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ANTONIO BASSOLINO DA DOLCISSIMO ENRICO. ( Il testo è stato pubblicato sulla sua pagina social)

Una delle principali caratteristiche di Enrico Berlinguer era la sua cultura internazionale, la sua competenza (mi sembra questo il termine più giusto da usare) sui grandi fatti internazionali. Ricordo bene come si ragionava, in quegli anni, all’interno del PCI. Se in un quartiere di Napoli o di altre città c’era un’assemblea di sezione oppure una iniziativa pubblica ecco che la relazione, la discussione ed il confronto cominciavano sempre da quello che succedeva nel mondo, da quella che si chiamava “la struttura del mondo”. Poi, via via , si scendeva all’Europa, all’Italia ed infine a quella sezione, a quel quartiere.

Intendiamoci: eravamo anche esagerati perché questo viaggio era così lungo che quando poi dal mondo si arrivava dove eravamo un velo di ideologia rischiava di coprire tanti aspetti della realtà che era davanti a noi. Ma spesso – dopo ed ora- si è però esagerato e si esagera in senso opposto. Se infatti dovessi dire qual’è uno dei mali peggiori della politica italiana mi riferirei sicuramente all’impressionante e diffuso provincialismo: a destra, al centro, a sinistra.

In Berlinguer l’abitudine alla visione internazionale era ancora più forte che nell’insieme del partito. Lo era perché era stato segretario della gioventù comunista, e per l’ambiente familiare dato che il padre era stato un importante dirigente socialista. Aggiungo che a mio avviso in questa sua passione internazionale influiva in qualche modo anche la sua origine sarda. Ci ho pensato più volte. Perché? Perché l’isola ed in particolare un’isola grande come la Sardegna isolata lo è in molti sensi. Ma proprio questa lontananza e questo isolamento ti portano poi culturalmente te ed idealmente ad avere un rapporto non solo con il continente ma anche con il mondo intero.

È per queste diverse ragioni che la forza del pensiero di Berlinguer sui temi internazionali colpiva in maniera particolare. Fu poi questa sua inclinazione e preparazione internazionale una delle principali motivazioni per la sua elezione prima a vicesegretario con segretario una figura leggendaria come Luigi Longo e dopo come segretario del PCI.

Questo suo abito mentale lo ritroviamo anche nelle principali scelte di politica nazionale. È dopo il Cile che nasce il compromesso storico. La testa ed il cuore di Berlinguer erano in primo luogo in Italia ma i suoi pensieri stavamo sempre anche dentro la dimensione internazionale. È dal Cile che nasce, assieme con il togliattismo, la elaborazione strategica del compromesso storico. È infatti il togliattismo l’altra essenziale peculiarità di Berlinguer. È con un occhio al Cile è con l’altro alla storia italiana che nasce , con tre articoli su Rinascita e con le successive riflessioni, il compromesso storico. È al discorso che Togliatti tiene al cinema Modernissimo di Napoli nel 1944 che Berlinguer si collega facendolo rivivere nei tempi nuovi. È il discorso con il quale Il Migliore aveva fatto nascere un nuovo partito comunista italiano di responsabilità nazionale e che chiama all’unità di tutte le forze democratiche. Berlinguer è il principale erede di Togliatti e della politica di unità delle grandi masse popolari. Questa politica di unità è sentita e vissuta in modo così forte da avere influenza anche nel non fare andare Berlinguer oltre il punto limite a cui si era spinto nelle vicende internazionali, nel rapporto con il partito comunista dell’URSS e con gli altri partiti comunisti. Berlinguer da giovane segretario della FGCI aveva espresso dubbi nel 1956 sull’intervento sovietico in Ungheria, a Budapest. In quella riunione di Direzione chi si espresse in modo risoluto contro l’intervento sovietico fu Giuseppe Di Vittorio . Per lui, ex bracciante, leader sindacale e grande capo dei lavoratori era inconcepibile perfino fisicamente inaccettabile ed insopportabile che potessero esserci carri armati contro operai e lavoratori. Negli anni in cui è vicesegretario e poi segretario Berlinguer prende tante volte le distanze da Mosca, fino al limite estremo.

