Il mio assassino
Daniel Pennac
Traduzione di Yasmina Melaouah
Romanzo
Feltrinelli
2024 (orig. Mon Assassin, 2024)
Pag. 138, euro 16
La sua e la nostra libreria. Da vari decenni. All’inizio degli anni cinquanta c’è il
14enne “Bambino Lassalve” (scritta appesa al collo) seduto sul treno da
Châlons-sur-Marne alla Gare de l’est di Parigi, ha una cartella in mano, legge
un libro, sarà poi effettivamente “ricezionato” dal padre e dalla madre. Non si
chiama così, però: i presunti genitori sono attori, lui sta per intraprendere una
carriera criminale e, soprattutto, dovrebbe essere solo un personaggio
letterario. Sette decenni dopo ritroviamo lo stesso “figuro” a fine percorso, da
tempo fa prevalentemente l’assassino, noto ai suoi uomini con il soprannome
di Nonnino, ormai è vecchio ed è entrato in contatto con la tribù Malaussène,
giunta al capolinea in due successivi straordinari romanzi. Quando l’autore ha
messo il punto finale al primo non aveva la benché minima idea di quale
sarebbe stato il contenuto del secondo, anche perché erano subentrati altri
progetti: raccontare il fratello nel frattempo morto, scrivere sul sogno e su
Federico Fellini, necessità di narrazioni urgenti divenute presto ossessioni Poi,
nel seguito pratico del Signor Malaussène, il gangster Nonnino, età vetusta e
voce dolce, amante di gratin dauphinois, violento e implacabile, conversa con
lo scagnozzo Kebir (ha un esercito colto e fedele di delinquenti ai suoi ordini, li
ha educati alla verità cash e formati professionalmente, li guida con risolutezza
nera) sul modo in cui si è svolta una precedente operazione criminosa (il
rapimento dei Lapietà) e subito s’impadronisce del romanzo, accompagnandoci
in una lunga storia del settembre 2021, fra anfratti e risvolti di tutte le
precedenti sei avventure dell’intera tribù allargata del capro espiatorio più
famoso al mondo, il nostro caro Benjamin. Ora è il momento di scoprire
l’infanzia del vecchio assassino e, più in generale, come sono nati gran parte
dei personaggi della Saga, derivanti in vario modo da amici e parenti
dell’autore, alcuni morti (presenti in spirito e foto su scaffali della libreria).
Daniel Pennac (Casablanca, 1944) mette il punto esclamativo sul cerchio
chiuso dei veri e propri magnifici sette romanzi di realismo magico dedicati al
mitico capro espiatorio. Questo è un memoir binario, in terza sul presunto
assassino della serie (da cui il titolo), alternativamente in prima con Pennac
che espressamente spiega: “qual è la prima molla che fa dell’amico il
personaggio di un romanzo? Il desiderio dell’autore di godere ancora della sua
compagnia. Prolungo la tua presenza, amico mio, non per darti un qualche
lustro quaggiù (né tu né io tenevamo in gran conto qualsiasi modesta gloria
terrena, così come non credevamo nell’eternità dei cieli), ma perché tu mi
tenga compagnia fino alla mia personale dipartita; è il minimo”. In questo
delizioso delicato breve testo non troverete la sistematicità di riassunti, figure
genealogiche, repertori delle denominazioni e definizioni dei mitici personaggi
seriali “inventati” (ben oltre il centinaio), citati o evocati. La narrazione s’avvia
in terza persona su Nonnino giovincello; segue poi lo stesso autore in prima
(non Ben, come nei romanzi). Del resto “scrivere è proprio questo: raccontare
il seguito”. Con il primo colpo Nonnino (un soprannome, con la minuscola, dato
