Dall’Introduzione

Perché un atto d’accusa

Questo atto di accusa, che certo meriterebbe ben altra penna rispetto a quella modesta  dello scrivente , nasce da una domanda molto semplice riferita ad una delle aree della Campania più cariche di storia, di valori paesaggistici e culturali, di capacità del lavoro e dell’impresa che ne fecero la Campania Felix, e poi Terra di Lavoro dove, appunto, per la ricchezza del suolo c’era sempre da lavorare e raccogliere, e che invece poi più tristemente è stata appellata Terra dei Fuochi. Oggi non la si può più definire tale ma non si può neanche dire che i fuochi non ci siano più e così vive come sospesa tra un passato da cui sente di voler uscire ma senza un futuro chiaro da costruire.

Eppure parliamo della pianura più importante della Campania, la più ricca che abbraccia non poco del territorio della regione, e che dal litorale domitio, napoletano e casertano, si spinge fino ai contrafforti irpini risalendo dal mare il Nolano, unendosi poi a corona a quelli del Matese e del Molise dove nasce il suo fiume Volturno.

Ebbene, l’interrogativo è: ma come è possibile che, pur essendoci idee, ipotesi progettuali al cui farsi ha concorso attivamente negli anni anche un tessuto associativo, di volontariato, di movimento, di istituzioni religiose; risorse tali da poter delineare una prospettiva oltre l’emergenza -ambientale, criminale e di disgregazione sociale – per questa parte d’Italia, non si riesce a venirne a capo e, anzi, tutto sembra spingere per prolungare una eterna emergenza in ogni campo?

Fino all’ultima beffa che si vive ora, ecco la denuncia più ferma, dell’idea di un grande progetto – non per milioni di metri cubi di cemento armato impegnati ma per visione, capacità di costruirsi dal basso e di concretizzare una intera altra ipotesi di sviluppo –  deliberato quasi a sorpresa tra il 2021 e 2022,  rivitalizzandone un altro più vecchio ma intatto nella sua validità e già per parte sua mandato al macero quindici anni prima; su cui si sono impegnati oltre 200 milioni di euro e rimasto nel volgere di pochi mesi senza alcuna prospettiva nell’indifferenza pressoché generale e nell’irresponsabilità più grande di tre livelli istituzionali: il Governo nazionale, quello della Campania e quello della Città Metropolitana di Napoli e della Provincia di Caserta.

Questa irresponsabilità io denuncio: una denuncia di carattere politico, morale anche. Io credo che il tema di politica e morale abbia ancora un grande valore. E potremmo anche imparare ad esempio da quelle comunità del Brasile, della Amazzonia nelle quali se non ti comporti bene con gli altri o con la tua terra e con la stessa foresta la comunità ti sanziona: ti toglie il saluto.

Togliere il saluto ad una persona equivale a non vederla, a farla scomparire dalla considerazione, toglierle importanza.

E non sarebbe poco.

Ma denuncia anche affinché si possa contribuire ad un ravvedimento, ad una presa di coscienza nuova, ad un diverso orientamento nelle scelte di governo che consentano di riprendere quel che è ancora a portata di mano e che sarebbe un vero delitto lasciare per strada.

Questo è l’obiettivo positivo di questa accusa.

A questo serve il racconto della storia di questa, al momento, nuova possibilità diventata illusione.

Poi se vorrete, potrete trovare nella seconda parte anche il racconto di un’altra storia, quella di come nacque, e naufragò la prima illusione, quella tra 2009 e 2010, quasi un diario di una esperienza personale anche.

Gianfranco Nappi

***

Dal Saggio storico di Alfonso De Nardo

L’ampio territorio campano, prevalentemente pianeggiante, che a partire dal medioevo sarebbe stato noto come ‘Terra Laboris’ (poi, con il regno delle Due Sicilie, ‘provincia di Terra di Lavoro’) e che oggi raccoglie parte della Provincia di Caserta e l’area nolana, coincide grosso modo con la Campania Felix di cui parla con toni enfatici, tra i numerosi altri autori, Plinio il Vecchio: Come si potrebbe descrivere il litorale della Campania e quella amenità così fiorente e beata, dove in un solo luogo sembra si palesi la potenza della natura gioiosa? E la vitale ed eterna salubrità, la mitezza di clima, i campi fertili, i colli soleggiati, i valichi sicuri, i boschi ombrosi, le varietà produttive degli alberi, le brezze generate dai monti, la fertilità di messi, viti e ulivi, le lane pregiate dei greggi, i colli ben torniti dei tori, i laghi, la ricchezza di fiumi e dei torrenti che la bagnano tutta, i mari, i porti, il suo grembo che si apre da ogni lato al contatto con i popoli, tutta protesa verso il mare come per aiutare gli uomini[1].

