I dati elettorali, mi hanno insegnato, si interpretano solo con il confronto. Senza di esso della realtà illuminano solo una piccola parte e lasciano in ombra ciò che è effettivamente avvenuto.
A giustapporre i dati attuali del doppio voto avellinese con quelli di cinque anni fa essi si presentano eguali. Cinque anni fa Festa ed il suo antagonista Cipriano ebbero al primo turno esattamente quello di cinque anni dopo di Nargi e Gengaro. E la cosa si ripete al ballottaggio… Sembra che non sia cambiato nulla.
Appaiono essere state irrilevanti sia che Festa abbia gestito la cosa pubblica e l’epilogo giudiziario, sia che la candidatura di Gengaro sia nata sotto altro segno rispetto a quella di Cipriano.
Invece si tratta di due voti profondamente diversi. Innanzitutto per chi perde. Gli sconfitti sono tre, FdI che non porta in consiglio neppure il suo candidato a sindaco e i 5stelle. Ma è il PD è il grande sconfitto, e più di Gengaro, per cui una riflessione si impone, anche fuori del PD perché il destino di questo partito, necessario a contrastare il populismo e la marea reazionaria che sta sommergendo l’Italia, ci riguarda.
Allora alcune notazioni elementari, sottaciute, sinora dai diretti interessati:
1) l’elettore ha ricevuto assieme due schede. Sulla seconda, le comunali ben più di un quarto di quanti avevano sbarrato il simbolo del PD alle europee ha cambiato voto … Perché?
2) nel 2019 le liste che sostenevano Cipriano erano state tutte, nessuna esclusa, costruite a via Tagliamento. Nel 2024 Gengaro prende un numero eguali di voti, ma più della metà vengono da tre liste a sostegno. Per il PD si dimezza il campo di influenza…
3) La terza notazione riguarda le preferenze. Nel PD i “primatisti” appartengono quasi tutti allo stesso clan, quello di Petracca. Ma anche qui a ben guardare siamo ben lontani da una “Ferrari” a serbatoio pieno. Appare da utilitaria e con carburante scarso anche il contributo del “capo”, intenzionato a dimostrare di essere colui che fornisce la forza al candidato sindaco che, sceso in campo con una coppia di preferenze bloccate, si ferma a seicento, quasi ad evocare la reale cilindrata del motore attivato …
Il voto non è stato la conta tra chi ama la legalità e chi considera l’illegalità nell’amministrare “poco importante”. Ma la vicenda giudiziaria ha pesato, eccome, deviando dalla Nargi una mole di consensi ben rilevante che si sarebbe riversata su Festa senza le vicende giudiziarie… Il voto è stato espresso su e per il governo della città e ci rassegna la foto vera dell’opinione che gli avellinesi si sono fatti di questi cinque anni su Festa ed i suoi oppositori.
Avanzo una ipotesi a mo’ di provocazione. Sulle liste di Festa è rimasto il consenso di chi ne ha apprezzato le scelte di cinque anni di governo, consenso non intaccato dalle vicende giudiziarie derubricate a “leggerezze” anche per le modalità dell’inchiesta della Procura. Ma perché il PD, anima della “denuncia”, non ha tesaurizzato il suo indefesso lavoro accusatorio? Io vedo possibile una sola spiegazione, che al giudizio su Festa, che interpreta in maniere del tutto “padronale” le norme, quasi ex legibus solutus, abbia convissuto con un giudizio altrettanto negativo sul PD, in primo luogo per la sua attività in consiglio comunale e poi, e forse soprattutto per ciò che è e rappresenta in città. Insomma: “questi o quelli per me pari sono”…
E allora occorre chiedersi se questa semplificazione non poggi comunque su elementi che abbiano una loro solidità… Insomma se Festa più che la forma che assume qui da noi il populismo non sia invece l’originale frutto politico di una lotta tra “simili”, in gran parte sviluppatasi all’interno del PD avellinese e più che nelle stanze di via Tagliamento nei corridoi del Palazzo di Città e che affonda le sue radici nell’humus infetto il cui primigenio prodotto sono state le amministrazioni a guida Galasso. Insomma la lotta tra un “pezzo” di populismo contrapposto ad un altro non dissimile, non alternativo al primo.