Voglio raccontare un fatto che ho vissuto personalmente. Era l’estate 1976 ed un gruppo di giovani dirigenti provinciali e regionali del PCI è in visita in URSS. Ero il capo delegazione e con me c’erano Vannino Chiti, Ugo Sposetti ed altri compagni. In quei giorni esce la famosa intervista di Berlinguer a Giampaolo Pansa nella quale Enrico sostiene di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della NATO. L’intervista fu una bomba. Eravamo a Mosca e l’allora ideologo ufficiale del PCUS, Boris Ponomarëv, ci fece sapere che voleva incontrarci. Noi eravamo tutti giovani. Lui con la scusa di fare un piccolo brindisi con la vodka, come si usava allora, sferra un violento attacco di cinquanta minuti alla politica internazionale del PCI e all’intervista di Berlinguer. Poi si alza, allunga la mano verso di me come per salutarci. Allora dico all’interprete che vorrei rispondere al saluto. Ponomarëv si risiede ed io, a nome di tutta la delegazione replico per cinquantacinque minuti punto su punto. Ponomarëv era livido, cambiava il colore della faccia in continuazione e ci accorgemmo anche che l’interpretazione non traduceva esattamente le mie argomentazioni, anche per evitare che il dirigente sovietico scoppiasse in un’ira incontrollabile. Ecco uno dei tanti episodi di contrasto con il PCUS. Di grande valore sono stati diversi interventi di Berlinguer, dal discorso sulla fine della spinta propulsiva della Rivoluzione di Ottobre a diversi altri. Ma non superiamo il limite estremo. In Berlinguer agisce la sua fede nell’unità delle masse popolari ed ha sempre pensato che parti importanti della classe operaia e del mondo del lavoro non ci avrebbero seguito se avessimo strappato fino in fondo, fino alla rottura con il PCUS e con i paesi dell’Est.

È poi soprattutto in politica interna che Berlinguer teorizza e cerca di praticare l’unità delle masse popolari. È la strategia del compromesso storico. Ma scatta un corto circuito tra questa visione di lungo periodo e gli anni della politica di solidarietà nazionale che vanno dal 1976 al 1979. Con le elezioni politiche del 1976 si crea una situazione tale -PCI e DC sono i due vincitori- da obbligare Berlinguer a stare dentro la solidarietà nazionale. Ma questa scelta politica non è mai stata davvero e fino in fondo, nella mente di Berlinguer, la stessa cosa del compromesso storico. Ecco il corto circuito. C’è poi un fatto drammatico che cambia tutto ed è il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.Per la democrazie italiana e per Berlinguer fu un colpo duro. Alberto Menichelli, storico autista ed amico di Berlinguer, mi ha raccontato, e poi lo ha ricordato in un suo libro di memorie, che fu lui ad avvertirlo del ritrovamento del cadavere di Moro e che Enrico gli disse: lasciami solo. Con grande intelligenza Alberto sottolinea che a Berlinguer fu subito chiaro che le brigate rosse avevano posto fine alla vita di Moro e alla politica del PCI. Lì cambiano tante cose nella storia italiana.

Tra i ricordi che ho di Enrico c’è una notte in una stanza dell’albergo Mediterraneo di Napoli. Mentre si preparavano gli appunti per il discorso del giorno dopo Berlinguer mi disse che di Moro e di Zaccagnini si fidava anche personalmente. Cambia davvero tutto, con l’uccisione di Moro. L’anno dopo, nel 1979, entra in crisi la maggioranza di solidarietà nazionale e poi il 23 novembre 1980 la terra trema drammaticamente: è il terremoto dell’Irpinia, della Campania, della Basilicata.

Nella mia testa sono incancellabili quelle settimane successive al terremoto. Berlinguer venne più volte ed io che allora ero segretario regionale del PCI in Campania l’ho accompagnato in tanti viaggi del dolore. Interi paesi erano distrutti, e lui che passava tutto incurvato nelle spalle in mezzo a sofferenze incredibili, e tante anziane donne con gli scialli neri che lo guardavano con straordinario affetto: quasi come un Cristo laico.

Era proprio incredibile il suo rapporto con la vita reale, e andava ben al di là del PCI. Tante persone, anche lontane dalla sinistra, ne capivamo l’autenticità, la passione, l’umiltà. Questa era la sua ricchezza umana. Una delle cose più sbagliate ed assurde che sono state scritte e dette su Berlinguer era che fosse un uomo triste. La cosa più bella di Enrico era invece proprio il sorriso. Quando lo esprimeva e lo tirava fuori allora era Berlinguer intero con la sua capacità di rapportarsi alle persone.

