e alla governante tuttofare Nelide, capace così di
occuparsi dei possedimenti con maggior cura; lui vi era nato e cresciuto fino ai
15 anni, andato via ancora adolescente, per studiare, poi l’università e il lavoro
di polizia, non era più tornato; la metropoli urlante e colorata gli mancava,
come i pochi cari amici; tuttavia sa che il Fatto della propria vita era iniziato lì
e non può rinviare più il ritorno alla radice del suo dolore. Marta riempie la vita
di tutti, ha occhi neri e vivaci come la mamma, entusiasmo e sensibilità;
frequenta l’anziana Filomena, zia di Nelide, apparentemente muta e sorda,
sotto un grande ulivo della collinetta e forse presto la maestra Giovanna che
potrebbe ovviare bene all’assenza della scuola; sta per compiere 6 anni, il 7
luglio. Nel frattempo, l’enorme gioviale irascibile 61enne brigadiere Maione
continua a indagare nei vicoli dei Quartieri Spagnoli e il medico pensionato
Bruno Modo continua a frequentare un ristretto gruppo antifascista di Napoli,
progettando un attentato contro un pezzo grosso nazista tedesco, di passaggio
al porto. Dopo sei necessitati anni in Argentina, la splendida cantante di
successo 41enne Laura Lobianco ha ormai deciso di rientrare in Italia,
riprendere anche l’originario nome di Livia Lucani Vezzi, visitare l’originaria
Jesi; il grasso musicista Diego la introduce a una canzone proprio sul ritorno,
che non hanno nel repertorio, troppo maschile, Volver. Maione viene a
conoscenza dell’attentato e intende salvare gli amici; Ricciardi si concentra su
un vecchio caso di omicidio a Fortino, intuisce che lo riguarda personalmente.

Il grande scrittore italiano Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) va ormai
considerato un Maestro, non solo del suo genere (ai confini di tanti altri). La
sua prima e più amata serie giunge il quindicesimo romanzo, un capolavoro a
puntate, sempre grande qualità, picchi talora. Per lui si va nelle autentiche
dolenti esistenze emozionali. Dopo gli esordi con le quattro stagioni del 1931, il
seguito delle feste del 1932, le svolte matrimoniale del maggio 1933 e
genitoriale dell’estate 1934, aveva dovuto abbandonare alla sua sorte
l’amatissimo “diverso” commissario (dodicesima avventura), poi ritrovato ad
aprile 1939 (tredicesima avventura) e a Natale dello stesso anno
(quattordicesima), sempre a Napoli. Qui abbiamo due profili spaziali (Fortino,
ove Ricciardi si è dovuto trasferire causa regime dittatoriale e leggi razziste, e
Napoli) e due profili temporali (l’estate turbolenta di parenti e affetti, a lui
contemporanea, e il caso del suo passato locale, un fatto di sangue del
febbraio 1906). La trama si compone anche di ingegnose vicende più o meno
criminali su cui indagare e da risolvere, con acume e fantasia. Tutto intorno
prendono spazio e tempo (come nelle serie tv) le vicende parallele noir e
sentimentali dei tanti coprotagonisti, questa volta imperniate sul ritorno
geografico, affettivo e sociale, nell’eterna indagine su noi stessi e qui sui
misfatti causati in larga parte dall’orrido regime fascista. Non mancano
Bambinella, il viso equino pesantemente truccato sotto il cappellino vezzoso e
la veletta, la persona più attendibile in città per quanto concerne le
informazioni riservate; la contessa Bianca Borgati di Zisa che rimpiange Marta,
si preoccupa per Modo e compirà anche lei gli anni il 7 luglio; il bell’ambulante
fruttivendolo Tanino ‘o Sarracino, in trasferta perché innamorato della mitica
brutta Nelide (che risponde a monosillabi e oscuri proverbi nel suo dialetto);
vari interessanti personaggi cilentani, antichi e moderni. La narrazione è, come
sempre, in terza varia (con incursioni in prima e in corsivo su Filomena, in
terza su alcuni incontri d’epoca utili a comprendere il contesto storico sociale).
Il titolo si riferisce a Volver, un’altra canzone del 1934, ancora testo di Alfredo
Le Pera, musica di Carlos Gardel. In copertina la bimba e l’anziana a
“colloquio” sotto l’ulivo. Vino, rosolio e surrogato (niente caffè). Altro che
letteratura minore di genere!

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Lo sport è un gioco?
Philippe Descola
Antropologia
Traduzione di Niccolò Casens
Prefazione all’edizione italiana di Stefano Allovio
Raffaello Cortina Milano
2024
Pag. 74 euro 11

Società umane, vicine e lontane, nello spazio e nel tempo. Negli ultimi decenni
le scienze sociali
hanno dato sempre maggiore importanza agli aspetti non
linguistici della cognizione e dell’azione, in particolare per quanto riguarda
l’apprendimento di attività pratiche, siano esse relative a competenze tecniche
specifiche o allo svolgimento meccanico di attività quotidiane. Anche quando le
competenze sono trasmesse pure attraverso il linguaggio, orale o scritto,
vanno comunque acquisite (“incorporate”, “incarnate”) come un riflesso, e non
come una forma riflessiva, come una catena di automatismi, non come una
lista di operazioni da compiere. Così, tutti gli sport hanno il loro vocabolario
specifico per descrivere azioni, movimenti del corpo, modi di usare uno
strumento; ma le parole che usiamo cominciano ad avere senso solo quando
abbiamo interiorizzato ciò a cui fanno riferimento, quando scopriamo che quel
gesto che siamo finalmente arrivati a padroneggiare corrisponde al termine che
usiamo per nominarlo. Servono schemi cognitivi e sensori-motori ad hoc e alta
flessibilità adattativa, un insieme di compiti imparentati tra loro, la cui
attivazione non intenzionale è innescata da un tipo di situazione particolare,
che si concretizza ogni volta in modo un poco diverso dal precedente (e dal
successivo), come la pratica di un’attività “sportiva” appunto. Ed è comparando
tra loro campi di significato appartenenti a culture dalle tradizioni tecniche
diverse che (grazie ad antropologi, storici, linguisti) potremmo sperare di
sollevare un angolo del velo che dissimula la ragione dei gesti nell’oscurità
delle abitudini e dell’apprendimento imitativo, restituendo più dignità,
precisione e profondità al linguaggio del corpo. Lo sport ci guadagnerebbe.

