“Ignorare i millenni di lotta che sono alla base della nostra società – limitarsi a destabilizzare le relazioni sociali con la leggerezza che ha accompagnato gran parte dell’innovazione in questo secolo – sarebbe un errore intollerabile”. Non è il rigurgito di qualche ex combattente e reduce della lotta di classe, ma la conclusione di Fei Fei Li, la giovanissima e talentuosa ricercatrice cino americana a cui si deve la capacità di riconoscimento facciale da parte degli algoritmi.
Diciamo una cittadina a pieno titolo della cybersfera che riconosce come proprio le relazioni digitali debbano essere civilizzate dalla contesa sociale.
La dialettica , sia professionale che politica, per l’innovazione digitale non è un valore etico o un presupposto ideologico, ma il motore mediante il quale procede la ricerca e si intrecciano sperimentazioni e intuizioni. Smorzare questa molla , come sta accadendo in questi anni, significa ridimensionare ritmo e portata dei fenomeni di sviluppo.
La nuova leadership americana affermatasi nelle ultime elezioni sembra muoversi in un senso completamente opposto.
La relazione fra potenza di calcolo e quella ruminazione incessante indotta proprio dal confronto e dalla contesa fra visioni diverse appare come il bersaglio su cui intende fare fuoco ad alzo zero la coppia Trump/Musk .
L’obbiettivo è quello di instaurare un capitalismo automatico, una forma di dominio economico-tecnologico che potrebbe farci rimpiangere non solo il liberalismo ma anche il liberismo.
Non si tratta più di imprimere una svolta reazionaria alla politica americana, e con essa a tutto l’occidente, come cercò di fare Trump durante il suo primo mandato. Oggi il tema è quello di eliminare come variabile nella governance la politica intesa , appunto, come pratica di concertazione.
E’ questa un’ambizione che nasce proprio agli albori delle tecniche digitali, quando l’aura libertaria ancora confondeva i primi utenti.
Uno dei pochi analisti che anticiparono questo epilogo nella società ditale, allora ai primi passi, dinanzi all’indifferenza delle forze progressiste,. Fu , a metà degli anni 60 Paul Viriliò, il filosofo della velocità, o meglio ancora, della dromologia. In un saggio intitolato esplicitamente La Bomba Informatica, che risale al 1996, scriveva : dietro la propaganda libertaria per una democrazia diretta, in grado di rinnovare la democrazia rappresentativa dei partiti politici, s’installa quindi l’ideologia di una democrazia automatica, in cui l’assenza di deliberazione sarebbe compensata da un automatismo sociale simile a quello del sondaggio di opinione o della rilevazione dell’audience televisiva”.
Siamo ancora alla preistoria delle rilevazioni induttive, quelle dell’auditel. Da lì a un decennio esploderà la bomba dei big data, e la profezia di Viriliò comincerà a realizzarsi nell’ambito commerciale e del marketing, dove prende forma una relazione diretta fra le nuove piattaforme ed ognuno dei milioni di utenti.
Oggi abbiamo fatto un nuovo salto, dal marketing alla costituzione degli stati. Dalla profilazione commerciale alle decisioni istituzionali.
L’incarico affidato dal neo presidente eletto al suo sponsor digitale è quello di semplificatore della burocrazia statale, riassunto con l’acronimo di “DOGE”( Departiment of Government Efficienty) apre proprio una fase di ristrutturazione dell’idea stessa di spazio pubblico.
La matrice di questa nuova visione della macchina statale, è esattamente quella concatenazione computazionale che dall’analisi dei dati estrae una decisione., Stiamo parlando del machine learning, di quella reazione artificiale che riproduce la sinapsi umane, in cui si instaura una relazione meccanica e inossidabile di causa ed effetto fra le informazioni raccolte e le conclusione elaborate.
Ovviamente, come sempre nell’allestimento di una struttura di mediazione e gestione politica, quale è la pubblica amministrazione, stiamo parlando di una forzatura che nasconde quel potere discrezionale e autoritario che anima appunto il motore calcolistico del sistema, ossia gli algoritmi.
