È stato pubblicato di recente per Mimesis Edizioni (Milano) un bel libro di interviste all’artista Prisco De Vivo (1971), “La radice delle cose”, a cura di Rosaria Ragni Licinio, con prefazione di Alberto Dambruoso e postfazione della curatrice; interviste rivoltegli tra il 1995 e il 2020 da vari poeti, docenti, critici di arte e letteratura, giornalisti. Prisco, oltre che alla arti visive, si è dedicato alla poesia; ha vissuto per anni nell’hinterland napoletano. Impossibile segnalare in questa sede le tante mostre collettive cui ha partecipato, tra cui “Arte-Brussels 99”, della Galleria Sconamiglio e Teano, a Bruxelles nel 1999; “Tabula picta”, a Forlì nel 2005, a cura di Francesco Gallo. Ricordo solo alcune delle personali: “La parola negata”, presso la Sala Gemito, Galleria Principe di Napoli, 1998, a cura di Gaetano Romano; “Affabulazioni pittoriche”, Galleria Magicaterra, Taranto, nel 2006, a cura di Giulio De Mitri e Alda Guardamagna; “Muse e collages”, Palazzo Lanza, Capua (CE), nel 2007, a cura di Massimo Sgroi; “Spose”, Sala della Loggia – Maschio Angioino, Napoli, nel 2008, a cura di Francesco Gallo Mazzeo e Margherita Calò (per altre notizie, alcune opere e testi, rimando al sito http://www.priscodevivo.it/).


Negli anni ’90 fa passavo diversi pomeriggi in campagna a Montagnola, tra Saviano e Somma Vesuviana, dove nella casa presa in affitto dai genitori, di origine contadina, di grande umanità e umiltà, Prisco aveva ricavato in un garage-capannone il suo studio. Rimanevo colpito e mi interrogavo dinanzi alle sue opere d’arte: sculture, pitture, installazioni che raggruppava in cicli. Nel quadro idillico della campagna che circondava lo studio, le opere di Prisco provocavano in me un contraccolpo emotivo, rivelandomi che tutto ciò che c’era intorno, nell’hinterland napoletano, era l’opposto: un carico di sofferenza, a partire dai sacrifici enormi che facevano i genitori. E della «particolare attenzione ai territori della sofferenza» parla Sandro Montalto nella sua intervista, dove scrive: «bastino i ritratti di uomini urlanti o immersi in una silenziosa desolazione come “Il riparo dall’Idiozia” o “La noia e l’uovo rosso”». Lo stesso artista, nella sua “Autodichiarazione poetica”, contenuta nel volume, fa riferimento alla precarietà della situazione familiare, alla sua sofferenza per i numerosi traslochi. Conoscevo, inoltre, i suoi sacrifici per procurarsi libri da leggere, di filosofi, poeti, cataloghi di altri artisti, ecc. C’erano poi soprattutto i problemi ambientali di cui discutevamo già, venuti fuori qualche anno dopo nel circuito mediatico, con una risonanza tragica per noi nel cosiddetto “Triangolo della morte”. Il dolore era quello che cercava Prisco, fin dall’inizio della sua attività di pittore-poeta nel solco dell’espressionismo. Ne ricordo diversi di cicli di opere, come “Riemersioni dalla cenere” (1994), composto da opere pienamente inserite nel paesaggio vesuviano, di cui si discute in diverse interviste nel libro: quella curata da Luigi Simonetti, ad esempio, che ricorda l’opera “Il trittico del libero pensiero”, con «figure ricoperte dalla cenere che lasciano intravedere solo alcune parti del corpo messe a nudo»; l’artista di rimando afferma che «la stessa cenere è simbolo della morte e di tutto ciò che di distruttivo vi è nella società». Nel volume c’è anche una foto in bianco e nero di un’opera che vidi nel suo farsi, “Lazzaro”, un dipinto materico con il corpo del personaggio evangelico tutto coperto, eccetto il volto, dalla cenere che sembrava uscire dal quadro: riemersione-resurrezione calata pienamente nel contesto vesuviano, come anche quella di “Giordano Bruno”, riportata a p. 35, risalente al 1995. Su quest’opera ha scritto il critico d’arte, docente all’Accademia delle Belle Arti di Roma, Francesco Gallo Mazzeo: «Giordano Bruno, in ipotetica riemersione dalle ceneri, che è il resto di un rogo tanto reale (allora) quanto immaginario (oggi), vissuto e scontato nel profondo della ragione, così come il suo ergersi titanico dalle bolgie infernali, tra fiamme dogmatiche e blasfeme di un “loco” che nega la luce». La citazione è tratta da “Quia absurdum est”, un testo di Gallo contenuto nel catalogo “Prisco De Vivo”, pubblicato nel 2009 da L’Arca e L’Arco edizioni di Nola, testo da tenere a mente, essendo una sintesi efficace fino a quel periodo in un percorso a ritroso dei cicli di opere.


