La politica degli animali
Gianluca Felicetti
Politica
People Gallarate
2024
Pag. 216 euro 16




Italia. Ai tempi nostri. Siamo circondati da (altri) animali. Vivi come quelli che
incontriamo quotidianamente (cani, gatti, uccelli e tanti altri) e, spessissimo,
non più vivi: tramutati in scarpe o fatti a pezzi, confezionati e sovrapposti in un
frigorifero, per esempio. In molte sostanze (un farmaco, una vernice),
sperimentate anche su di loro prima che potessimo usarle noi, oppure sugli
schermi (uno spettacolo circense o un documentario sulla natura). Interi settori
economici sono basati sull’utilizzo (sullo sfruttamento) degli animali. Cogliamo
una parziale acquisizione culturale abbastanza recente, però: il loro utilizzo non
è più una necessità di (nostra) sopravvivenza, una strada obbligata, sempre
che lo sia mai stata veramente. Oggi è una scelta. E può essere cambiata, a
partire dalla messa in discussione della liceità dei guadagni basati sull’uccisione
degli animali. Decenni fa è emerso parallelamente in diversi paesi un
“movimento” collettivo di donne e di uomini che ha chiesto comportamenti
collettivi coerenti con la consapevolezza che non siamo gli unici animali
presenti sul pianeta. L’antispecismo implica combattere ogni discriminazione
fondata sull’appartenenza a una specie diversa, al fine di riconoscere agli
animali i nostri stessi bisogni fondamentali: vita, libertà, dignità. Eppure,
ancora tanti “amano” singoli animali, amano teoricamente gli animali, ma non
li rispettano “tutti”, concretamente quotidianamente, nei loro diritti.
Approfondiamo bene, pertanto, anche verificando l’evoluzione dei programmi e
dei voti dei singoli partiti, tempi e modi di una politica e di politiche che
riguardino meglio gli animali, le azioni concrete, organiche, programmate,
responsabili delle istituzioni nel loro (nostro) rispetto.

Gianluca Felicetti (Roma, 1963) ha trascorso la vita adolescente e adulta a
sostenere le iniziative animaliste della Lega Anti Vivisezione (LAV), militante
dal 1979, presidente dal 2006, ideatore e autore di molteplici iniziative legali e
legislative come, per esempio, la proposta (poi diventata legge nel 1993) di
riconoscimento dell’obiezione di coscienza alla vivisezione, il contributo alla
prima Relazione del Parlamento Europeo sul benessere e lo status degli animali
(presentata nel 1989 e approvata a Strasburgo nel 1994), fino alle proposte di
riconoscimento della tutela degli animali nella Costituzione italiana (2022) e
nella Carta per i diritti fondamentali dell’Unione Europea, al progetto di
trasformazione dello zoo di Roma, al primo ricorso al TAR vinto per il diritto
d’accesso alle informazioni del Ministero della Sanità riguardanti la
sperimentazione sugli animali, alla proposta poi diventata legge (attuata dal
2001) della presenza di un esperto animalista nelle Commissioni di revisione
cinematografica, al varo del Decreto Legislativo n.146 con il divieto di
ingozzamento forzato di anatre e oche, spiumatura di volatili vivi e mutilazioni
negli allevamenti intensivi, alla riforma del Codice Civile per la tutela degli
animali. Vegetariano per vent’anni anni, vegano nel successivo quarto di
secolo, ha partecipato a innumerevoli consulte e comitati, master e testi,
amministrativi e ministeriali, “etologo” honoris causa. Ha strutturato
l’interessante testo riassuntivo di lotte e proposte in tre parti: la questione
animale è una questione politica; alcune battaglie-simbolo per gli altri animali;
la politica e gli animali. Ogni parte contiene vari capitoli specifici ed
esemplificativi (complessivamente una trentina), scritti in modo chiaro ed
efficace, con un incidere disorganico, competente, turbinante e appassionato.
Poche note lungo il testo, bibliografia ristretta in fondo.