a lui da una ragazza attrice, dalla sorella e dal fratello adottivo “superstite del
mar Mediterraneo”) diventa definitivamente un falsario ladro ricattatore
omicida; Pennac chiacchiera su aspetti dei tempi e dei luoghi della propria
biografia (affetti antichi e costanti), soprattutto di uomini e di donne “reali” da
cui ha tratto spunto per la finzione, a cominciare dai due direttori della Série
Noire della casa editrice Gallimard, Robert Soulat e Christian Mounier, che
pubblicarono il primo romanzo giallo-noir all’inizio degli anni ottanta, e
dall’editrice Isabelle, che quasi contemporaneamente pubblicò i primi due
romanzi per l’infanzia, di malavoglia il magnifico secondo. Ovviamente, pure
alcune letture contarono molto: il personaggio “l’ho attinto da René Girard e
poi l’ho calato nel romanzo noir” (cita Chandler, Burnett, Westlake, Cook,
Thompson con refuso non suo, Bialot, McBain, Himes, Charyn, da bambino
Andersen, Dumas, Dickens, Dostoevskji, Mérimée). Interessante la teoria del
“bambino completo”, Pennac si riferisce a Nonnino, introverso e precoce,
intelligenza eccezionale, ottima grafia e motivatamente un gran disegnatore
(come lo stesso autore). Segnalo la Pensione Letteratura per noi eccessivi
scrittori impenitenti (anche non di fiction), a pagina 114. Dopo aver letto a
voce alta alla moglie Minne (Julie?) la prima versione della Fata Carabina “se
ne sono andate centosessanta pagine” (meditiamo, meditate)! Splendido.
***
Razza. Preistoria di una parola disumana
Lino Leonardi
Linguistica
Il Mulino Bologna
2024
Pag. 158 euro 14
Italia. Da quasi otto secoli. La parola razza, con il suo derivato razzismo, non è
una parola neutra. Evoca il genocidio perpetrato dal nazismo e dal fascismo o
l’apartheid sudafricano, riemerge spesso per giustificare il contrasto dei
migranti nelle sue forme più disumane. Con le differenze dovute
all’adattamento fonetico, risulta presente in quasi tutte le lingue occidentali.
Non tutti sanno che è proprio una parola di origine “italiana”: la prima
documentazione della sua esistenza e del suo uso la troviamo in Italia verso la
fine del Duecento, l’epoca di Dante. Derivava da una parola dell’antico
francese, haraz, legata esclusivamente al mondo dei cavalli. È dall’italiano, in
modo lento e molto articolato, che arriva alle altre lingue europee e acquisisce
modalità di descrivere altri significati, anche quelli oggi considerati
scientificamente sbagliati: negli ultimi decenni la ricerca genetica e
antropologica ha definitivamente negato l’applicabilità del concetto di razza
all’interno del genere umano e, di conseguenza, all’interno dell’unica specie
residua (da circa quaranta mila anni) del genere Homo, la nostra, i sapiens.
Usandola per contesti sociali, si evoca un concetto inesistente usando una
parola che gronda sangue di milioni di vite umane, per solleticare paure e
pregiudizi, e per giustificare la repressione dei migranti o per alimentare un
nuovo antisemitismo. Abolire la parola non servirebbe certo a cambiare la
mentalità e i comportamenti razzisti o a dissolvere la paura dell’altro da sé.
Tuttavia, è attraverso le parole (scritte e vocali) che definiamo e
comprendiamo la verità delle cose, troviamo forse talvolta il fondamento della
giustizia. Usiamola solo per le specie animali e condanniamone l’uso per la
definizione di gruppi umani distinti, correggiamo i dizionari italiani o europei e
togliamola appena possibile da norme e documenti connessi a costrutti umani.