Il contesto vesuviano è presente anche nei testi poetici di Prisco, ad esempio nella raccolta di poesia “Dalla penultima soglia” (Marcus Edizioni, Napoli, 2007). Nella prefazione, Marcello Carlino, noto studioso di sperimentalismo e di avanguardie, parla di «squarci alla Goya sullo sfondo di un inferno di personaggi in ridda grottesca, o di situazioni angosciose e desolanti». Monica Citarella, nell’intervista da lei curata, dice di «creature umane, animali e vegetali della campagna vesuviana» che vengono trasfigurati alla ricerca di «un ramo di luce». Nell’intervista di Raffaele Piazza si parla del ciclo de “I ripari” in pittura, a proposito del quale fui coinvolto in un catalogo, “La parola negata”, stampato nel 1997 da IL LABORATORIO / le edizioni di Vittorio Avella di Nola. Nei cupi dipinti di allora, su sfondo nero con dei bagliori rosso sangue, era ricorrente la citazione di Bacon: la figura di un uomo con l’ombrello era un omaggio-citazione al maestro, rivelando, se ce ne fosse ancora bisogno, che la matrice ispirativa di Prisco, il modello dominante, erano le opere dell’espressionismo. Ecco perché scrissi: «quando Bacon dipinse “Quadro” nel 1946, dopo la seconda catastrofe, la sua prima idea era di rappresentare un uccello che si posa su di un campo, invece ritrasse una figura disperata in un macello con un ombrello. Sta a noi immaginare se l’uomo di oggi, visto da De Vivo dopo altre e comunque gravi catastrofi, possa volare con l’ombrello o sprofondare». Nel volume di interviste, la radice dell’espressionismo è spesso evidenziata. Nell’intervista curata da Enzo Rega, Prisco ricorda «le parole di un critico d’arte» [Demetrio Paparoni] su Martin Disler: «Ogni espressionismo che voglia qualificarsi tale è categoria spirituale prima che esperienza artistica».
Occorre soffermarsi sulle due citazioni in epigrafe al volume, la prima è del filosofo Francis Bacon [Francesco Bacone], del quale il pittore Francis Bacon diceva di essere un discendente: «perché la luce sia splendente ci deve essere l’oscurità»; la seconda di un altro celebre maestro dell’espressionismo, Edward Munch: «dal mio corpo in putrefazione cresceranno dei fiori, e io sarò dentro di loro: questa è la mia eternità». Due frasi in cui è racchiuso tutto il senso della ricerca di Prisco, nei cui lavori visivi la citazione continua, l’allusione ai maestri, seppur sfrondata, semplificata, è fondamentale (e questa tendenza alla citazione potrebbe far collocare i suoi primi lavori / cicli nell’orizzonte del postmodernismo).
Andando ancora sul filo dei ricordi, aggiungo che curai nel 1999, sempre per IL LABORATORIO / le edizioni, un libretto di poesie di vari autori che intitolai “Urlo sotterraneo. Poeti per Prisco de Vivo”, con un rimando da un lato alla celebre opera di Munch, “L’urlo”, e dall’altra alla “sotterraneità” del percorso dell’artista, che operava in un luogo di campagna, ben lontano dai centri culturali. La plaquette, ormai dispersa e non più ristampata ‒ viene richiamata nell’intervista curata da Raffaele Piazza ‒ contiene illustrazioni delle opere espressioniste di Prisco, una presentazione del critico d’arte Gaetano Romano, una poesia mia e di altri 7 poeti campani: Franco Capasso (morto nel 2006), Luigi Romolo Carrino, Wanda Marasco, Raffaele Piazza, Luigi Simonetti, Antonio Spagnuolo, Nino Velotti. Ho rivisto nelle illustrazioni le variazioni dell’“urlo” di cui Prisco parla nell’intervista di Piazza: «un grido muto e senza suono, quello dell’anima, dei neonati o dei bambini: un grido che forse risale alla mia infanzia, ad un’opera, “San Gennaro esce illeso dalla fornace, di Jusepe de Ribera”, in un particolare della quale appare un bambino urlante che non ho potuto mai dimenticare». All’epoca della nascita del volumetto io, invece, pensavo, più che ai bambini napoletani, a quelli dell’Africa, al grido silenzioso degli affamati che si andavano spegnendo, con la bocca aperta senza più forze per emettere un suono e dall’altra parte allo scarso interesse, all’irrilevante aiuto di noi che eravamo “al di qua”, nella «cortina del benessere» (come scrissi nel mio secondo libro di poesia, “Antidoto”, stampato nel 2000). Il nostro ronzio continuo, “furia turbinosa” (Pirandello), la nostra retorica ipocrita sovrastavano quel «grido taciuto», da apocalisse. Ciò mi interessava anche per la poesia. È probabile che quando ho scritto questo testo per Prisco, “L’urlo”, appunto, mi sono ricordato di Baudelaire che affermava che «tutti gli elegiaci sono delle canaglie»:

