Non aveva grande esperienza del clima della nascente federazione comunista napoletana Curzio Malaparte se nel corso di una delle tante vacanze nella diletta Capri regalò al giovane Giorgio Napolitano una copia del suo libro Kaputt con una dedica che affettuosamente recitava “ a Giorgio che non perde la pazienza neanche dinanzi all’apocalisse”.
Forse l’apocalisse non avrebbe turbato il tenace ,ancorchè giovane, laico Giorgio, ma certo in trambusti di un partito in cui più volte venne pressato se non proprio contestato si. Chi ebbe modo di frequentarlo da vicino sia nella sua gestione della federazione di Via dei Fiorentini, nei primi anni 60, e poi, successivamente negli anni 80, quando la dialettica attorno a Berlinguer, o ancora di più dopo la scomparsa del mitico segretario, arrivò a punti alti di crudezza.
Non dovrebbe essere indelicato , nel coro delle celebrazioni degli indiscussi meriti storici di una tale uomo di stato, ricordare ad esempio quel congresso provinciale a metà degli anni 80, poco dopo il terremoto, in cui la sinistra che faceva riferimento ad Antonio Bassolino incanalò il disagio e lo smarrimento di larga parte della base di un partito che regnava ma non governava nella città, contro proprio la candidatura a delegato all’assise nazionale del prestigioso leader dei miglioristi che infatti uscì nella lista dei designati al mortificante 21°posto, sembra.
Ma , aneddotica a parte, il legame fra il presidente emerito a Napoli rimase profondo , indelebile persino nel suo più solenne mandato al Quirinale da dove non faceva mancare mai l’attenzione e qualche suggerimento per il vertice del partito locale.


A sugellare la passione totalizzante con cui Giorgio o sicc, come affettuosamente veniva chiamato negli anni 50 dai militanti del partito partenopeo per distinguerlo dal suo mentore e bussola politica che fu l’incombente Giorgio o’ chiatt , era il prestigioso capo della resistenza e poi nume tutelare del comunismo meridionale Amendola , quel tratto autobiografico che confessò a Eugenio Scalfari, quando in un’intervista rivelò che il suo debutto nell’organizzazione della già turbolenta federazione del PCI fu il servizio d’ordine che doveva difendere la sede del partito dalle ricorrenti minacce e assalti della bande arruolate dai monarchici e neo fascisti. La sua distinzione ed eleganza istintiva che gli valsero salaci battutacce dal corrosivo sarcasmo partenopeo, vennero subito temprate da una esplicita ed esibita pratica nella cucina dell’organizzazione che frequentò in maniera assidua, quasi frenetica, si dice, con un’ansia di conoscenza a contatto con la base sociale, il cosi detto territorio, che organizzava il PCI.
Siamo nel pieno della stagione di Mistero Napoletano (Einaudi), descritta così bene da Ermanno Rea che ci racconta la ferocia di quell’impasto di ortodossia bolscevica e perbenismo piccolo borghese che innerva il senso comune del partito che comincia la sua lunga marcia nelle istituzioni. Si cementa in questa fase quella convergenza fra la componente più terzinternazionalista, di osservanza sovietica, con una tendenza di matrice più “liberale” potremmo dire per la suggestione che ci procura la discendenza famigliare del suo nume tutelare che è appunto Giorgio Amendola, che governerà a Via dei Fiorentini a lungo, usando la moderazione sociale come titolo di accreditamento verso i ceti conservatori che dominano in città. Amendola collauda a Napoli la sua doppiezza ideologica, di un moderno interprete della richiesta di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori- i famosi soldoni che bisognava mettere nelle tasche degli operai, come diceva in polemica ai sindacalisti con ubbie di potere nella fabbrica- e un legame di ferro con la patria socialista che garantiva ruolo e funzione internazionale del PCI. In questa commistione di valori e culture Napolitano segue la corrente e le sue sensibilità culturali , così aperte alle tematiche del vissuto borghese non gli impediscono certo di aderire al clima di intolleranza che regna nell’apparato rispetto a deviazioni considerate decadentismo borghese.
Il tirocinio che il debuttante componente del servizio d’ordine ha compito sul territorio gli guadagnò la considerazione e il rispetto di tutte le componenti dell’organizzazione oltre la coptazione nel ristretto inner circle amendoliano .
Così al momento di quel ricambio culturale prima che politico che Togliatti avviò nelle principali federazioni, prima della sua scomparsa, sostituendo la generazione della resistenza, di matrice più legata a Mosca, e che Amendola accompagnò con particolare impegno proprio a Napoli, dove rovesciò le gerarchie nell’alleanza fra la destra più aperta del partito con gli stalinisti, lo portarono naturalmente alla naturale designazione a segretario provinciale. Una carica allora nodale, che dava un primato esclusivo sia nel governo materiale degli apparati che nella guida politica e ideologica, siamo proprio in uno dei trapassi più radicali della cultura politica del PCI.