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Breve storia del tardo Impero ottomano
M. Şükrü Hanioğlu
Traduzione di Alfonso Geraci
Sellerio Palermo
2024 (orig. 2008, Princeton University Press)
Pag. 336 euro 22


Dalle parti dell’attuale Bosforo. 1789-1918. L’esperto storico turco M.
Şükrü Hanioğlu (1955) da anni insegna negli Stati Uniti (dopo Istanbul) e ha qui
(già nel 2007) ottimamente tratteggiato con la densa colta originale “Breve storia del
tardo Impero ottomano” molte sfaccettature della recente cosmopolita tollerante
moderna società ottomana, come estesa espressione e porta di tre dimensioni
continentali, fra permanente contrasto di centralismo imperiale e governi locali,
cambiamenti socioeconomici e culturali, integrazione e differenziazione rispetto al
contesto europeo e mondiale. Mantenendo la giusta misurata attenzione per singoli
eventi e numeri assoluti, lo studioso ci aiuta a comprendere meglio perché scomparve
dopo la fine della Grande Guerra (quando l’impero non fu neutrale!) e cosa ne
abbiano ereditato ancor oggi Turchia, Medio Oriente, Europa. Sei i capitoli
cronologici, ricca bibliografia finale, utile indice dei nomi e degli argomenti.

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Orme di un viandante nei sentieri del ‘900. Storie vissute e racconti nello scenario
dell’Isola d’Elba e a tratti anche al di là del mare
Danilo Alessi
Storia e autobiografia
Persephone Capoliveri
2024
Pag. 385 euro 22


Dall’Elba per spaziare altrove. Ora e prima. L’ormai attempato poliedrico militante
Danilo Alessi (Piombino, 1938), dipendente della Provincia di Livorno con un
susseguirsi di incarichi politici e istituzionali a livello elbano, toscano e italiano, già
presidente della comunità montana insulare e sindaco di Rio nell’Elba, con
esperienze nazionali nel campo di giornalismo e sport, dopo varie narrazioni anche
poetiche, raccoglie qui in “Orme di un viandante nei sentieri del ‘900” (bellissimo
pure il titolo), tanti interessanti godibili scritti in prosa sul proprio ecosistema vitale,
una vera e propria appassionata guida alla sua isola d’elezione. La narrazione è
perlopiù in prima persona al passato, strutturata (dopo le introduzioni di Claudio
Fava, Franco Cambi, Nicola Colombo, Cristiana Torti) in sei parti: storie elbane;
sentieri nel mondo (con la “Gorgona di Carlo”); personaggi; donne; io allo specchio;
divagazioni sul tema. Utile indice dei nomi, splendida appendice fotografica.

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Bologna, 4 febbraio
Stati generali del genere
Intervento (a braccio) di Valerio Calzolaio, qui sommariamente ironicamente steso