Finalmente! Il linguista e filologo Lino Leonardi (Roma, 1961), ordinario di
Filologia romanza alla Scuola Normale Superiore di Pisa (dopo aver insegnato
anche a Firenze, dove risiede) riflette sulla preistoria non umana (“disumana”)
della parola “razza” (da cui il titolo e il sottotitolo), sul suo significato e sulla
sua origine, offrendo un limpido decisivo contributo a mantenere viva la
memoria di orrendi crimini contro l’umanità commessi in suo “nome” nel
Novecento e a lottare contro ogni forma di razzismo. Il primo capitolo esamina
il comune lessico contemporaneo sulla parola, la molteplicità di definizioni
formali e di espressioni metaforiche, di sfumature semantiche e di impiego
fraseologico. L’autore segnala come tra la fine dell’Ottocento e il primo
Novecento sia divenuta una “parola terribile” per distinguere caratteri biologici
all’interno della nostra specie; rintraccia storici e viaggiatori che per primi vi
accennarono per caratterizzare altri umani (giustamente la prima esplicita
teorizzazione discriminatoria viene attribuita ad Arthur de Gobineau); richiama
le discutibili concezioni “biologiche” alla base della crescita in Germania delle
teorie razziste e naziste; affronta i nessi con la politica repressiva e omicida del
regine fascista italiano; evidenzia infine come il razzismo non si sia estinto con
la sconfitta del nazi-fascismo nel 1945, e le discriminazioni in nome della razza
si siano susseguite nella seconda metà del Novecento. Il secondo capitolo è
dedicato all’Assemblea Costituente e al testo della Costituzione italiana: la
parola venne mantenuta proprio per negarne un qualche suo valore
discriminatorio; si dava però comunque per scontato che le razze umane
esistessero; oggi si sa che non è così, l’autore cita il percorso scientifico
interdisciplinare e l’inopportuno uso anche della parola “etnia”. Nei successivi
cinque capitoli, con acume e chiarezza, Leonardi compie il suo specifico
encomiabile lavoro, si concentra sui “civili” aspetti linguistici del termine, sulla
sua origine e sulla sua etimologia, ci conduce all’interno di tante lingue scritte
e parlate in Europa, trova tracce antiche in testi e autori più o meno noti,
discute le molte ipotesi fatte in passato e come si è arrivati a una conclusione
abbastanza definitiva: la parola è italiana (metà Duecento, area angioina,
consolidatasi nel Trecento) e riguarda gli animali; deriva da un altro termine
francese che definiva allevamenti di cavalli; accresce via via le accezioni in
italiano e le trasferisce o allarga nelle altre lingue (prima catalano, poi
francese, inglese e tedesco). Ovviamente, l’autore segnala anche qualche
ricerca ancora da fare e qualche consiglio per il nostro uso parlato e scritto.
Seguono un’accurata nota bibliografica e l’indice molto vario dei nomi.
***
L’isola della noce moscata. La corsa alle spezie di esploratori, mercanti, pirati
che ha deciso la storia del mondo
Giles Milton
Storia
Traduzione di Sergio Mancini
Prefazione di William Dalrymple (novembre 2023)
Nutrimenti Roma
2024 (orig. 1999, Nathaniel’s Nutmeg)
Pag. 302 euro 20
Isole Banda, Run in particolare. 1591 – 1667, fra stati nazionali e compagnie
commerciali inglesi e olandesi, nativi collaborativi resi più o meno succubi o
schiavi. Siamo su una decina di piccole isole vulcaniche indonesiane, nel mar di
Banda, sopra l’Australia, a circa duemila chilometri verso est di Giava.