La sinistra a Napoli è ancora schiacciata dal populismo ante litteram di marca laurina, che ne restringe il perimetro e l’ambito di espansione alla vecchia area di resistenza antifascista ed a ristretti nuclei di aristocrazia operaia, ma soprattutto non trova una strategia che parli ad una società cosi composita, dove sono già visibili componenti non riducibili al dualismo tradizionale capitale/lavoro.
Affiora quella complessa porosità di cui parlava negli anni 20 del secolo scorso Walter Benjamin che , con il suo compagno francofortese Adorno, intuì le specificità, proprio a Napoli, di una nuova economia dove i sogni prevalgono sui bisogni, persino alle latitudini più drammatiche ( vedi il saggio Adorno a Napoli di Martin Mittelmeier, Feltrinelli ). Si abbozza cosi uno dei tratti che inseguirà sempre la sinistra nei decenni successivi: come interpretare la mancanza di una tradizione industrialista e quale mosaico di interessi individuare per integrare e supportare la limitatezza della presenza operaia. Un nodo teorico e politico che oggi, esploso con la società immateriale della rete, dove l’automatizzazione di attività e mediazioni forgiano un pulviscolo di mestieri e ruoli del tutto inediti sta incalzando le forze di sinistra in tutto il mondo denunciandone l’assoluta inadeguatezza culturale ad intendere in termini conflittuali questo mondo così levigato ma anche cosi fortemente diseguale.
Napolitano usa bene la sua contiguità adolescenziale con la leva dei futuri intellettuali della borghesia metropolitana, che vede nel liceo Umberto I, che ha frequentato, cementarsi i legami con veri testimonial del clima culturale del tempo: Francesco Rosi, il regista di Mani sulla Città, Raffaele La Capria l’autore di Ferito a morte, il romanzo dell’educazione antropologica dei napoletani che studiano, o ancora il giornalista Antonio Ghirelli o il commediografo Giuseppe Patroni Griffi. Una chiave che gli permette di aprire un varco al PCI nel senso comune della città che assiste alla trasformazione del gruppo di governo da monarchico a democristiano, in molti casi con la piena continuità degli interpreti.
Qui si pone il tema di quale ruolo e funzione abbia avuto nella lunga transizione della città il Pci nelle sue diverse stagioni, comunque sempre largamente egemonizzato da quella componente diventata poi, nella percezione generale, dei miglioristi di cui Napolitano, in particolare a Napoli , fu maestro e tutore.

1966 Momenti dell’ XI Congresso della Federazione napoletana del PCI


Nei tre passaggi topici che hanno segnato la città ( centro sinistra- giunte rosse- terremoto) possiamo scorgere un filo conduttore della leadership del futuro presidente: l’autonomia del politico.