Mi rammarico, sono costernato, devo denunciare un complotto (di genere). Da tre settimane in testa
alle classifiche di vendita dei libri in Italia vi è un Giallo Mondadori con venature noir, ambientato
qui a Bologna nel 2018 (e, badate bene, anche nel 1977).
Non pensate per cortesia che sia una
coincidenza di coincidenze, noi antichi regolari lettori di genere sappiamo che tendono a non
esistere. Qualcuno da qualche parte, dopo il successo fertile nel 2023 degli Stati generali
dell’immaginazione, deve aver pensato mesi fa di condizionare lo svolgimento adesso degli Stati
generali del genere. Il bravissimo scrittore in testa alle attuali classifiche non è mai vissuto a
Bologna, scrive da oltre un decennio notevoli romanzi di genere in esclusiva per tutt’altra
importante casa editrice, non ha mai vinto ancora il giallo noir Premio Scerbanenco (per ragioni su
cui oggi non indagheremo), ha creato un personaggio seriale fra i più amati da lettrici e lettori
ovunque in Italia (che ovviamente qui non compare), è corresponsabile di una delle relative serie
televisive più vendute dalla Rai fuori dai confini nazionali (nonostante le canne). Il romanzo in testa
alle classifiche risulta un ottimo Giallo e un sorprendente Noir, “giocando” in particolare con il
senso del finale nei romanzi, soprattutto nei gialli classici. Il Whodunit ci è reso noto solo nelle
ultimissime pagine e ci fa compagnia nelle ultime righe, sapienti: una fine lieta? Noir? Parzialmente
aperta o ignota o indicibile? Oppure solo un pezzo di una matrioska russa, come la vita? L’intreccio
è nel lettore del narratore. Probabilmente è stato ordito un complotto. Non può essere un caso,
teniamone conto nelle riflessioni odierne.
Ringrazio i cari Carlotto e Fogli per essersi fatti carico con garbo e sensibilità di un’esigenza
diffusa: chiacchierare di libri in tanti, fra meticci addetti ai lavori, senza presentare libri. Massimo e
Patrick sono entrambi vincitori del Premio Scerbanenco, forse un primus inter pares nei poveri
premi alla letteratura di genere, nel 2002 e nel 2018. Probabilmente Carlotto non ha vinto con il suo
romanzo più bello (come anche Carofiglio), probabilmente Fogli invece sì (come anche De
Cataldo), vale per ogni premio probabilmente, la valutazione è una comparazione annuale e, in
teoria, non prende in considerazione le carriere. La storia della denominazione italiana dei premi di
genere (come pure delle decine di festival annuali) meriterebbe un lungo approfondimento, mi
limito qui a un cenno: un tempo il riconoscimento riguardava in linea di massima “il miglior giallo
italiano” (separatamente edito o inedito), da oltre venti anni per i romanzi pubblicati si premiano i
“noir”; il sacrosanto riferimento a Scerbanenco mantiene ovviamente aperta la discussione sul nome
del genere nel nostro paese; l’individuazione e la consegna avvengono comunque all’interno di un
multimediale Festival Noir. Di fatto da noi giallo e noir tendono a essere da tempo sinonimi, un
cappello letterario (che altrove viene riassunto come crime).
Complotti… Giurie… Manteniamo senso della misura e pensiero ironico. E proviamo a cambiare
prospettiva. Mantenendo accorti tutti i sensi e i valori, privilegiamo l’immaginazione ironica e
critica rispetto alle classificazioni. Le narrazioni sia della finzione sia della realtà, attraverso la
scrittura, hanno sempre comunicato ai lettori una pluralità di conoscenze ed emozioni, per esempio
quelle delle dinamiche violente e oppressive di alcuni sapiens verso altri, quell’ambiguità noir fra
Bene e Male, che appare un altro elemento costitutivo di ogni individuo della nostra specie morale
(una delle tante specie che vivono in contesti naturali a-morali). Classificare la letteratura attraverso
i generi letterari è un’opzione molto più discutibile e recente, qualche secolo forse. E non cambia la

