Alla manifestazione del 15 Marzo convocata da Michele Serra andrò. Credo che, da sinistra, sia un errore non solo disertarla ma anche farne uno spartiacque, un elemento dirimente per i futuri assetti e le future configurazioni politiche.
Provo a spiegare la mia posizione sgombrando subito il campo da equivoci e fraintendimenti. No, quest’Europa non è la mia Europa, ma non da ora. Da molto tempo. Non vivo di memoria corta: non dimentico l’infamia (perché di questo si trattò) con cui le istituzioni europee si macchiarono quando piegarono, ciechi vassalli del neoliberismo, il popolo greco, strozzando la sua economia e il suo stato sociale. Ricordo bene quando, dopo la schiacciante vittoria del NO al referendum voluto da Tsipras la Commissione Europea, con la BCE, chiuse – nei fatti- i bancomat di quella nazione, costringendo – con il ricatto – il governo alla macelleria sociale. Non lo dimentico. Sì, il ReArm Europe lo trovo un errore morale, politico e strategico di proporzioni storiche. Non mi piace e non lo sostengo. Dirò di più: in tempi come questi, quando la parola “guerra”, non sussurrata, non pronunciata con parole “smozzicate” ma, invece, gridata, apertamente annunciata, pomposamente presentata; proprio ora, quando da intellettuali di ogni parte si ripete il mantra della “pace fatta con la forza”, proprio adesso, in questa weltanschauung rilancio l’assurdità del pacifismo, del disarmo, del ripudio della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, del rilancio della politica. Io non sono contro la guerra. Io sono pacifista.
Tuttavia, si sa, la complessità non può essere tagliata con un’accetta. Essa richiede l’umiltà – e anche lo sforzo- di scandagliare i fatti, di ribellarsi all’evenemenzialità della cronaca per cogliere quello che, negli anni 30’del secolo scorso, alcuni storici francesi chiamavano longue durée della storia.
Il secondo mandato di Donald Trump porta con sé, in forma più evidente, tutte le contraddizioni di cui si è nutrito il sistema occidentale e il presunto equilibrio mondiale da 30 anni a questa parte: la mancanza di un “oltre” di senso, di un orizzonte alternativo di società, di una lettura “di parte” della storia hanno lasciato spazio ad un capitalismo sfrenato che si è saldato alle nuove forme del potere – l’economia e la tecnologia- rinforzando, però, quelle classiche, ovverosia l’imperialismo, evidenziando quanto la politica ( intesa come il conflitto di grandi interessi popolari, come dialettica della storia e come esercizio del diritto) sia mero orpello per anime pie e belle. Il tornante sta qui. La politica non conta. Contano gli interessi economici e imperialisti che trovano il loro naturale sbocco nella guerra e la loro naturale vittima nelle fasce sociali escluse dal grande capitale. Lo scontro, a mo’ di bullo, tra The Donald e il Presidente Zelensky ha solo reso plastica questa condizione. Dell’altro campo, la Russia, l’imperialismo oligarchico del governo di Putin ha mostrato la sua crudeltà, senza alcun ammanto, non soltanto in Ucraina nel 2022, ma in Siria e in Georgia (qui già ai primi anni 2000). Dinnanzi a questo stato di cose che fare?
Michele Serra ha il merito (non so quanto voluto) di aver risvegliato delle coscienze che, altrimenti, sarebbero state relegate esclusivamente in una protesta unicamente etica e morale, in un rifiuto solitario e frustrato, in una rabbia individuale e informe. Gli va riconosciuto, viva Dio!, di essere riuscito a mettere in moto un dibattito pubblico anestetizzato (non perché indifferente ma profondamente privo di luoghi di elaborazione e di confronto) e soprattutto di aver proposto la fisicità, la concretezza della mobilitazione. I corpi in carne ed ossa in piazza, le persone con le loro paure e le loro speranze, con le loro contraddizioni, dubbi e le loro diversità, ai quali si chiede di scendere, di occupare spazi, di riprendersi i luoghi. Un simile elemento non credo vada sottovalutato da chi aspira a riportare le istanze popolari al centro di un rinnovato conflitto: segnalo, per inciso, che la democrazia rappresentativa – per come si è delineata nel secolo scorso- vive una profonda crisi che non viene dall’esterno,ma da un progressivo svuotamento del suo senso. Non più generali che prendono le TV e radio del paese e annunciano un colpo di stato o che bombardano il Palacio de La Moneda, ma un appassire quotidiano nella intatta formalità delle pratiche e delle istituzioni democratiche.. Anche questa è la fine del 900. Anche questa è la nuova lotta di classe. Certo, non basta.
Su quale piattaforma si chiama la rinnovata mobilitazione? Una piattaforma semplice: un rilancio della presenza europea. Tanto semplice quanto, potenzialmente, contraddittoria.
Eppure, la contraddittorietà, a mio pare, non può e non deve stupire. Come immaginarsi una piattaforma politica chiara se denunciamo, oggi più che mai, la mancanza di una lettura complessiva di sistema? Chi dovrebbe offrirla questa chiarezza? Quali corpi intermedi oggi hanno la forza- non in termini numerici- di articolare un pensiero lungo e complesso? Chi ha il compito di elaborare? Le piattaforme politiche le fanno le organizzazioni politiche e sindacali. La manifestazione è stata lanciata non da un segretario di partito, né di un sindacato ma da un giornalista. E davvero si ritiene che il popolo che si muoverà in quella piazza sia fatto tutto di guerrafondai, imperialisti e ciechi, desiderosi di mandare i propri figli al fronte? Confondiamo istituzioni e popolo, cosa che i tempi odierni ci dimostrano essere un errore: mai come in questo periodo si sta assistendo ad uno scollamento tra le istituzioni, le classi dirigenti e le masse popolari. Perché, dunque, compiere un’operazione di arbitraria sovrapposizione e non cogliere il senso e il messaggio che viene dalla piazza per rilanciare, in nome dei valori europei – traditi già da Maastricht nel ‘92 in verità – un disegno federalista e pacifista? Perché non vedere, invece, nel bisogno che i popoli europei mostrano di una rinnovata centralità dell’Unione l’occasione per sparigliare e chiedere che l’Europa o è quella di Ventotene o non è? Perché le istanze pacifiste dovrebbero sentirsi escluse? Tutt’altro! Il movimento pacifista ebbe, negli anni 80’ del secolo scorso, la forza perché nutrito di un grosso seguito che aveva come bussola una scelta valoriale, prima che geopolitica, contrario agli “yankee” quanto a Breznev. Non si volevano i missili né della Nato e né della Unione Sovietica. Insomma, perché la politica non apre una discussione con quella piazza? Perché non cogliere dall’eterogeneità della folla l’humus su cui arare una proposta, un disegno politico che provi a rimettere in discussione tutto? I tempi sono bui. Il mondo sembra essere piombato nell’oscurità più fitta, quella nella quale pare scomparsa anche la fioca luce della luna, eterna compagna di ogni viandante. Rinunciare a indagare, evitare di immergersi nelle contraddizioni del nostro tempo, non provare a cogliere i deboli segnali, ma pur sempre presenti, di una voglia di partecipazione e di ribellione all’arroganza della forza che nella diversità e nelle sfumature di masse sempre più atomizzate, mi pare di intravedere, credo, sia un gesto di resa che non possiamo permetterci. Almeno proviamoci.
Antonio Avilio