Devo dire che per molto tempo ho considerato il giorno più importante della mia vita quando entrai nella Direzione nazionale del Partito Comunista Italiano. Ero giovanissimo, il più giovane di tutti. Fu per me un grandissimo onore sedere tra Umberto Terracini e Paolo Bufalini, e avere di fronte Longo e Berlinguer, discutere con loro e con Amendola ed Ingrao, Napolitano e Chiaromonte, Reichlin e Tortorella, Agostino Novella e Luciano Lama, Macaluso, Nilde Jotti, Adriana Seroni. Eravamo 21 e per me è stata davvero una esperienza straordinaria. Aggiungo con altrettanta sincerità che poi ho considerato un giorno ancora più importante e bello quello del 5 dicembre 1993 quando sono stato eletto, e direttamente da parte dei cittadini, sindaco di Napoli. Ancora oggi penso che se ho vinto quella battaglia ed ho poi fatto il sindaco avendo un rapporto quotidiano con le persone, è anche perché mi ha molto aiutato l’esperienza che avevo fatto nel PCI: segretario di sezione, di federazione e regionale, membro della direzione e della segreteria nazionale, responsabile per il mezzogiorno, per la classe operaia e il mondo del lavoro, per il programma, per la cultura e l’informazione. È il passaggio che la sera dell’elezione a sindaco ho fatto dentro di me, e che poi ho cercato di trasmettere alla città. È un passaggio di continuità e di rinnovamento. Senza mai mettere in discussione la storia dalla quale vengo, e di cui sono fiero ed orgoglioso, mi aprivo ad una nuova vita. Tanto ero stato uomo di partito, dirigente del partito comunista di Berlinguer,e tanto ho cercato da allora di essere ed ancora oggi mi considero fondamentalmente un uomo delle istituzioni. Dentro di me cerco sempre di tenere questo filo che lega le due più importanti vicende della mia vita. Ancora oggi è così, per me: e Berlinguer è stato ed è un punto di riferimento straordinario per il mio impegno e per la mia vita.

Riflettere su personalità come Berlinguer e sulla storia che è alle nostre spalle -sono passati 40 anni dalla sua scomparsa- è molto importante anche in relazione all’oggi. Essere rinchiusi nel passato ed avere lo sguardo rivolto indietro è l’errore più grande che si possa fare. Ma senza riflettere sul passato e sulla parte migliore della nostra storia non si ha la bussola per capire le cose che abbiamo davanti. Ecco perché è fondamentale concepire la politica come pensiero, strategia, radicamento. Come curiosità per quello che si muove nella società, nel mondo del lavoro, nelle forze reali, nei movimenti femminili e femministi. Perché si possono e si debbono fare le alleanze anche più larghe ma esse sono efficaci se sei innanzitutto forte a casa tua , nelle tue radici, nel mondo del lavoro. Se invece sei debole proprio nel tuo terreno allora non fai vere alleanze, ma sei subalterno.

È questa la bussola che dobbiamo avere , anche e soprattutto in una situazione come quella attuale con un livello enorme di astensionismo. Sono davvero tanti i senza tetto, i senza casa della sinistra, quelli che non si ritrovano in nessuna delle forze attuali. Come è possibile rassegnarsi, per chi crede nella politica, al fatto che nelle grandi città va al voto il 45, 46 per cento dei cittadini? La politica allora cos’è?

La politica deve essere partecipazione, protagonismo. È fare in modo che l’operaio, il lavoratore, il giovane disoccupato, le persone più deboli possano andare avanti . Questo è poi, in fondo, l’insegnamento di Berlinguer che seppe vedere a tempo, e perfino con molto anticipo, le degenerazioni della politica, e i rischi di antipolitica e di populismo che potevano venire dal logorarsi dei rapporti tra partiti e masse, tra politica e persone reali. Quello che mi ha sempre colpito era lo sguardo delle persone verso Berlinguer , il rapporto umano che lui riusciva a creare. Ecco perché ad Enrico dobbiamo essere grati, per l’esempio e per i sentimenti da portare avanti ancora oggi, in un’epoca pur così diversa dalla sua.

Antonio Bassolino

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PIETRO FOLENA DA IL MANIFESTO

https://ilmanifesto.it/padova-quella-sera-sul-palco-quando-la-piazza-capi-subito

Quel giorno il tempo era incerto, e le previsioni davano un peggioramento durante la giornata e la serata. Il comizio in Piazza della Frutta, a Padova, era previsto di sera. Passammo tutta la giornata a montare il palco e a rifinirlo. Avevo avuto notizia, nel frattempo, che Enrico Berlinguer era arrivato a fine mattinata, in macchina da Genova, dove aveva parlato la sera prima, e che si trovava nella sua camera d’albergo, all’Hotel Plaza di Corso Milano, a preparare e rifinire il suo discorso della sera.
C’era stato per noi, che avevamo montato il palco, appena il tempo di una doccia e di cambiarsi d’abito: e intanto, via via che cominciavano ad arrivare compagne e compagni da zone più lontane del Veneto e della provincia, cominciava a cadere una pioggia sottile.

