Incontro pubblico sul tema “La storia della mozzarella, l’oro bianco della Campania
Felix”, a cura di P. Iorio edito da Melagana
Saluti: Assessore Biancolella Comune di Cancello A.
Interventi di: Mattia Branco, Cancelloarnonenew.it – Gabriele Di Vuolo – Tilde
Maisto, scrittrice
Con esposizione di opere della mostra “Profumo di bufale” a cura di Paola Paesano

Tina Cioffo e Fabio Mencocco hanno documentato su Il Mattino e denunciato le dure condizioni di lavoro e di sfruttamento in cui vivono i braccianti addetti negli allevamenti bufalini del Basso Volturno, e non solo. Nel mio volume sulla “Storia della mozzarella, ho avuto modo di ricostruire anche questi aspetti legati alla produzione e trasformazione del latte di bufala. Ora è necessario ritornare sull’argomento a partire dalla analisi delle condizioni in cui vivono gli animali, spesso ridotti in uno stato pietoso e brutale. Pasquale Iorio

Ecco l’articolo di Tina Cioffo e Fabio Mencocco https://www.ilmattino.it/caserta/quell_esercito_di_indiani_invisibili_dietro_l_affair_mozzarella_di_bufala-3822326.html?refresh_ce

La chiamano l’oro bianco e ormai la si trova quasi ovunque, perfino nel banco di un famoso formaggiere francese impreziosita dalla cura della presentazione. È la mozzarella che Totò amava al punto da celebrarla in Miseria e Nobiltà, il prodotto della zootecnia per eccellenza e punto di invidia anche per le regioni del nord. 
Sulla lavorazione nelle vasche e di mozzatura e filatura, si sa tutto ormai, ma la filiera comincia molto prima: negli allevamenti bufalini di Castel Volturno, Villa Literno, Grazzanise, Santa Maria La Fossa e Cancello ed Arnone. È nelle aziende bufaline che viene, infatti, prodotto il latte che serve poi alla produzione della mozzarella che arriva sulle nostre tavole. Quando la mangiamo, difficilmente ci chiediamo da dove arriva. In alcune di quelle aziende il lavoro rasenta però la schiavitù. In alcune di quelle aziende bufaline accade qualcosa che non ha niente a che a vedere nemmeno con la dignità del lavoro. 
Coloro che si occupano delle bufale, dall’alba a fin dopo il tramonto, sono per la stragrande maggioranza indiani di religione sikh. Provengono dalla regione nordoccidentale del Punjab. Lavorano per sedici ore al giorno e senza alcuna giornata di riposo. La fatica è oltre i limiti, se si tiene conto che per ogni chilo di mozzarella sono necessari quattro litri e mezzo di latte e che dalla mungitura di una bufala se ne ottengono dodici litri al giorno. 
Non solo, poi c’è da governare le bestie, dare da mangiare, tenere il ritmo dell’animale. Alcuni di loro hanno un contratto che salva il titolare dell’azienda da un eventuale controllo, ma quella busta paga al bracciante indiano, che di fatto porta avanti l’allevamento dal quale vengono generati enormi profitti, ne arriva meno della metà. C’è il contratto, ma la busta paga è falsa. La maggior parte viene trattenuta dal «padrone» dell’azienda che non passa né l’assegno familiare né un minimo di assistenza medica, dovuta per legge. Sono molti coloro che si ammalano a causa delle condizioni di vita estremamente dure da sopportare. Vivono in baracche di fortuna ricavate all’interno dell’azienda. 
«In una stanza viviamo in tre, io, mia moglie e mio figlio di quattordici anni. Ci riscaldiamo con una stufa a gas e non abbiamo la corrente elettrica. Mio figlio che studia a Castel Volturno è costretto ad alzarsi molto presto. Vorrei dargli di più, ma non dipende dalla quantità delle mie ore di lavoro». È lo sfogo di un padre che lavora da mattina a sera. Era partito da solo dall’India, poi è stato raggiunto dalla moglie. Avevano sperato in una vita completamente diversa. Ma la realtà a volte è crudele. Di solito, anche le donne lavorano nelle stalle, supportando i maschi nella cura degli animali lattanti. Sono pochi gli immigrati che vivono in paese, spesso risiedono in abitazioni di scarsa qualità dislocati nelle vie periferiche e case abbandonate senza elettricità e servizi. «C’è stato chi non ce l’ha fatta e il padrone lo ha abbandonato come un sacco di patate. Un nostro connazionale è morto di fatica due anni fa, il padrone non si è interessato della sua sepoltura e tantomeno di avvisare i suoi familiari o le autorità. Per il funerale di quel ragazzo ci siamo autotassati e lo abbiamo riportato a casa. Era impossibile fare diversamente», racconta un altro indiano che la lingua italiana la parla discretamente ed è la ragione per la quale altri indiani si rivolgono a lui quando c’è da avanzare qualche richiesta o chiedere l’aiuto dei sindacati. 
Per i sindacalisti come Tammaro Della Corte, rappresentante della Cgil Flai di Caserta, mettersi in contatto con questo popolo di «invisibili» non è sempre facile perché «lavorano e vivono in azienda». 
Per questo il sindacato cerca di incontrarli nei luoghi di culto ed è li che si fa sindacato di strada perché «molti non sono nemmeno a conoscenza dei propri diritti» fa sapere Della Corte. Chi sfrutta queste persone, del resto, ha tutto l’interesse affinché i dipendenti sappiano poco o nulla su contratti e tutele dei lavoratori. 

Mercoledì 27 Giugno 2018,


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