E’ quello il concetto e la scelta che permette a Napolitano di declinare la convergenza socialdemocratica in chiave europea con una opzione atlantica che coltiva in silenziosa opposizione al suo pigmalione Amendola. Una sorta di legge degli opposti estremismi che vede l’ormai stabile componente del vertice nazionale del partito ipotizzare un cambio di campo silenzioso del PCI come conseguenza di una sua mutata missione nazionale : da partito di classe a neo partito della nazione.
Una scelta che porta il responsabile della sezione culturale di Botteghe Oscure ad accogliere in un anno fatidico come il 1977- siamo nel pieno dell’offensiva terrorista, con un Berlinguer che accelera il suo logoramento con la proposta dell’austerità – un gruppo di prestigiosi intellettuali dell’area operaista ( Mario Tronti, Massimo Cacciari,Alberto Asor Rosa,Aris Acornero ), proprio in nome della loro celebrazione del primato dello stato sulla classe e del governo sulla rappresentanza. Come scrive Tronti nel primo volume della rivista Laboratorio Politico, suggellando l’acrobatica intesa fra i cattivi maestri del conflitto radicale in fabbrica, come li definiva qualche mese prima l’Unità, e il testimonial della svolta socialdemocratica del PCI, “è la forma politica che determina lo scontro di classe e non viceversa”. Una visione che ribalta completamente, come gli rimprovera il suo ex compagno dei primi tempi della famiglia operaista Tony Negri, le cui intuizioni sulla fabbrica diffusa e l’operaio sociale che meglio coglievano la tendenza prossima alla de-industrializzazione, venivano vanificate dal deliquio insurrezionalista , quella definizione con cui Marx corregge la lettura tutta manifatturiera de Il Capitale quando scrive “in tutte le forme di società è una produzione determinata che assegna rango e influenza tutte le altre, come del resto i suoi rapporti assegnano rango ed influenza a tutti gli altri “(Grundrisse , Edizione Pi Emme). Qual’era la forma nascente che stava dando rango alla società post fordista che Napoli ha scontato sulla propria carne con la dismissione di Bagnoli ? Una domanda, ed è forse il vero rilievo che propongo all’eredità di Napolitano sicuro di non intaccare minimamente l’aura politica e istituzionale del presidente, a cui “il comunista liberale” come lo ha definito Rino Formica, uno dei grandi vecchi del socialismo italiano che per la sua estrazione troskista ben sa interpretare le pieghe del dibattito comunista, non si è mai applicato.

Nel corso della sua assidua e tenace attività di ricerca ed elaborazione, larga parte peraltro svolta con un occhio fisso ad ovest, come uno dei pochi a sinistra che scrutava l’occidente più che l’oriente per capire quale fosse la tendenza del mondo, poco si ricorda di sue riflessioni sulle trasformazioni tecnologiche. Fin dagli anni ’60, quando nel pieno del miracolo economico, si trovarono a coesistere nel nostro paese le opportunità di uno sviluppo informatico, con l’Olivetti della Programma 101, chimico con i polimeri di Giulio Natta, elettro nucleare con la prima centrale civile di Ippolito; delle esplorazioni spaziali, con l’agenzia del comandante Broglio. Il dirigente comunista che appariva più curioso e sensibile al nuovo non si applicò a comprendere quali orizzonti indicassero tali innovazioni. E più tardi, ormai nel pieno della rivoluzione informatica, tutto veniva derubricato a progressi scientifico lineare, senza interrogarsi, come abbiamo visto indicava Marx, su quale forma sociale dava rango a tutto il resto e con quale gerarchia di poteri. Una conseguenza di quella scelta tutta politica, tutta incentrata sul principe di machiavellica memoria, che, in un ulteriore convergenza fra destra e sinistra Napolitano condivideva con Georgry Luckacs, l’intellettuale leninista che sosteneva come un rivoluzionario non dovesse farsi condizionare dai fatti concreti. Una scelta che sia nella versione del comunismo realizzato o del miraggio socialdemocratico non ha portato a grandi risultati.

Michele Mezza


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