Sali urlo devastante
nei campi essiccati
su per le dune

sii grido taciuto
nella pancia gonfia
tra le mammelle arse

sia retorica la parola
dei telegiornali
l’elegiaco canto incauto
d’amore

sali tra le nostre dorate
tane di carta stampata



Non ritenevo più possibile credere nell’“idillio” in poesia, ma intanto in “Antidoto”, un anno dopo, scrivevo ossessionato, incautamente, poesie d’amore, salvo condannare me stesso come “canaglia” poche pagine dopo, ancora pensando alle «occhiaie divorate dalle mosche» degli affamati dell’Africa. Quel senso di colpa mi è rimasto. Martìn Caparròs in “La Fame” (Einaudi, 2015), libro che è frutto dei suoi viaggi in India, Niger, Sudan, Madagascar, ma anche in Argentina, Spagna ecc, ha scritto: «Ripugna a qualunque forma di percezione la volgarità di persone che possiedono, che sprecano senza vergogna quello di cui altri hanno disperato bisogno”. In Prisco è rimasto sempre alla base del suo espressionismo un desiderio di vicinanza agli ultimi, un monito di condanna di noi tutti che siamo, con la nostra indifferenza, “al di qua”, nella “cortina del benessere”. Basta leggere il suo testo “Il copertino giallo”, antologizzato anche nel libro di interviste, che è tratto da “Il lume della follia”, penultima sua raccolta poetica (pref. di Alfonso Guida, Oèdipus, Solofra (AV), 2020; nel 2022 è stata pubblicata l’ultima raccolta “Una bocca di rosamiele”, Ensemble edizioni, Roma, 2022):

