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Probabilmente l’hegeliana astuzia della ragione ha fatto coincidere a Napoli, nello scorso fine settimana, la mostra delle installazioni luminose di Franz Cerami, nell’area dell’ex Italsider di Bagnoli, con il seminario della rivista “Infiniti mondi”, diretta da Gianfranco Nappi, sulle forme di organizzazione e promozione della cultura nel capitalismo automatico. Lo snodo attorno a cui i due eventi, apparentemente così lontani, si incontrano in un abbraccio, è costituito da quel cratere ancora non colmato, scavato nell’immaginario politico della sinistra dallo sfarinamento del tessuto industriale partenopeo.

A Bagnoli va in scena una suggestiva rivisitazione dello spazio della fabbrica, che da luogo di produzione, e sfruttamento, non solo di chi ci lavorava, ma – come si vede proprio all’interno di quel perimetro – delle migliaia di persone che abitavano attorno a quelle infernali linee di fusione dell’acciaio, diventa oggi una creativa fornace di forme e racconti che interrogano la città sul modo di usare quel magnifico tratto di costa che langue nel nulla da quarant’anni.

Attorno a questo microcosmo, che Cerami illumina e plasma con le sue fantasmagoriche luci, ballano i fantasmi di una sinistra che, non avendo ancora rielaborato il lutto della perdita di quello scenario su cui aveva primeggiato, rimane nel classico guado gramsciano, dove il vecchio è morto ma il nuovo non è ancora nato. In realtà, il nuovo non solo è nato ma sta diventando a sua volta maturo, come l’intera digitalizzazione del pianeta ci dice. Allora: come risintonizzare un’idea, se non di rivoluzione, almeno di contrasto alla deriva speculativa e opprimente che i monopoli digitali stanno imponendo all’umanità? Come essere di sinistra e come fare partito nella società dell’intelligenza artificiale?

“Infiniti mondi” è una rivista che prende il suo titolo dai primi studi su Giordano Bruno del suo gruppo fondatore, in gran parte originario di quella Nola che diede i natali al frate ribelle, e che da quasi dieci anni sta connettendo, con fatica e tenacia, memorie e progettualità, passato e futuro, in un’area dove entrambe queste dimensioni sembrano in disuso – come appunto i resti dell’acciaieria di Bagnoli. E questo è stato uno spartitraffico attorno a cui è ruotato il dibattito: la nostra identità è essenzialmente legata a quanto ricordiamo, come ha detto, nel suo circostanziato intervento, lo storico Gianni Cerchia? Oppure è quanto scegliamo di dimenticare programmaticamente, come – forzando il carattere dialettico di una contrapposizione che proprio Cerchia ha spiegato che non esiste – hanno sostenuto altri interventi, richiamandosi a un oggi caratterizzato dall’abbondanza dell’informazione e dall’invasione del passato da parte del presente?

Il nodo della discussione, quanto mai centrale per una sinistra che riprenda cittadinanza nel presente, è quello di capire se lo shock digitale imponga, strappando ogni linearità epistemologica, di concentrarci prevalentemente sulle forme di un potere che specula proprio sulla velocità dei suoi cambiamenti, oppure se non sia comunque vitale recuperare la coscienza delle radici. Se questo dualismo è rilevante per una riflessione politica, e per una rivista che vive di scelte culturali, diventa drammaticamente indispensabile rispondere alla domanda: come giocare il piccolo capitale di attenzione conquistato? Seguire il vorticoso processo di destrutturazione di ogni certezza pregressa, cogliendone la tendenza e producendo formazione? Oppure riproporre una costante declinazione delle esperienze passate per ancorare ogni svolta a un filone storico che rischia di essere del tutto rimosso? Ancora più brutalmente: sono ancora utili le testimonianze di un passato che è stata la premessa dell’attuale sconfitta? Oppure proprio il giudizio critico su quel passato ci deve portare a rovesciare il senso di marcia e i criteri di decisione che hanno guidato i giganti che abbiamo alle spalle?

