Ho letto quasi tutti i libri di Elena Ferrante e tutta la trilogia dell’amica geniale, con entusiasmo decrescente, ma con l’interesse tenuto vivo dalla qualità, elevata, della scrittura.
Una scrittura capace di rappresentare l’abiezione, il degrado, la violenza, senza essere abietta, degradata, violenta, generando la capacità non comune di rendere visibile la linea d’ombra che giace in ognuno e ognuna, senza additarla come mostruosa e, pertanto, collocabile altrove, al di fuori di noi, nelle lande desolate e disabitate dalla nostra razionalità e cultura. Nessun esorcismo possibile, ma dura presa d’atto, consapevolezza e, infine, tenace rifiuto della rassegnazione a un destino sempre in agguato. La vergogna come motore di crescita e trasformazione. Certo, la storia delle due amiche (cui alternativamente spetta l’aggettivo del titolo, non a caso) mi ha preso, anche per dato anagrafico e per la rappresentazione di sentimenti analoghi, uno per tutti l’estraneità umile con cui Elena Greco frequenta il mondo accademico, sprovvista di una “tradizione” da vantare e con cui lastricare la via del successo e del riconoscimento (qualcosa come chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato della canzone di Guccini) e che, nella realtà, rallenta, talvolta allo sfinimento, l’ascensore sociale.
E ancora, considero apprezzabile un altro aspetto della scrittura ferrantiana: la lingua, consapevole, ricca ma sobriamente spesa, esatta eppure creativa, come nell’intenso neologismo “smarginatura” per descrivere la perdita del confine tra sé e il mondo, il tempo, la realtà. E quel napoletano prevalentemente sintattico, quasi privo di lessico dialettale, è una soluzione geniale che restituisce la forza di una lingua situata e, troppo spesso, ridicolizzata da un’ortografia approssimativa dagli effetti avvilenti. Nei romanzi di Ferrante è, invece, limpida, ma non neutra, la grana del napoletano è percepibile e mantiene una sua riconoscibilità nella struttura senza l’inciampo di parole astruse per lettori e lettrici extra regionali.
Detto a margine, queste considerazioni tecniche, insieme con altre di natura biografica, mi hanno da tempo convinta di aver individuato in Anita Raja l’autrice impenetrabilmente nascosta dallo pseudonimo. Il motivo sta proprio nelle sue competenze di traduttrice (di Christa Wolf, non a caso), nella sensibilità linguistica affinata su una lingua altra, non romanza, distante, capace di articolare pensiero con desinenze, come anticamente il greco o il latino, e agglutinazioni. Lo studio e l’immersione letteraria in una lingua straniera inducono la riflessione rigenerativa sulla propria che, come nel caso in questione, può condurre a una forma espressiva originale. Che è quanto di meglio possiamo aspettarci da un romanzo, posto che tutto è già stato narrato.
E, infatti, quando L’amica geniale migra su un altro medium, diventa una piccola storia ignobile (per citare ancora Guccini). Senza l’architettura formale della composizione scrittoria, si tinge della banalità finzionale tipica del mezzo che il frequente ricorso alla voce narrante fuori campo non riesce a riscattare. Anzi, questo escamotage, indispensabile per non rinunciare del tutto alla potenza introspettiva propiziata nei libri, come dicevo, da una felice e incisiva combinazione di parole e dalla loro sequenza ritmica, nella riduzione televisiva sortisce un effetto didascalico fastidioso (oltre che stilisticamente dantan) che riduce ulteriormente la partecipazione interpretativa dello spettatore e della spettatrice.
Molto più efficace, nell’ultimo episodio (Storia della bambina perduta) in onda in questi giorni, è l’interpretazione di Alba Rohrwacher nel ruolo di Elena Greco. I silenzi, le espressioni esitanti e guardinghe, il controllo di sé e l’abbandono assomigliano molto a quelli del personaggio scritto, tanto quanto l’aspetto fisico dell’attrice, soggetto di declinazione ampia e non convenzionale di bellezza.
Iaia De Marco
Molto interessante Iaia il tuo articolo, in gran parte condivisibile e per me è un buon terreno fertile per ulteriori riflessioni soprattutto per chi, come me, ha fatto l’esperienza del lavoro all’università nella seconda parte degli anni ’70, qui a Napoli prima del terremoto dell’80, quando il lavoro teorico non era disgiunto da quello politico e dalla frequentazione di gruppi femministi o culturalmente in apparenza alternativi ma complementari seppur indipendenti al PCI. Io ho letto tutti i libri della Ferrante ( anche quelli precedenti al suo diventare famosa,) indimenticabile l’effetto che mi fece “L’Amore Molesto” ( che purtroppo non ho più) avvolgenti e con spazi inediti ad ulteriori riflessioni esistenziali e sociali con la singolarità narrativa che mi ” imponeva” la lettura senza troppo distanze temporali … ma poi mi sono fermata proprio con gli ultimi….percepivo l’agguato di nuova moda di mediocre qualità. Lunedì sera ho visto la fiction attuale perché ammalata e con difficoltà a leggere: non mi è piaciuta. Della serie precedente ho apprezzato solo la prima puntata. Purtroppo mi convinco sempre più che la trasposizione di testi complessi in fiction è fortemente riduttiva in qualità, bellezza e phatos…🌹