Alla base di questo fenomeno politico , come scrivono nel loro saggio Il Nuovo Fuoco ( Bocconi University Press) Ben Buchanan e Andrew Imbrie è il fatto che “ i sistemi di apprendimento automatico si concentrano sui dati non sulle regole”.
Un vero sovvertimento copernicano in cui , nel funzionamento di un paese, contano i data base e non la costituzione.
La prima lezione che dobbiamo avere la forza di trarre da questa sonora sconfitta della cultura democratica è che non dobbiamo più avere paura della radicalità dei fatti, della loro evidenza, assolutamente discordante con le nostre teorie, e dobbiamo invece riconoscerne proprio la capacità di rovesciare le certezze che ci hanno sempre sostenuto, smettendo di mediarne e diluirne l’impatto sulla realtà.
I fatti sono implacabilmente estremi e come tali devono essere decifrati.
Il dominio sulla potenza di raccolta ed elaborazione dei dati sulla rappresentanza sociale è oggi uno di questi fatti che ci conferma come- lo scrive lucidamente David Runciman, direttore del dipartimento di Politica e studi internazionali di Cambridge, nel suo saggio “Come finisce la democrazia” (Bollati Boringhieri)
“le tecnologie digitali si sono insinuate non solo nei nostri comportamenti di consumo e nelle nostre relazioni sociali, ma anche nel funzionamento dei processi politici.Praticamente ovunque ,i partiti politici si affidano a data base automatizzati per gestire le loro campagne elettorali.I troll e i bot ,gruidati da hacker invisibili-straniei o del paese stesso-possono influenzare l’opinione pubblica e falsificare i risultati delle elezioni “
Sono cose che sappiamo ormai da 20 anni, e proprio Trump ha gia avuto modo di spiegarcele con il suo uso spregiudicato di Cambridge Analytica, eppure abbiamo continuato a rifiutare le conseguenze di queste dirompenti innovazioni, continuando ad usare la stessa cassetta degli attrezzi del secolo scorso.
Ora il problema non è ritornare al buon tempo antico ma avere la visione e ambizione di riprogrammare i sistemi generativi, i dispositivi di intelligenza artificiale per introdurre nella sequenza numerica pianificata proprio la variante di ambiguità costruttiva. Questo significa essere più tecnologici dei nostri avversari tecnologici, non meno.
In questo buco nero – il dualismo fra efficienza e partecipazione- è caduta l’intera cultura politica di sinistra, sia nella sua versione più radicale, che per lungo tempo ha del tutto ignorato la variabile dell’automatizzazione, pur avendola incontrata e elaborata per primi nella stagione dell’operaismo sociale, ai primi anni 60,e sia, come stiamo osservando adesso con la sconfitta clamorosa negli usa, la versione liberale e gradualista, che si trova del tutto spiantata dalla tradizionale base di consenso popolare da una destra populista che ne ha sostituito la narrazione e il sogno anti elitario.
Il motore di questa transizione, lo descrive nitidamente Helga Nowotny nel suo testo Le macchine di Dio (Luiss editore) “è la transizione evolutiva nella comparsa di nuovi modi di trasferire le informazioni , che si tratti della trasmissione del DNA alle proteine,dell’eredità cellulare,dell’epigenetica o della grammatica del linguaggio”.
Il passaggio di questo percorso dove ci siamo persi, dove abbiamo smarrito tutte le categorie analitiche e propositive, sentendoci estranei al presente è proprio quella transizione dalla produzione manifatturiera a quella immateriale, dove si produce valore, ci spiega Manuel Castells mediante lo scambio di simboli numerici.
Cosa per altro che avevamo afferrato, nella fase fordista, quando questo scambio avveniva in una dimensione materiale –la fabbrica- dove praticare una negoziazione del valore. Quando invece è cambiata la natura e forma delle transazioni numeriche che si sono smaterializzate abbiamo perso la bussola.
“La guerra è innanzitutto cospirazione prima che azione; la guerra è sempre un inganno»: ce lo dice il generale cinese Qiao Liang, con il suo saggio L’arco dell’impero del 2016. Oggi dovremmo aggiungere : una postilla: la guerra ormai è sempre cospirazione e inganno, che si realizzano mediante la riprogrammazione dei sistemi digitali.