sostanza: i generi sono materia vaga e “generica”, indubbiamente utile quando si hanno a
disposizione innumerevoli soggetti e oggetti letterari; talvolta prescelti da chi scrive, talvolta da chi
legge, talvolta da chi li vende o presenta; comunque, spesso con una certa prevalenza della
dimensione editoriale commerciale, di una comparazione storicamente determinata o della
fissazione personale.
Per capirci meglio (?), ridate un’occhiata proprio al genere Homo: noi sapiens siamo rimasti da
circa quaranta mila anni l’unica solitaria specie del genere, un genere che pure ha contato negli
ultimi milioni di anni quasi una ventina di altre specie umane, collocate un po’ ovunque sul pianeta,
anche in ecosistemi isolati. E solo un’esigua minoranza degli oltre otto miliardi di concittadini sono
abituali lettori di libri, si sopravvive e ci si riproduce anche senza. Ovunque, si rileva che il nostro
genere è comunque mediamente il più letto, soprattutto da lettrici (donne che leggono quasi tutti i
tipi di romanzi più degli uomini). La concorrenza quantitativa del successo del crime riguarda il
“rosa”. Eppure, forse, sono proprie idee del “genere” che andrebbero rimesse in discussione,
proponendo una diversa angolatura di visione. Alcuni di noi che prediligiamo narrazioni crime,
giallo, noir siamo convinti che il vero genere è la narrativa (non poetica in versi) di finzione (con
mille sottogeneri): la distinzione di fondo è fra saggi e romanzi, poi molto diventa aleatorio e
fluttuante. Forse non ci sono romanzi generalisti e romanzi di genere, romanzi convenzionalmente
mainstream e romanzi di genere, ci sono romanzi lunghi e brevi, scritti da donne e da uomini, nella
nostra lingua o tradotti, belli o brutti (a seconda pure di scelte, gusti, occasioni e casi) che trattano
argomenti (narrati come finzione letteraria) che ci interessano più o meno in quella fase della vita di
lettori. Comunque, non possiamo leggere tutto di tutti di ogni epoca, nemmeno tutti i gialli noir
crime, si tratta di scegliere cosa quel giorno mese anno ci intrattiene di più e ci scuote di più rispetto
alla nostra identità, sia individuale che sociale.
Cerchiamo di educarci ed educare a leggere con cognizione di causa, sempre riflettendo sul piacere
che ne deriva. Meglio sapere prima, dedicandoci pur sempre poco tempo, “sottogeneri” argomenti
stili contesti, qualcosa che c’è sia prima che dopo il leggere quel preciso libro. Serve certamente una
maggiore “educazione” alla lettura, utile anche alla scrittura per gli altri, intesi come pubblico
indistinto. Evviva gli stati generali dell’immaginazione, forme di resistenza civile, ascolto scambio
ripensamenti. Evviva quelle librerie che filtrano suggeriscono indirizzano, senza piegarsi solo alla
monetizzazione di collocazioni o spazi o scaffali: un conto è la singola copia del libro di una piccola
casa editrice che arriva talora dalla distribuzione (anch’essa molto poco oggettiva), un conto sono le
centinaia di copie del romanzo di un grande editore, lanciato da paginone e comparse ovunque.
Evviva i siti e i blog (come Mangialibri, oppure Contorni di Noir fra quelli di genere) che mettono
quanto più possibile nello stesso schema informativo: luoghi e date, le prime pagine della trama,
connessioni culturali e letterarie del romanzo e dell’autore, limitando al minimo stroncature
polemiche ed enfasi poetiche. Evviva i festival e i premi che non si limitano alle presentazioni
clamorose, mettono in circolo autori meno conosciuti, consentono una chiacchierata collettiva più
personale (incontri eccentrici e stravaganti, queer come questo), rispettano le pause e i silenzi,
stimolano scrittori e scrittrici a discutere fra di loro e non solo delle loro opere, inseriscono
retrospettive culturali e tematiche.
Serve forse una conseguente rieducazione alla scrittura, un controllo dello stesso scrittore sulle
proprie quantità e qualità, sulla propria serialità e visionarietà, sulla inevitabile abitudine fiction e
sulla frequente sovraesposizione mediatica, accettando suggerimenti non solo legati al mercato,
sottoponendosi ad ascolti forzati, prestando più attenzione alle scienze e alle conoscenze
scientifiche, non sempre omologandosi a scuole di scrittura (e lettura), selezionando bene cosa e
perché narrare. Una complicazione viene certo proprio dal noir. Nel mondo da oltre un secolo