Scoperte dagli europei all’inizio del Cinquecento (primo il portoghese Abreu nel
1512), fino al XIX secolo furono l’unica area di produzione della noce moscata
e del macis, spezie preziose per i mercanti del nostro continente. Il 23
dicembre 1616 Nathaniel Courthope, capitano del vascello inglese Swan, arrivò
a Run, un atollo fra i meno grandi e più ricchi delle Indie orientali. Vi si insediò
sopravvivendo abbastanza bene lungo quasi quattro anni di fatiche coloniali,
organizzò colonia e fortezza e nell’ottobre 1620 si difese strenuamente
dall’attacco marino e terrestre olandese con uomini e armi preponderanti, fino
a un colpo al petto, senza poter più nulla di fronte a più di cinquanta soldati
olandesi. Fu risoluto nel difendere la proprietà inglese, la sua scelta pagò
dividendi decenni dopo, ma la sua morte crudele passò senza tracce alla storia,
per tutto il Novecento si sarebbe potuto cercare invano una tomba o un
epitaffio che commemorasse l’eroe in patria. Gli inglesi vi tornarono dopo
innumerevoli vicissitudini e guerre con l’Olanda solo nel marzo 1665, furono
attaccati ancora poco dopo, ma infine nel marzo-aprile 1667 il Trattato di
Breda stabilì uno scambio straordinario (clamoroso a secoli di distanza): gli
olandesi si tennero Run e in cambio cedettero in via definitiva agli inglesi una
grande isola sulla costa orientale dell’America, Manhattan (New York)!
Il grande giornalista, storico e scrittore britannico Giles Milton
(Buckinghamshire, 15 gennaio 1966) narrò questa straordinaria vicenda ormai
venticinque anni fa, è ancora vivida e utile. Il titolo inglese si concentra su uno
dei protagonisti, quello cruciale per l’ostinata rivendicazione britannica della
piccola isola di Run, quasi inaccessibile, distante dalle altre del gruppo. Il titolo
italiano guarda alla sostanza: fra il Quattrocento e il Seicento le spezie erano
più preziose dell’oro, la noce moscata era una delle più redditizie, la più
ricercata e preziosa. Nei secoli successivi, da una parte si fecero molte altre
coltivazioni in altri continenti, dall’altra New York divenne la città più grande
del Nord America. Oggi è difficile crederci, eppure è un oscuro enorme brano di
storia ed è merito soprattutto dell’autore averlo riscoperto. Dopo la prefazione
e il prologo sul primo arrivo di Courthope a Run, la narrazione (qualche rara
volta al presente) è strutturata in dodici capitoli prevalentemente cronologici,
capaci di intrecciare scoperte e guerre, fatti e personaggi dell’impero
d’Inghilterra e dell’Olanda (con cenni a portoghesi e spagnoli) con i perigliosi
viaggi dalle coste oceaniche nostrane e, soprattutto, con le esistenze (alcune
terribili e indimenticabili) di nativi ed esploratori, di coloni e schiavi, dei
governanti e dei mercanti in patria e dei differenti ecosistemi insulari. Le fonti
sono in gran parte giornali di bordo, diari e lettere originali (citati nella
bibliografia); non vi è confronto fra storici semplicemente perché fino a
venticinque anni fa era un episodio quasi per nulla trattato nei libri sulla
conquista britannica del globo, sulle guerre tra le multinazionali commerciali
rivali dell’epoca, sul colonialismo europeo nel mondo. Non a caso, nel breve
epilogo si richiamano un episodio del declino delle Banda evidente ai primi
dell’Ottocento e la visita incuriosita dell’autore alla fine del millennio scorso.
Ovviamente, con la colonizzazione praticamente ogni isola indonesiana è
divenuta anche isola-carcere, detenzione per i “conquistati”, gli sconfitti, i
disertori, gli indisciplinati e così via. Non c’è indice dei nomi, sono citati
Chaucer e Pigafetta, a dimostrazione della ricca articolata cultura di Milton.
Significativa Table Bay, lungo la rotta africana, prima della fondazione di Cape
Town e prima che le mappe oceaniche divenissero davvero attendibili.