Vince chi riprogramma ed adatta i sistemi di intelligenza artificiale. .
In pochi anni la socializzazione digitale dei conflitti ha spostato completamente il baricentro delle strategie, in cui il terrore dei bombardamenti è coadiuvante di una pianificazione mirata a eliminare l’intero gruppo di comando avversario, disorientandone ogni decisione di risposta. Gli uomini sono sempre più lontani dal teatro operativo. Cambia così il sistema valoriale e l’etica del combattimento. Ma mutano soprattutto l’ambito e la tipologia dei protagonisti.
Le sollevazioni che hanno investito l’intero pianeta fra il 2010 e 2012, come le primavere arabe e le rivoluzioni arancioni nei paesi dell’est, hanno fatto intendere quale fosse ormai la saldatura fra pace e guerra, fra politica e combattimento, fra geopolitica e tecnologia.
Il capo di stato maggiore Russo , Valery Gerasimov nel 2013introduce il concetto di Guerra Ibrida. Spiega l’alto ufficiale del kremlino che si combatte interferendo nel senso comune del paese avversario. Si saldano così le cospirazioni di pace e quelle di guerra in un unico spazio di reciproca e permanente condizionamento.
I diritti e le regole, come sostiene oggi Musk, sono sostituiti dai dati, dalla potenza di usare i dati.
Proprio la trasmigrazione di procedure e consuetudini, quali la profilazione commerciale da parte delle piattaforme come Amazon e Google, in quel nuovo spietato meccanismi di indentificazione del nemico, uno per uno, nella moltitudine avversa.
Lo aveva anticipato Grégoire Chamayou in Teoria del drone, in particolare quando dice che in «questo modello l’individuo nemico non è più concepito come un anello di una catena di comando gerarchico, ma è un “nodo” inserito in una rete» e «individuando i nodi chiave di una rete nemica si [può] annientarla disorganizzandola», e conclude: «In questa logica securitaria fondata sull’eliminazione preventiva degli individui pericolosi, la “guerra” assume la forma di enormi campagne di esecuzione extragiuridiche».
In questo spazio fra un diritto pubblico declinante e una potenza tecnologica che rende plausibile qualsiasi trasgressione- come ha predicato senza alcun imbarazzo Elon Musk nel corso della campagna elettorale per le presidenziali americane- due sono le classi dei nuovi combattenti: da un lato, il tessuto sociale che, mediante il collegamento in rete, raccoglie ed elabora dati in permanenza, rendendo così il terreno poroso e sensibile ad ogni movimento dell’avversario; dall’altro, i fornitori e titolari delle tecnologie digitali, degli algoritmi e delle intelligenze che rendono tollerabili e gestibili le funzioni di supporto alla guerra. Solo in pochi limitatissimi casi i due mondi si intrecciano, e Israele è uno di questi, mentre nella stragrande maggioranza, istituzioni politiche, popolazione civile e tycoon tecnologici sono una triade che si combina con logiche sempre diverse e spurie.
Ma è proprio la potenza di elaborazione di una grande massa di dati che rende plausibile automatizzare le funzioni più sensibili e delicate, quali la selezione e l’inquadramento del singolo avversario, la cui responsabilità e appartenenza è semplicemente calcolata.
Adottando questo principio il proprietario di Tesla e dell’ex Twitter, ora X, si appresta a mettere mano all’infrastruttura della pubblica amministrazione americana, ripensando le funzioni di base, quali la sanità, la scuola, i trasporti, in una logica di puro efficientamento, ma anche di controllo sociale.
Siamo nella nuova fase di quel capitalismo della sorveglianza di cui Shoshanna Zubof ci aveva offerto solo quello che si è ora rivelato come l’antipasto, la faccia più civile e mansueta, dove il controllo serviva solo ad intensificare i fatturati.
Ora invece siamo in uno stadio in cui il controllo, lo aveva gia anticipato Michel Foucault , diventa il fine ultimo dell’istituzione, proprio nella fase di massima accoglienza del cittadino in un ambito di servizi.