troppi di noi lettori (e di voi scrittori, questo genere fa proprio comodo!) siamo crime-addicted: vi
sono ragioni sociologiche, culturali e psicologiche di vario tipo, alcune proprie dell’era “violenta”
del capitalismo bellico-industriale e delle conseguenti dinamiche sociali e di mercato. La recente
(qualche decennio) crescente enorme pervasività del cappello letterario “noir” rende difficile
valorizzare uno dei positivi sconquassi provocati a suo tempo dallo specifico movimento noir nel
crime e nel policier e nel giallo: far emergere gli intrecci criminali nella gestione dei poteri pubblici
e privati di una determinata comunità umana e di un determinato assetto sociale. Il tutto è indatabile
e incollocabile con precisione: per buttare là due esempi minori, diciamo dagli anni Settanta in
Francia e dagli Ottanta e Novanta in Italia, diciamo le varie professioni e competenze e origini e
derivazioni dell’esperienza del gruppo dei 13 qui a Bologna. Poi, certo, sono sempre contati i
protagonisti appropriati, lo stile, i sapori, le atmosfere, l’irresolutezza del finale e l’incertezza della
giustizia; tuttavia la spinta propulsiva di una lunga fase del noir, probabilmente irripetibile, era la
denuncia motivata del criminale stato di alcune delle cose presenti, perturbare e non rassicurare
(detto in modo sommario e schematico).
Se noi non vogliamo riprodurre semplicemente e soltanto il sistema economico-sociale nel quale
siamo nati e cresciuti (e che in discreta parte preesisteva da generazioni e che in larga parte governa
il mondo dell’editoria) occorrono atti individuali e collettivi di resistenza e sperimentazione, nella
scrittura, nella lettura e anche nel vario resto dei comportamenti della propria esistenza.
Continuiamo a stare in un contesto di guerre e violenze, indigniamoci e ribelliamoci per cortesia. E
dedichiamo spazio e tempo alla critica delle nostre azioni: come ciascuno può opprimere,
sopraffare, patriarcare, il meno possibile quanti meno altri possibile; come andare oltre il
contingente opportunismo biologico, relazionale e contestuale, in favore di democrazia attiva e
diritti eguali. Convivo con il disturbo cognitivo e psichico, ormai ho pochi tempo e ragione da
dedicare a militanze comunitarie. Tuttavia, se ragioniamo insieme sul genere, sui generi, sull’alta
febbre del fare e sulla passione consumistica per i libri che attanaglia alcuni di noi, beh, allora, si
alzi forte il nostro lamento, scherziamoci anche un poco sopra! Prendiamoci genericamente in giro.
Noi moltissimi lettori siamo e tanti professionisti sono “parassiti” della scrittura di scrittori, pur se
le scritture non sono mai “pure”, le dipendenze sono sempre reciproche. Non tutti i predatori sono
da condannare assumendo solo il punto di vista delle prede, non tutti i parassiti solo in base al punto
di vista dei laboriosi. Certo, bisogna approfondire bene dinamiche ed effetti. Come per le relazioni
fra le specie biologiche anche gli umani si combinano con associazioni sia parassitarie o
gerarchiche, sia simbiotiche o complementari; vi sono catene alimentari fra specie, qualcuna fa da
sé, qualcuna si nutre di qualche altra, qualcuna solo di qualcuna che non fa da sé, qualcuna infine
decompone rifiuti e carcasse; non abbiamo inventato noi i livelli trofici, la predazione e lo
sfruttamento di energie accumulate da altre specie; e non dobbiamo dimenticare che le gerarchie
biologiche e ambientali sono sempre transitorie e mutevoli; la classifica non riflette una
competizione generale e non è mai eterna. La bibliomalattia, con varie bibliossessioni e bibliomanie
(più o meno giovanili, letterariamente descritte da almeno due secoli), è abbastanza contigua alla
biblioterapia (per altre malattie): un po’ di misura e umiltà, autocontrollo, ironia e autoironia non
fanno mai male.

Valerio Calzolaio

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21-FEBBRAIO-VALERIO-CALZOLAIO

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