Nella buia stazione: fiori di stracci.
Un copertino giallo
copre una donna ulcerata
un piccolo corpo
di cisti e verruche.
Le mie ossa s’incollano alla ringhiera.
Su questa raccolta si concentra in particolare l’intervista di Ivano Mugnaini, in cui DeVivo chiarisce che il punto di partenza della sua ispirazione è stato la follia di uno zio, Gaetano, «vissuto in manicomio», vittima di «cattiverie» e spentosi «nel silenzio e nell’ombra». Una parte rilevante dell’opera di De Vivo è una riflessione sull’orrore che vediamo intorno a noi, ma di cui non siamo consapevoli. Giunge a proposito l’osservazione di Pasquale Gerardo Santella nell’introduzione alla sua intervista: «cosa si prova di fronte a una visione dell’artista? DISTURBO. Il fruitore guarda un volto, una scena, una composizione E si sente a disagio; non ne riceve una gratificazione estetica e consolatrice. Anzi! Molte figure rappresentano autentici MONSTRA che fuoriescono dagli schemi naturalistici per deformarsi in metamorfosi stranianti e inquietanti, che suscitano spesso improvvisi fremiti e sussulti». Mostri che siamo noi stessi o la nostra coscienza. Nel corso della sua carriera, Prisco è andato spesso alla radice del male, alla citazione antonomastica del ’900. In tale direzione, un ciclo che ho visto nascere, ed è nominato nell’intervista di Maria Paola Maietta, è quello de “Le scarpe di Auschwitz”, risalente al 1996 (Prisco ha pubblicato, nel 2007, un libro di poesie intitolato “Ad Auschwitz”, per IL LABORATORIO / le edizioni, alcune di esse antologizzate in “La radice delle cose”). Dipinti in cui gli stivaloni in bocca o in testa alle vittime rappresentano l’allegoria terribile del potere cieco e sadico, non solo nazista. Su “Le scarpe di Auschwitz”, Gallo, nel catalogo citato, scrive che sono «assunte come pensiero da mettere in testa, come defecazione fatta con sforzo e dolore, come statuaria indefessa, come tremolante cappello, come prolungamento di lingua, come labirinto in cui cercare e cercarsi, perdersi e trovarsi, provando e riprovando un’iconografia che assume corpo di sofferenza come degrado dell’umano, schiacciamento del divino, perdita del pensiero e della storia, sparizione stessa della civiltà». Poi vengono le opere della serie de “Le bamboline in bocca”(1998), serie «che rimanda», come spiega l’autore a p. 27 de “La radice delle cose”, «anche ai papucceddu, pupi di zucchero colorati mangiati dai bambini e dai grandi, prima di far visita ai loro parenti defunti nel mese di novembre», rito diffuso nel Sud. A testimoniare il forte legame con la dimensione antropologica dell’arte di Prisco da leggere l’intervista di Stefano Taccone che parla di «lirismo antropologico tra pittura e poesia»; anche quella di Stefania Marotti su “La dama del vino”, installazione o “scultura d’ambiente” esposta anni più tardi, nel 2014, alla Casina del Principe di Avellino, che recupera ancora una volta la dimensione antropologica con una figura voluttuosa e ipocondriaca, tra euforia e disforia, legata alla tradizione, ai colori del vino, di cui l’artista parla anche nell’intervista di Marina Brancato.
Negli anni dopo il Duemila, occorre dire che qualcosa cambia nella produzione creativa di Prisco, nettamente. Il senso di morte, il dolore, da sempre dominante, si apre ad un’altra dimensione, come ha osservato Monica Citarella nella sua intervista, sia in poesia con “Dalla penultima soglia”, sia nelle opera pittoriche c’è una evoluzione da cui «scaturiscono figure umane che mantengono sì l’inconfondibile cifra Noir ̶ secondo il consolidato modello del pittore inglese [Bacon] ̶ ma non appaiono più come un tempo, strette nella devastante morsa di un rantolo soffocato. Esse si presentano come corpi protesi piuttosto verso una dimensione trascendente, come dimostrano l’espressione più distesa dei volti e la maggiore concentrazione simbolica del dettato pittorico». Il trascendente, la dimensione metafisica, simboleggiati soprattutto da figure femminili, fanno una forte irruzione nelle opera di De Vivo. Anche nella prima raccolta di poesie, Dell’amore, del sangue, del ricordo (Il Laboratorio / le edizioni, 2004) è presente uno spiccato misticismo erotico legato alla donna, e di «“corpo celeste”che però s’incarna» e «di terrestre ascesi» parla, nella prefazione, il poeta e critico romano Plinio Perilli. Figure femminili colte nel quotidiano vengono accostate a Santa Teresa D’Avila (p. 31) o alla Madonna: «una nuova Maria / mi si accese negli occhi» (p. 25). Sono presenti nella raccolta anche donne sofferenti del Sud, che il poeta dice accarezzate dalla miseria nella poesia “Nel paese di mio padre” (p. 59), rievocata anche in “La radice delle cose” nell’ intervista curata da Vanina Zaccaria: «le donne più belle, più interessanti e piene di fascino stavano lì legate a dei panni strappati, lordi e logori, magari dalla miseria degli anni ’40 o del dopoguerra».
