Dal basso della mia incompetenza formale, faccio seguito alle riflessioni qui pubblicate di Gianfranco Nappi (a caldo e calda, com’è nel suo stile) ( https://www.infinitimondi.eu/2024/11/06/degli-usa-e-di-noi-di-gianfranco-nappi/ ) , e di Lorenzo Fattori,( https://www.infinitimondi.eu/2024/11/07/degli-usa-e-di-noi-qualche-dato-economico-per-spiegarsi-il-voto-a-trump-di-lorenzo-fattori/ ), puntuale sugli aspetti economici. L’esito elettorale negli USA (e non solo, ma è per entità un buon esempio) meriterebbe una forma di analisi più profonda, una psicoanalisi di massa che indaghi il fenomeno del premiare gli aguzzini, dei milioni di diseredati o appena ex tali (vedi il voto degli immigrati stabilizzati) che in periodo di scontento, insicurezza, difficoltà quotidiane conclamate o temute si fidano e si affidano a un padre padrone.

Sottolineo padrone, perché la figura in gioco non è quella del padre eneadico, accorto, rassicurante, capace di cura e di progettualità. No. È il padre padrone, sfruttatore estrattivo, il vecchio padre per cui i figli sono braccia da lavoro, con scarsi diritti e ancor meno cultura per favorirne l’asservimento. Un padre, però, capace di raccontare le favole della buonanotte per irretire, mostrando la maschera del sorriso con la carotina di un racconto anestetizzante.
Ed è al racconto che volevo arrivare.
Il racconto è parola in luogo di fatto, è una forma ordinata dell’emotività e compendiata della realtà funzionale al messaggio che si intende trasmettere. Il racconto mima la realtà, ovvero ne assume le sembianze, generando la sospensione volontaria della incredulità. Con questa espressione, nel 1817, Samuel T. Coleridge definisce la predisposizione mentale con cui il lettore (o il pubblico) si cala nell’universo narrativo, accettando come possibili eventi altamente improbabili e finanche irrealistici.

Le parole per dirlo

In questo tempo tutto incentrato sulla comunicazione (elementare, veloce, apodittica, d’effetto) la sinistra non ha ancora elaborato una nuova – e più adeguata – retorica. E, com’è ovvio, uso il termine nell’accezione migliore di persuasione argomentativa. Ancora impregnati fino al midollo di una formazione basata sui libri, sul tempo lungo e sulla capacità di applicazione allo studio, fatichiamo a convincerci che la realtà, per quanto complessa e talvolta di difficile interpretazione, possa essere compattata e riordinata in forme (e formule) narrative che la rendano accessibile e, soprattutto, desiderabile. Già Alex Langer, negli anni 80 del secolo scorso, aveva affermato che per dilagare l’ideale (e soprattutto la pratica) ecologico avrebbe dovuto dismettere l’aspetto triste della rinuncia, attivando processi di seduzione, ovvero illuminando a giorno le parti positive del nuovo modello e lasciando implicite (in ombra) quelle riconducibili a un segno meno.
È chiaro che il problema della comunicazione non è avulso dal progetto politico che si ha in testa (per chi ce l’ha) e, in questo senso, potrebbe tornare utile la lettura di “Per un populismo di sinistra” di Chantal Mouffe (GLF, 2018), uno studio e un’ipotesi di una nuova declinazione di partito di massa nel terzo millennio. Giusto per rifletterci un po’ su.
“Tutto ciò può essere narrato in un altro modo” scrive Saramago a conclusione del prologo al romanzo Una Terra chiamata Alentejo.
Io ci proverei.

Iiaia de Marco

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