A margine della manifestazione del 15 marzo è opportuna una riflessione su quale sia il ruolo che configura per le grandi organizzazioni.

In premessa, si può ritenere che abbia ragione chi dice che non bisogna polemizzare tra chi ha partecipato e chi no: trattavasi di una piazza senza piattaforma politica, in cui hanno sfilato persone collocabili in uno spettro che va dalla sinistra radicale a chi è convinto che la democrazia liberale sia minacciata da Mosca, e dunque non è opportuno né ragionevole farne un momento dirimente. Anche se il suo primo ideatore, Michele Serra, ci ha messo ben tre articoli per riconoscere che “la risposta armigera formulata da Von der Leyen cozzi tristemente contro i valori fondativi dell’Unione Europea” (dal suo pezzo dell’11 marzo). Sia detto per chiarezza: chi scrive ha scelto di non partecipare alla manifestazione di Piazza del Popolo, ma non si può non riconoscere che tantissimi dei partecipanti hanno portato la bandiera della pace, e non era un fatto scontato. La convocazione della piazza per l’Europa ha mimato in questo senso un movimento egemonico con l’obiettivo di tenere dentro tutti, quelli contrari al riarmo perché a favore della difesa comune – due opzioni ben diverse dal punto di vista delle premesse e delle conseguenze politiche – e quelli per cui si tratta solo di continuare la difesa dell’Ucraina ad oltranza. Contro Trump e contro Putin per così dire. Un movimento di cui la sintesi rischia di essere però che è giusto stare con l’Europa a “prescindere” dalle concrete politiche, nonostante le precisazioni di Serra, che aveva ben compreso la curvatura che poteva assumere la piazza. Tuttavia, se si riascoltano gli interventi dal palco, tutti della “società civile”, prevale, come diversamente non poteva essere, l’elemento ideologico dell’Europa. L’Unione europea non fa le guerre, non deporta, non invade altri paesi, si è detto. Non era il caso di ricordare il ruolo ambiguo dell’Unione nella vicenda jugoslava, il massacro della Grecia per salvare le banche tedesche e francesi, il silenzio sul genocidio di Gaza, l’attuale politica migratoria che ormai fa propria le proposte delle destre nazionaliste.