***
L’incarico ovvero sull’osservare di chi osserva gli osservatori. Novella in
ventiquattro frasi
Friedrich Dürrenmatt
Traduzione di Giovanna Agabio e Roberto Cazzola
Romanzo
Adelphi Milano
2024 (orig. 1986)
Pag. 107 euro 10
Valerio Calzolaio
Al-Hakim (Nord Africa), anni ottanta. Scompare Tina, moglie del noto psichiatra
Otto von Lambert. Sono stati trovati i resti, qualcuno ha violentato la donna,
lasciando che sciacalli ne dilaniassero le spoglie. Dopo la sepoltura, lui chiama la
giornalista televisiva F. e le si dichiara colpevole, Tina era afflitta da gravi
depressioni ed era scappata dopo aver avuto casualmente sott’occhio gli appunti
professionali. Le chiede comunque di ricostruire il delitto, pur se “l’esecutore non
rappresentava che un dato casuale”. Attraverso l’obiettivo asettico e glaciale di una
macchina fotografica, di una telecamera o di un satellite, ecco l’osservazione postuma
e fittizia dei fatti: la giornalista s’addentra in un universo tecnologico e primordiale,
scopre un intrigo golpistico internazionale, si cala nei labirinti del deserto con
apprendisti stregoni. “L’incarico” è un altro noir implacabile del grande
drammaturgo Friedrich Dürrenmatt (1921-1990), uno degli ultimi romanzi prima
della morte.
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Romanzo russo. “Fiutando i futuri supplizi”
Alessandro Barbero
Romanzo storico
Sellerio Palermo (1° ed. Mondadori 1998)
2024
Pag. 686 euro 19
Mosca e Russia. 1987-1991. Le vite parallele di Viktor, direttore dell’Istituto di
Storia del Pcus, e della giovane Tanja impegnata in una tesi su un argomento forse
proibito; del giudice Nazar, che mantiene umanità mentre indaga su crimini efferati;
dell’attore Mark Kaufman, ossessionato dal romanzo che sta scrivendo sullo
sterminio degli ebrei di Odessa, fino alla fine impegnato a travestirsi e salvarsi. Le
trame sono destinate a riunirsi nel ben ritmato intrigo giallo noir “Romanzo russo”,
lasciando intuire tanti torbidi presenti e fiutare, come ammonisce un verso del poeta
Mandel’štam, vittima di Stalin, “i futuri supplizi”. L’espediente romanzesco del
grande storico Alessandro Barbero (Torino, 1959) è un narratore che ha ritrovato il
lungo manoscritto (un paio di anni prima seppellito da alcuni di loro artisti e
intellettuali a Zjuzino) e ci consente di ricostruire l’epoca attraverso il vissuto
quotidiano, pensieri e memorie dell’ultimo ambiguo decennio dell’Unione Sovietica.
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Piticchjì. Cinquanta scandafàole della tradizione marchigiana scelte e raccontate in
dialetto maceratese
Silvano Fazi
Racconti favolistici (in dialetto)
Illustrazioni di Miriam Mugnoz
Prefazione di Silvia Alessandrini Calisti
Vydia Montecassiano (Macerata)
2024
Pag. 262 euro 20
Il militante scrittore pensionato Silvano Fazi (Urbisaglia, 1951) ha per anni cercato
fiabe e novelle che si narravano dalle sue (marchigiane) parti tra l’Ottocento e gli
anni sessanta e settanta del Novecento, ne ha contate un’ottantina tra le vallate di
Esino e Aso (al centro della regione, fra gli Appennini e l’Adriatico), ne ha
selezionate cinquanta e le ha scritte in dialetto maceratese, premettendo una numero
zero nella “parlata” della cittadina natale, citando fonti e riferimenti bibliografici.
Sono storie migrate per millenni in varie parti del mondo e d’Italia, di incerta origine
e sicuro effetto per bambine e bambini. L’ottimo risultato della ricerca è “Piticchjì”
(ovvero “Pochettino”, “Buchettino” in toscano), titolo della fiaba numero uno e
dell’intera raccolta. Nell’avvertenza iniziale e nel glossarietto finale, l’esperto tecnico
universitario Agostino Regnicoli ci aiuta a leggere bene e richiama l’estrema
frammentazione italiana dei dialetti, anche fra borghi vicini.