Questo cantiere tematico non si è certo esaurito nella due giorni di Napoli, e costituirà una delle piste di approfondimento che “Infiniti mondi” seguirà con la sua programmazione editoriale, a partire dal lancio, nei prossimi mesi, di una rivista di filosofia digitale, potremmo dire, la cui testata è “Filosofia.0”, che proporrà un altro punto di attacco a queste tematiche, che riguarda proprio quella interconnessione con la struttura e organizzazione del pensiero, mediato com’è oggi dalle protesi tecnologiche che ne modificano la forma e l’autonomia.

Premessa ed epilogo di un tale approccio organico, è stato l’incontro del giorno prima con Rita Di Leo. Da mesi “Infiniti mondi” ha lavorato su un tratto del dibattito storico della sinistra ancora trascurato, se non esorcizzato: quello dell’operaismo italiano dei primi anni Sessanta, dominato dalle figure, da una parte, di Mario Tronti, celebrato nume tutelare di una criticità che si raccorda poi alla tradizione comunista attraverso l’elaborazione del concetto di “autonomia del politico”, che tanta parte ha avuto nel declino della rappresentatività dei partiti operai; dall’altra, il luciferino filone dell’autonomia operaia di Toni Negri, che prima di tutti intuisce la disgregazione valoriale, più ancora che materiale, della centralità della fabbrica nel conflitto sociale. Il ragionamento condotto con Di Leo ha arricchito questa ricerca, centrando uno dei punti critici su cui si sono sventagliate le posizioni: quale capitalismo sta dominando il pianeta? E quale modo di fare partito è plausibile in questa fase?

Con grande lucidità, Di Leo ha ribadito uno dei cardini della posizione che Mario Tronti esemplificava con l’aforisma secondo cui oggi “la politica è più mistica che matematica”. Intendendo che proprio l’analisi dell’attuale marca di capitalismo fa capire come si sia dinanzi a una preponderante e inaudita esibizione di potenze, in cui la divinizzazione del denaro ha scelto la tecnologia come strumento e forma di un dominio che non ammette attriti. In questa morsa, fra potenza finanziaria e potenza di calcolo, ha spiegato Di Leo, il popolo-plebe è solo puro oggetto di una nuova disciplina globale imposta dall’algoritmo, che consente esecuzioni di istruzioni, ma non certo contrasto e contesa sul cuore del sistema, come invece il secolo scorso aveva visto nel conflitto al centro del fordismo fra capitale e lavoro. Una visione che non lascia sbocchi a una storia intesa come flusso di contrasti sociali, e non come applicazioni di poteri di apparati. Altri interventi – a segnalare come la platea costruita da “Infiniti mondi” abbia eccitato ricerche ed elaborazioni composite – hanno contestato la concezione di una svolta della politica, appunto mistica, che sarebbe addomesticata da una divinità che non ammette eresie.

L’automazione delle decisioni, come si riduce in ultima analisi a essere il processo di digitalizzazione, è la proiezione di quello scambio numerico individuato fin dai primi anni Sessanta dalla comunità (di cui la giovanissima Di Leo fu protagonista) di “Quaderni rossi”, che, soprattutto con la ricerca di Romano Alquati sul lavoro operaio all’Olivetti, focalizzò la prima istantanea su quella strategia di smaterializzazione del lavoro manuale che il capitalismo ideò per aggirare il conflitto produttivo. Vennero da lì le sconfitte delle lotte, e non certo le congiure epocali, che scombussolarono le relazioni sociali. Arrivando così fino a oggi, un tempo in cui la fragilità di un sistema che, per quanto animato da giganteschi poteri, come ha spiegato l’ultimo Negri, si trova comunque costretto a basarsi su forme di complicità sociale (dai big data ai modelli di open source e al decentramento delle tecniche) che offrono spazi e occasioni di negoziazione.

Sono dualismi, questi, che di per sé indicano come la storia, intesa ancora come lotta di classe, si evolva ma non si spenga. Come recitava un vecchio murale a Milano, tanti anni fa, “le nostre sconfitte non sono il frutto delle prevaricazioni degli avversari, ma di troppe discussioni mai fatte”. A Napoli “Infiniti mondi” ha avviato una di queste. Ora l’impegno è di proseguirla estendendola.

Michele Mezza

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