Ciò detto, questa piazza rilancia il ruolo di un giornale, La Repubblica, e ci dice molto del faticosissimo rapporto, in quest’epoca, tra la stampa e le grandi organizzazioni di rappresentanza, in grande difficoltà nel proporre una propria prospettiva, ma – soprattutto i partiti – costrette a fungere da cinghia di trasmissione e aderire a una manifestazione elaborata in altra sede, rischiando altrimenti di trovarsi completamente al margine del dibattito pubblico. Se il quotidiano fondato da Scalfari, da un lato, recupera in quest’occasione il ruolo storico di orientamento del popolo di centrosinistra, dall’altro colloca però questa mai deposta aspirazione in un quadro completamente cambiato dal tempo dei girotondi. Intanto, si è molto ristretto il campo di riferimento: basti pensare al numero degli iscritti dei partiti del centrosinistra dalla fondazione del PD in poi; anche la piazza del 15 era di età medio alta e in gran parte animata da quello che assai fu definito da Paul Ginsborg “ceto medio riflessivo”.
In definitiva, la società è molto cambiata da quei tempi, perché colpita in quelli che furono ceti medi dai lunghi anni di austerità e poi di modesta ripresa economica all’insegna della disuguaglianza e dello spostamento della ricchezza dal basso verso l’alto. Si aggiunga che l’esordio delle forze politiche cosiddette populiste, che data ormai quasi a un ventennio, ha ridimensionato non solo il ruolo del centrosinistra storico, che il Pd pretendeva di riassumere nel suo perimetro (la vocazione maggioritaria), ma anche quella di storiche agenzie informative come i giornali, essendo stati ormai liquidati come tali i partiti con la fine della “Prima repubblica”. I social, poi, hanno arrecato il definitivo colpo di grazia. Scherzando ma non troppo, si potrebbe dire che, al netto del ceto politico, in piazza il 15 marzo c’erano quei pochi, e anziani, che ancora leggono i giornali.
Non può sfuggire che in particolare il Partito Democratico si situi al centro di questo cortocircuito, un soggetto trattato da sempre dall’establishment mediatico a tratti come una propria creatura (con più di qualche ragione, a dire il vero, come sa chi conosce la genesi dell’idea di quel partito), che ora però quasi osa ribellarsi, e va ricondotto a ragioni più aderenti all’agenda che quel mondo mediatico ha il compito di trasmettere. C’è poco da stupirsi, a dire il vero: nel contesto capitalistico, compito degli intellettuali interni al sistema è poco più che far digerire alla cittadinanza quanto viene elaborato dalla classe dominante, e la grande stampa è il veicolo di grandi conglomerati di interessi per svolgere questo compito. Ma oggi il punto critico è che gli editori puri sono un lontano ricordo, i media mainstream sono perlopiù diretta espressione di grandi gruppi economici. Repubblica appartiene alla famiglia Agnelli-Elkan e non è più quella di Scalfari, così come il Washington post è proprietà di Jeff Bezos, che si è schierato con Trump, e certo non è più quello del Watergate.
Per questo è giusto riconoscere che quella piazza non ha un significato politico immediato, perché la capacità di mettere a sintesi i punti di vista sull’Europa è tutt’altro che verificata. Quello che però si può dire è che registra un sentimento, quello dello spaesamento di fronte al trasformarsi di un sistema di relazioni internazionali che, seppure in crisi, sembrava a tratti immutabile; anche se questo trasformarsi è più che altro estetico, con le pratiche garbate della diplomazia che cedono il proscenio alla realtà muscolare della geopolitica. E quindi la necessità di appigliarsi a qualcosa che si può riassumere in quella parola, “Europa”, che dentro può avere molte cose. In questo senso valutiamo positivamente il largo ventaglio di partecipazione di organizzazioni di massa, dall’Anpi alla CGIL, che hanno animato la piazza non deponendo lo spirito critico, sventando così il tentativo di piegare la manifestazione alle ragioni cieche del riarmo.
Tuttavia, resta del tutto aperto il tema di quale Europa si vuole: più democratico-socialista, che difende diritti e stato sociale, oppure più armata alle frontiere, come una cittadella assediata. È in questa differenza che c’è lo spazio di una politica da praticare, una politica che riprenda, tramite le grandi organizzazioni di rappresentanza, a elaborare al suo interno la propria agenda e non farsela dettare da chi è nient’altro che la faccia educata di ben altri interessi. È lo svolgimento di questo tema che la mistificazione tutta ideologica dell’Europa, alimentata da Repubblica e altri media, ostacola, perché occulta il ruolo concreto che gli interessi nazionali ancora svolgono nel processo europeo: parliamo ad esempio del concretissimo peso politico che nelle istituzioni hanno i due senior partner dell’Unione, Germania e Francia. O, ancora, rende poco decifrabile la curvatura “presidenzialista” operata da Ursula von der Leyen come testimoniata dalla procedura d’urgenza attivata per lanciare il ReArm Europe bypassando senza troppi patemi il ruolo del Parlamento europeo a cui è stata concessa solo un’innocua risoluzione.


In definitiva, la manifestazione lascia inevasa la questione centrale di quale direzione dare all’Europa. Per meglio dire, viene chiamato in causa ancora una volta il deficit democratico delle istituzioni europee. E insieme il ruolo della politica intesa come campo di contesa, come spazio non pacificato risultante da rapporti di forza anche brutali, come un’Europa spaesata sta imparando a proprie spese, pagando il prezzo dell’assenza di una propria autonomia sulla vicenda ucraina come pure sulla complessa agenda internazionale imposta dal secondo avvento di Trump.
Anche da qui discende come obbligata la riflessione sull’attualità del partito – che certamente va messo al passo con i tempi – come agente formativo-informativo e come strumento di gruppi sociali – vogliamo chiamarle classi? – che, contro la vulgata tardo-liberale da cui è nato il PD, proprio per essere “parte” dovrebbero alimentare dialetticamente non solo il dibattito ma anche il processo democratico. Solo che in questo dibattito e in questo processo risulta che i ceti popolari siano assenti da decenni, e per questo rappresentano oggi il campo in cui arano le destre; anche qui si annida la sofferenza del progetto europeo.
Una questione, quest’ultima, che torna drammaticamente d’attualità oggi che lo svuotamento della democrazia richiama sul palcoscenico della storia europea l’incubo delle armi e della guerra.

Lorenzo Fattori e Raffaele Cimmino


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