La piazza ormai piena, si era fatto buio, la musica dagli altoparlanti: arriva finalmente il segretario, acclamato dalla folla. Un rapido saluto anche con me sul palco, due anni dopo il Congresso della Fgci di Milano, quando avevo lasciato l’organizzazione giovanile per fare esperienza al Partito. Parlano i dirigenti locali, e tra di loro Lalla Trupia, responsabile nazionale delle donne e candidata alle europee. Prende la parola Berlinguer.

La piazza alterna silenzi incantati ed esplosioni di consenso. Quella voce ferma, chiara, determinata scandisce ogni parola e scolpisce l’animo dei militanti. Parla delle grandi sfide generali, della pace e dei diritti dei lavoratori. Parla di Padova, consapevole dei problemi che sono stati messi alla sua conoscenza. Noi, sul palco dietro il segretario, non sentiamo le incertezze e il rallentamento delle sue parole nella parte finale dell’intervento.

La piazza invece, vedendo l’immagine ormai sofferente di Berlinguer sullo schermo, è più consapevole di noi – quasi una metafora della separazione tra base e vertice – che qualcosa sta succedendo, e comincia a incoraggiare il segretario a viva voce. «Enrico! Enrico! Enrico!» – gridano in tanti. Gli ultimi minuti del comizio li ricordo con angoscia: cresceva la consapevolezza di qualcosa di inimmaginabile, più grande di noi, destinato a incidere sul futuro di tutti. Ci agitiamo, dietro Berlinguer che dice le sue ultime parole: «Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada».

La confusione è indescrivibile. Qualcuno fa avvicinare Giuliano Lenci, medico iscritto al Partito. Al termine del suo intervento, con la piazza angosciata che applaudiva e chiamava, a spalle Berlinguer viene portato giù dal palco. Corriamo a piedi all’hotel, vicino alla Piazza, dove il segretario viene accompagnato in macchina. Sono nel corridoio, e lui è dentro la camera aperta, dove viene fatta la prova di Babinski. È un ictus. C’è la polizia. Hanno già parlato col reparto di neurochirurgia. Io vado avanti prima dell’arrivo dell’ambulanza, per accertarmi con altri compagni che tutto fosse pronto per l’arrivo del segretario. L’ultima immagine di Berlinguer è il suo arrivo a neurochirurgia. In barella, ormai in coma, un rantolo esce dalla sua bocca, un piccolo rivolo di sangue. Viene portato in sala operatoria. Non lo vedrò più.

Due ore più tardi, dopo aver deciso l’organizzazione delle prossime ore (io sarei rimasto al Plaza, dove la famiglia di Berlinguer e i dirigenti del Partito sarebbero arrivati), ci viene in mente che c’è la ripresa delle immagini del comizio. Cerco dal telefono dell’ospedale il responsabile dell’Arci, e poco dopo veniamo messi a conoscenza che l’operatore a cui ci si era affidati aveva già venduto la cassetta sul mercato. Chiamammo la direzione del Partito che, attraverso i suoi canali, riesce a far ricomprare il filmato dalla Rai e a embargarlo. Le immagini verranno viste solo dopo l’11 giugno.

Nei tre giorni successivi organizzammo, dal Plaza, la vigilanza alla famiglia di Berlinguer e ai dirigenti accorsi, a partire da Giancarlo Pajetta. Si trattava di accompagnarli all’ospedale, in attesa di notizie. Ma i bollettini erano negativi, e noi tutti sapevamo che oramai era solo una questione di giorni, o di ore. La sera, quando gli ospiti riposavano in albergo, andavamo alle Feste dell’Unità in provincia, rendendoci conto dell’enorme impatto che questo accadimento aveva non solo nel Partito, ma nella società.

Poi giunse la fine, l’11 giugno. Sapevamo che sarebbe arrivata. Tutti si spostarono all’ospedale Civile. Anch’io vi misi piede, per la prima volta in quei giorni. Ricordo, al fondo di un lungo corridoio prima della terapia intensiva dove Berlinguer si trovava dopo l’operazione, il fotogramma dell’abbraccio tra l’altissimo Ugo Pecchioli e Pietro Ingrao, più basso, scoppiati a piangere, l’uno nelle braccia dell’altro. E poi il corteo per l’aeroporto di Tessera che accompagnava il feretro, tra due ininterrotte ali di folla, e i funerali a Piazza San Giovanni.

In pochi minuti, il 7 giugno, si era consumata non solo la vita di un leader ancora giovane, ma il suo tentativo più coraggioso di ripensare la sinistra come forza critica del capitalismo, oltre le esperienze comuniste e socialdemocratiche del Novecento. Quell’ultimo Berlinguer, che quarant’anni dopo è quello più fecondo per pensare a una sinistra del tempo nuovo.

Pietro Folena

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