Il grande influente antropologo francese Philippe Descola (Parigi, 1949) rispose
qualche anno fa ad alcune domande sul tema Lo sport est-il un jeu?; le
interviste a lui e ad altri noti intellettuali francesi (riconducibili a diversi campi
del sapere), redatte in collaborazione con un istituto specializzato e
competente, furono poi pubblicate tutte insieme con lo stesso titolo dalla casa
editrice Robert Laffont (2022). Con prefazione e riferimenti bibliografici
dell’antropologo italiano Stefano Allovio (1968) esce ora l’intervista a Descola,
un testo brevissimo che, dopo i riferimenti a “le parole che usiamo”, contiene
domande e risposte relative a: Il gioco, un rituale, universale (attività di
emulazione e apprendimento, praticata nell’infanzia e nell’adolescenza, un fine
in sé molto più di quanto non lo sia il risultato); Rivalità e individualismo (fece
un seminario in materia al Collège de France nel 2020, disponibile online);
Philippe Descola e lo sport (cricket, andare a cavallo, sci alpino, boxe
francese); Identità e appartenenze (gli aspetti di “identificazione” nazionale,
regionale, locale); Lo sport contemporaneo (competitivo capitalizzato
mediatizzato mondializzato, prevalentemente nato nelle grandi scuole inglesi,
come un dispositivo di creazione delle élite e di preparazione alle carriere
militari, con proprie sacre dimensioni estetiche); Disneylandizzazione
(dell’intera Europa); L’uomo macchina; Un universale della relazione (conferire
diritti a degli habitat, territori, località, insiemi; riorganizzare lo sport come
bene comune). L’autore parte dalla sua personale esperienza etnografica
presso gli achuar dell’alta Amazzonia (Ecuador), riflette sull’apprendimento
della caccia e della guerra “a bassa intensità” (per divenire “esperti” ci vogliono
decenni di pratica collettiva), si dissocia da ogni posizione di carattere morale,
offre molteplici spunti critici.

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Il vescovo e il ciarlatano. Inconscio e letteratura: l’incontro con Ernst Bernhard
Giorgio Manganelli
Articoli, discorsi, interviste (spesso dal testo dattiloscritto)
Postfazione e cura di Emanuele Trevi
Sellerio Palermo
2024
Pag. 188 euro 14

Roma. 1969-1987. La letteratura trattata come centrale diventa molesta, perché tutto
ciò che è centrale è intollerabile;
diventa centrale solo quando si capisce che è
periferica. Probabilmente dal 1958, il 36enne povero scrittore Giorgio Manganelli
(Milano, 1922 – Roma, 1990) inizia a frequentare lo psicoanalista apolide Ernst
Bernhard (Berlino, 18 settembre 1896 – Roma, 29 giugno 1965), non lo può pagare e
lui gli insegna comunque a mentire. Nel 1973, di fronte a una platea di psicologi e
studiosi (convenuti per discutere di Jung nella cultura europea), Manganelli
pronuncerà una memorabile apologia dell’incubo profondo, del carattere luciferino e
visionario della letteratura, dell’isolamento sociale dello scrittore. Le conversazioni
con Caterina Cardona, un ventennio di articoli e interviste su quotidiani e periodici,
vengono ora raccolti quasi in un unico saggio tematico sull’inconscio e la letteratura
“Il vescovo e il ciarlatano”: biografie illustri e casi clinici, sogni e simboli.

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Le spie di Stalin. I ragazzi di Cambridge che cambiarono la storia
Giorgio Ferrari
Storia
Neri Pozza Vicenza
2024
Pag. 316 euro 20

Cambridge. Dai primi anni Trenta a inizio anni Settanta. Forse il Trinity College
sembra ed è un mondo a parte
, il meglio dell’aristocrazia intellettuale anglofona,
fondato da Enrico VIII nel 1546, finora 34 Premi Nobel e innumerevoli altri
riconoscimenti conquistati da suoi allievi e docenti. Ha sfornato anche il più alto e il
più pericoloso numero di traditori della Corona, cinque famosi nel Novecento,
soggetto di tanti romanzi e film: Kim Philby, Donald Maclean, Guy Burgess,
Anthony Blunt, John Cairncross. Il bravissimo giornalista Giorgio Ferrari (Milano,
1954), oggi apprezzato inviato ed editorialista di “Avvenire”, ne racconta la storia in
“Le spie di Stalin”: sposarono l’ideologia comunista e idealizzarono Stalin come
unico leader per contrastare l’avanzata dei fascismi e del nazismo. Furono esteti
armati del tradimento, ritagliato a misura del proprio egonarcisismo. La loro sorte, fra
l’alcolismo e un torbido esilio, ha il sapore acre del finale di una dramma
elisabettiano.

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