In diverse interviste si parla della conversione di De Vivo: Eleonora Davide titola “L’arte e la fede in un solo abbraccio”, discutendo anche della Mostra personale di Angri intitolata “Affondo celeste” (2017), su cui si concentra anche l’intervista di Giovanni Ruggiero, titolo che Prisco richiama ancora nell’intervista di Marika Vangone: «un vero tuffo nel celeste, nella chiarità, nell’universo spirituale cristiano». In questo ambito si colloca anche l’intervista di Giorgio Moio: “Chi cerca la verità cerca Dio senza saperlo”, nella cui introduzione il poeta e critico di Quarto (NA) scrive: la luce dei suoi quadri ora ha preso il posto dei toni scuri degli esordi dove la cenere aveva il sopravvento sui colori». La conversione di Prisco si lega anche ad un altro, ennesimo trasloco, quello a Quadrelle, in provincia di Avellino, presso un santuario della Madonna molto noto nella nostra zona, dove l’artista ha aperto, in viale Gramsci, uno Studio-galleria ricco di opere che ha chiamato, non a caso, “Lucis”. Dopo i cicli di opere di transizione come “Sfilate trascendentali”, “Le Spose e le modelle”, sulla «decadenza della moda» e sulla «tristezza delle passerelle», richiamate nell’intervista di Maria Paola Maietta, Prisco vira decisamente verso una dimensione celeste (anche in quel suo caratteristico uso del blu cobalto). Se ne parla in diverse interviste, come in quella di Maria Orlo, “Alla ricerca di un rifugio mistico” (2010); viene citato il ciclo appunto delle “Mistiche”, figure di sante come Santa Filomena, Santa Teresa D’Avila, colpite nel cuore da frecce. L’autore, su suggerimento dell’intervistatrice, afferma che dipingerà a punta quadra d’ora in poi le frecce: chiara l’allusione contrastiva, come segno di fede, al nome del paese in cui si è ritirato, Quadrelle, che secondo alcuni ̶ ma l’etimologia è incerta ̶ deriverebbe dall’antico Oppidum Quatrellarum romano, dove si realizzavano i giavellotti con punta quadrangolare, appunto le cosidette “quadrelle”. Si riconnette a Quadrelle e allo studio Lucis l’intervista di Bartolomeo di Giovanni: “Istanti di Luce in Irpinia” e quella di Ilde Rampino: “Nascita di un ramo trascendentale”, una espressione usata dall’artista che così chiarisce: «nelle mie opere rami e paglia si librano al vento che rappresenta il legame tra terra e cielo; un corpo celeste di cui si è alla ricerca per creare una sola unità». In questa intervista insiste anche sull’importanza delle figuri femminili celebrate nel ciclo, che fa da contraltare a quello delle “Mistiche”, intitolato “Le spose, le poetesse e le filosofe” (Silvia Plath, Edith Stein, ecc.), serie richiamate anche nel finale della intervista di Anita Curci. Le poetesse sono laicamente sacralizzate, ma il colore dominante che accomuna i due cicli è il blu, colore questo su cui si sofferma Enzo Battarra nella sua intervista. Il critico menziona opere dedicate a Sylvia Plath, come “Io mi rigiro e brucio”, in cui «il verso della poetessa campeggia in un’atmosfera di velluto blu, la pittura trasferisce tutto l’impeto e la passione sottesi a quelle parole»; oppure “Ariel”, con un ritratto fotografico di Sylvia, su cui Battarra aggiunge: «spesso le opere di Prisco De Vivo nascono proprio dalla contaminazione di materiali a partire dal supporto fino ad arrivare ad una pittura frenetica, istintiva, intima, che stratifica, che ingloba scrittura ed immagini fotografiche». L’opera era stata presentata con altri omaggi, tra cui quella ad Anna Achmatova, alla Mostra personale “I colori e la carne del poeta”, curata da Luca Palermo, presso il Museo d’Arte Contemporanea di Caserta nel 2016.
Sul versante del misticismo sacro da leggere l’intervista di Annibale Rainone, che chiama in causa opere di De Vivo ispirate all’estasi di “Sant’Agata”, conservata presso il Museo della Diocesi di Catania, o di “Santa Teresa”, che si trova presso il Museo di Arte Religiosa Contemporanea di Napoli. Si tratta di una mistica del dolore e di una spiritualità che non si allontanano dal corpo e dalla materialità, visti in una luce diversa, anche per la pandemia, come evidenziato dall’intervista di Armida Parisi: “La mistica celeste del dolore”. Qui l’artista afferma: «La mia è una figurazione concettuale che attraversa la stagione post-espressionistica […]. Quello che mi sta a cuore è che io non sono stato mai lontano dal corpo né dalla terra: perciò nei miei primi lavori utilizzavo la cenere, la terra, gli arbusti, l’orzo. Anche adesso, in questa condizione che parte dalla mistica e arriva alla luce, il mio punto di partenza è sempre il corpo, inteso come corpo spirituale o carne celeste». Sulla sacralità del corpo non poteva mancare il richiamo a Pasolini: nella conclusione dell’intervista di Ruggiero, “L’affondo celeste”, l’artista dice che nel corpo «risiede la nostra spiritualità e la nostra carnalità […]. In questo momento mi viene in mente una performance del 1975, quando Fabio Mauri, alla Galleria di Arte Moderna di Bologna, fece sedere Pier Paolo Pasolini su una sedia e gli fece proiettare sul suo torace il suo film “Il Vangelo secondo Matteo”. Tuttora sono davvero suggestive le foto che documentano quel momento. Il corpo del poeta diventa schermo delle proprie visioni».

Carlangelo Mauro

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