Ma, a ben vedere, quelle stesse esperienze hanno origini che vengono da lontano ed occorre fare un lungo passo indietro per capirne la genesi, occorre richiamare il ricordo di cosa sia stata la DC avellinese perché è di essa che questo PD è in gran parte geneticamente l’erede.
Porsi questa questione significa comprendere come il “populismo” sia una malattia antica, che l’Avellino liberale, l’Avellino fascista trasferisce alla DC del dopoguerra attraverso l’assorbimento del vecchio notabilato locale, ex fascista gianninianamente “qualunquista” o liberale, da parte di Fiorentino Sullo, notabilato poi “ereditato” dalla scientifica gestione del potere da parte della sinistra di base.
Ma con una differenza di fondo tra l’allora sulliano e demitiano e l’ora: allora la guida era saldamente in mano a gruppi dirigenti prestigiosi, autorevoli, portatori di ambiziosi disegni politici nei quali il populismo era solo uno strumento di consenso da utilizzare, non un fenomeno di cui essere succubi. La DC di Avellino ha alimentato il suo consenso con tutti i beceri strumenti del populismo, clientelismo, ammiccamento alla “pancia” sottoproletaria della città, sostegno ai gruppi di pressione, ma è stata anche in grado anche di “sterzare”, di imporre “svolte” segnate dall’interesse generale non frenata dalla paura di perdere consenso.
Insomma la “affinità” dei due gruppi contrapposti (Festa e Petracca) nascerebbe, se le osservazioni mie hanno un qualche fondamento, dal dato che entrambi i gruppi sono portatori della medesima populistica interpretazione della politica, in modo appena più becero e volgare quella che esprime Festa da quella di questo gruppo dirigente del PD locale: sono perciò allo stesso modo entrambi privi di prestigio, di autorevolezza, di capacità interpretare in avanti ed in un disegno che riguardi l’intera città, entrambi costruiti su una rete di relazioni interpersonali, sullo scambio “aiuto personale”/consenso, sulla mistificazione del diritto trasformato in favore.
La vicenda giudiziaria di Festa si è proposta comunque come una grande occasione per il PD.
Per coglierla occorreva un progetto che con parole semplici parlasse a tutta la città, ai ceti popolari, ai ceti borghesi. La premessa era che si fuoriuscisse dalla logica dei “due populismi”, che si guardasse in avanti e che si offrisse alla città l’immagine di un gruppo dirigente credibile nel mantenere gli impegni assunti con gli elettori.
A me sembra che così non sia stato: basta leggere la lista del PD e scorrere i nomi degli eletti per averne la verifica. Il PD ha scelto un compromesso di basso profilo che ha comportato una campagna elettorale vecchia, immersa nelle logiche che ci portiamo avanti dai tempi di Galasso e di cui l’attuale gruppo dirigente del PD è incapace di venire fuori perché, probabilmente, al di fuori di esse si dissolverebbe.
Insomma, si può anche essere il partito della ZTL, un partito radical-chic che agita valori e non vede i problemi giornalieri della gente comune e tentare di giocarsi la partita terribile della riconquista dei ceti popolari; ma se si è partito scelto solo perché “meno peggio” il suo sarà solo un gruppo dirigente piegato sulla gestione del poco consenso che ha, incapace, pertanto, di “progettare” il recupero delle periferie.
Certo i cacicchi meridionali invece ce la stanno facendo; ma hanno altra ampiezza di visione della politica e soprattutto il potere per gestire la “domanda” populistica di cui sono fatti carico. A questo PD irpino manca la Ferrari e la benzina, la “visione” ed il potere e, per riconquistarlo non ha alternative al cambiare e dalle fondamenta.
Lucio Fierro
carissimo Lucio come si fa a non condividere la tua analisi,sono orgoglioso di conoscerti anche se a mio avviso hai un solo difetto sei di sinistra.ma anche tantissimi pregi onestà e rispetto per chi non è sulle tue posizioni .Ti stimo tanto Mario Squittino.