Era così baciato dalla fortuna, questo territorio di pianure e vulcani, da esercitare già in età repubblicana e poi ancor più in quella imperiale, irresistibile attrazione sul migliore patriziato romano, che qui costruì ville sfarzose, ove vissero o soggiornarono più o meno a lungo, tra lussi e mollezze, gli esponenti più in vista dell’aristocrazia. E perciò da meritare, a causa delle dissolutezze e delle perversioni favorite dal clima e dal lusso di città come Baia e Capua, gli strali di uno stoico come Seneca, legato al mito della romanità frugale e austera degli antenati.

La generale decadenza dell’alto Medioevo investì l’intera area, travolgendo tanto le dimore patrizie che i centri abitati, sconvolgendo le regolari scansioni della centuriatio e consegnando plaghe sempre più ampie della pianura all’impaludamento. Ma si sbaglierebbe a pensare che la presenza degli ampi acquitrini nella pianura campana sia un problema sorto solo nel medioevo, anche se è comprensibile che esso abbia assunto particolare gravità nella lunga era di abbandono, incuria, declino demografico e povertà seguita alla caduta dell’Impero. A causa dell’abbandono plurisecolare delle antiche regimazioni idrauliche, le alluvioni ripetutesi nella lunga era di mezzo spinsero infatti le pianure costiere verso il mare, dando origine a colmate che col tempo sarebbero state chiuse da imponenti dune litoranee, di ostacolo allo scolo delle acque verso il mare. Tuttavia la piana campana, almeno nella parte prossima alla costa, era tutta un susseguirsi di luoghi deserti, incolti, inospitali e acquitrinosi, con la cui asprezza dovette fare i conti già Annibale durante la sua discesa in Italia, quando si trovò racchiuso con le sue milizie tra le Laestrygoniae rupes e la Literna palus[2], tra le sabbie e gli stagni di cui parla Tito Livio (Literni arenas stagnaque)[3]. Rincara la dose Valerio Massimo quando, raccontando dell’ultimo sdegnoso esilio di Scipione l’Africano a Liternum, affibbia al villaggio l’appellativo di ignobilis vicus in ignobilis et deserta palus[4]. Giudizio analogo a quello espresso qualche decennio più tardi da Silio Italico nel suo racconto della seconda guerra punica: undosis squalida terris.

L’impraticabilità della fascia costiera restò irrisolta anche nell’epoca del massimo splendore imperiale, come si comprende dalle Silvae di Stazio, che celebrando i meriti dell’imperatore Domiziano, parla della costruzione della nuova strada che porta il suo nome, la direttissima che congiunse lungo la costa Sinuessa a Napoli e consentì di accorciare sensibilmente la distanza da Roma. L’immane lavoro, compiuto da un esercito di spaccapietre, stese una larga e diritta via laddove una volta il viaggiatore che veniva trasportato su di un carro a un solo asse ondeggiava tra l’oscillare del pendulo timone: le ruote affondavano nelle insidie del terreno e la plebe latina in mezzo alla campagna paventava gli stessi mali della navigazione.[5] L’ingegneria romana non permise di risolvere il problema dell’impaludamento diffuso, ma riuscì comunque a garantire, con solide massicciate, canali di drenaggio e ardite opere di attraversamento dei corsi d’acqua (in primis il ponte sul Volturno di cui resta traccia nel basamento…

Alfonso De Nardo


[1] Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 40-41

[2] Silio Italico, Punica, VII, 276-281

[3] Tito Livio, Ab urbe condita libri, XXII, 16

[4] Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri XI, 5.3.2b

[5] P. P. Stazio, Silvae IV, 3, 27-31

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