Domenica scorsa ho letto sul Corriere, con molto interesse e qualche riflessione indotta, un articolo di Veltroni che tocca vari argomenti di attualità politica, interna ed internazionale, largamente condivisibile. In particolare, mi sembra molto giusto, nel criticare la posizione sbagliata dell’attuale maggioranza, dire che in tema di riforme costituzionali “il metodo diventa sostanza” e che “la Costituzione non si riforma a colpi di maggioranza”. E ciò, a maggior ragione, perchè il tema della riforma Meloni non riguarda e non è riducibile, come sembra ritenere Veltroni, all’ambito ”dei poteri di decisione del Governo e di quelli di controllo del Parlamento”, ma è una riscrittura radicale della Forma dello Stato, prevista dalla Costituzione del 48.

Tale “riforma”, infatti, sostituisce al sistema di Governo Parlamentare un sistema plebiscitario nel quale il Parlamento, eletto insieme al capo del Governo “investito” in modo, appunto, plebiscitario, non ha più alcuna autonomia, in contrasto radicale con il principio di distinzione e separazione dei poteri. Questo non ha eguali nelle democrazie più avanzate del mondo e nemmeno nelle democrazie presidenziali. In Francia infatti vige un regime semipresidenziale in cui il capo dello Stato viene eletto in modo distinto dal Parlamento, tanto che sono possibili maggioranze parlamentari diverse da quella che elegge direttamente il Presidente ed in questo caso si parla di coabitazione fra i due livelli istituzionali. Negli USA, poi, il Presidente non viene eletto dal voto popolare che elegge Deputati e Senatori, ma dalle due Camere (Congresso e Senato) e, questo, per decisione dei Costituenti Americani al fine di evitare il rischio di “Una Monarchia Repubblicana”. Va inoltre considerato che il Senato degli USA composto di 100 membri è eletto in base al principio che ogni Stato elegge 2 Senatori a prescindere dal numero di abitanti e che ogni 2 anni il Parlamento si rinnova con le elezioni di medio termine. Sono dunque presenti una serie di PESI e CONTRAPPESI che servono ad impedire il predominio di un potere istituzionale sull’altro e ciò in modo immutato fin dal 1787.


La mia riflessione critica sulle considerazioni di Veltroni nasce, invece, dal fatto che la prima grande e dirompente riforma costituzionale,
l’improvvido Titolo V, è stata varata da una nostra maggioranza, che è stata tale, per soli 5 voti, nel 2001. Sarebbe stato opportuno che Veltroni, dati i ruoli di grande responsabilità ricoperti, in quella fase, nel Governo e alla direzione del partito, ne avesse fatto, in qualche modo, cenno. Ciò, non solo per ricostruire in chiave autocritica alcuni passaggi cruciali della vicenda politica e parlamentare del partito democratico nella sua evoluzione, ma per sancire, in modo ancora più forte, quali sono i “punti di principio” che non possono essere scavalcati nella battaglia politica dell’oggi, da parte del PD, e quali sono stati i limiti culturali e politici del percorso che ha portato alla formazione del Partito Democratico. Non possiamo ignorare, infatti, che fin dall’inizio degli anni novanta c’è stata da parte nostra una forte spinta alla verticalizzazione delle istituzioni (Sindaci,Presidenti,),verso un sistema bipolare o bipartitico, abolizione del finanziamento pubblico ecc. che hanno comportato conseguenze negative dirette sul ruolo dei partiti e quindi anche sulla qualità della nostra democrazia visibili, tra l’altro, nell’elevato livello di astensionismo e nel proliferare di liste e partiti personali. Tutto ciò, che ha fatto parte del nostro bagaglio politico e culturale, esposto in modo chiaro nel discorso di fondazione del PD al Lingotto nel 2007 e nel programma del 2008, andrebbe sottoposto ad una severa valutazione alla luce degli approdi attuali, dal momento che di questo si è avvantaggiata la destra nella sua varia articolazione mostrando di trovarsi pienamente a suo agio. Su questo terreno, sia pure prevalentemente sul piano delle politiche economiche nazionali ed europee, (il che non è poco!), una coraggiosa riflessione, anche in chiave autocritica, è stata compiuta da Romano Prodi nel suo saggio del 2017 ”Il piano inclinato” e da Giuliano Amato con una importante intervista al Corriere nello stesso anno. Da parte nostra, e cioè di chi più direttamente discende dalla Storia del PCI e del Cattolicesimo Politico in senso ampio (DC,PPI, asinello, margherita ecc.) non è venuto un grande contributo, che sarebbe invece necessario anche per l’attuale gruppo dirigente del PD e della sinistra nella sua complessità.

Questa riflessione di ampio respiro mi sembra fondamentale alla luce dei grandi e rischiosi mutamenti, in Europa e nel mondo, rispetto ai quali, il socialismo europeo mostra profondi segni di inadeguatezza caratterizzati da un pensiero acritico su molti punti della agenda nazionale ed internazionale, non ultimo il tema della guerra e della Sicurezza Europea. Il declino della socialdemocrazia tedesca è l’aspetto più vistoso e drammatico di questa crisi ma non è l’unico in Europa e nel mondo perché anche il pensiero democratico americano sembra adagiarsi, in questa fase, sulla Dottrina Conservatrice di John Foster Dulles (Roll Back,anni 50) a proposito di NATO e sicurezza internazionale. Tale riflessione è più che mai urgente al fine di costruire una visione coerente di politica interna ed estera del PD e della sinistra, il cui risultato elettorale incoraggia ed impegna in modo stringente.
Arturo Marzano



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