Quale stato, e dunque, ci chiedevamo, quale partito in questo scenario ?
E’ il tema che occuperà credo tutta un’intera, temo, lunga ansa dell’evoluzione della nostra specie.
IL nodo da sciogliere con una ambizione di sostituire una vecchia teoria con una nuova teoria, è quella di popolare questo ambiente antropologico che oggi vede ogni singolo individuo alle prese con meccanismi di coercizione e condizionamento del tutto inconsapevoli, da forme di conflitto e negozialità moderne.
Riprogrammare quella visione che ci arriva dalle viscere della cultura più aggressivamente reazionaria che Heidegger e lo stesso Schmitt avevano forgiato nel pieno dell’ondata totalitaria,m quando un’indistinta e asessuata tecnica, priva di ogni proprietà o finalità di potere secolarizzato, era usata per intimidire le masse che si volevano controllare.
Ora i proprietari di queste tecnologie ci stanno dicendo che la riforma dello stato, l’integrazione nei suoi meccanismi di capacità di calcolo e automatizzazione nella catalogazione dei dati debba comportare solo la semplificazione efficace di ogni singola procedura come unico orizzonte a cui ambire.
Rompere questo vortice che lega digitalizzazione-semplificazione-controllo sociale, innestando esperienze e procedure conflittuali, mediante soggetti sociali del tutto innovativi ed adeguati alle forme del dominio computazionale è la sfida che la sinistra deve riconoscere.
Chi oggi è in grado di contrapporsi a tali giganti dell’automazione? Le vecchie figure del lavoro, o del consumo o degli utenti dei servizi ? non credo proprio. Solo soggetti che contendono ai proprietari la produzione di valore e l’accumulo di dati, come ad esempio le grandi città, che trasferendo attività pubbliche in ambito privato- in questo consiste la smart city-permette la tesaurizzazione economica, il fatturato, e informazionale, i big data. Una città così come fu soggetto negoziale nei confronti della rendita speculativa fondiaria, inventando il piano regolatore, oggi può essere un agente di riprogrammazione dei sistemi intelligenti, bonificandone valori, etica e fini.Lo stesso sono le grandi categorie professionali, come i medfici per la sanità, i giornalisti per l’informazione, gli addetti alla P.A. per lo spazio pubblico. Oppure gli apparati della ricerca come le università, fondamentali nella reputazione di società, e imprenditori.
Il luogo dello scontro finale diventa lo stato. La sua riorganizzazione, la sua nuova geometria operativa e gestionale.
E’ lì che Elon Musk annuncia il suo attacco: omologare le procedure e relazioni istituzionali a quel concetto di inevitabilismo che guida le scelte aziendali. Si tratta di contrabbandare semplificazione con delega, personalizzazione con determinismo.
Oggi ritroviamo , nella scia della nuova presidenza Trump, ma soprattutto della spallata di Musk la sostituzione della complessità dei processi deliberativi con una linearita delle decisioni automatiche. Una metodologia che così riassume Jill Lepore, docente a Harvard nel saggio Queste verità (Feltrinelli), “raccogli i dati, scrivi il codice, identifica i modelli, targetizza gli annunci, prevedi i comportamenti, dirigi l’azione, incoraggia il consumo, influenza le elezioni “.
Lungo questa catena del valore digitale, potremmo dire, bisogna trovare ragioni e forza per introdurre contraddizioni. L’omologazione commerciale, il dominio oligarchico, l’asfissia culturale, l’ottusità dei diritti: sono punti su cui ricostruire un protagonismo sociale che però non può non basarsi sulla capacità di incrementare la potenza di decentramenti degli accessi ai sistemi di calcolo e l’autonomia nella loro programmazione.
Una resilienza rivoluzionaria, è il caso di dire, dove nuovi soggetti negoziali, come le città, o le categorie, o i centri di ricerca, contestino ai proprietari degli algoritmi titolo ed esclusiva per giocare a dadi con Dio come diceva Albert Einstein.
Michele Mezza
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