La costanza con cui Nando Morra torna, dalla città vesuviana dove egli vive, a parlare del Mezzogiorno, delle sue vecchie e nuove problematiche, non sorprende più nessuno, neppure chi come me vive lontano dai Campi Flegrei e ben al disotto degli Alburni, le alture care a Leonardo Sinisgalli, il poeta matematico lucano che costruiva versi con i numeri nella testa.
L’arguto discorso con cui Morra scandaglia le controverse questioni che hanno animato – spesso causando profonde lacerazioni e distingui esasperati – il dibattito politico e culturale, in Italia, a partire dai primi albori della Repubblica, circonda il tumultuoso cammino che c’è stato per il raggiungimento dei più elementari riconoscimenti in favore delle classi più bisognose.
Nucleo centrale dello scritto il rapporto PCI–Carlo Levi, scontro che peserà lungamente nel processo politico e culturale che si andava formando a partire proprio dalle lotte per la terra.
Parte da qui la sua fertile analisi, da quella accesa polemica che servì solo a rafforzare la conservazione.
Nando prende le mosse, per il suo ragionamento, muovendo dalle infondate ragioni di quella contrapposizione che altro non fece se non dividere ulteriormente il fronte della sinistra. Ci volle quasi un decennio per risanare quella ferita: nel 1963 Levi arriva in parlamento portato, come indipendente, dal PCI. Misurato, lontano dallo stereotipo che vuole il napoletano maestro dell’ammuina, Morra non dismette, con la passione che lo contraddistingue, di interrogarsi su cosa impedisce al Sud di diventare una regione veramente moderna, parte attiva di una nazione forte e coesa.
Poco incline a considerare gli accidenti frutti della casualità, Morra cerca nelle scelte sbagliate le cause dell’arretramento delle regioni meridionali.
Lo scontro di visioni, del quale egli parla, tra politica e cultura, ha generato la convinzione nella politica di poter bastare da sola. Questa idea, nel tempo, non ha conosciuto confini. In Basilicata, ma non solo, la sinistra, da quella moderata alla più radicale, ha cominciato a nutrire, se non proprio disprezzo, fastidio per chiunque suggerisse una più responsabile e attenta lettura per quanto si andava manifestando sotto il cielo.
E’ accaduto che ognuna delle forze politiche in giuoco si è ritagliato un proprio campo a spese di una più generale interpretazione del ruolo storico da affermare: rinnovare la società meridionale e con essa il Paese.
Il risultato è ciò che vediamo, ciò che sentiamo: un arretramento diffuso e minaccioso del Mezzogiorno.
Per Morra, unire il presente al passato non è un esercizio di maniera, il diletto del collezionista di incunaboli, ma la via che permette di vedere tutto più chiaro, di vedere come le ombre dei vecchi “galantuomini” non si sono mai liquefatte, si sono solo trasferite sulle facce ben curate dei nuovi padroni, per perpetuarne la continuità, il carattere.
Morra coglie questi segni anche sui volti meno sospettabili di chi fa politica oggi: un personale incolto e pretenzioso capace di qualsiasi diavoleria pur di arrivare, pur di rimanere. A cancellare quanto di buono aveva costruito con grande fatica il Partito Comunista nel Mezzogiorno ci pensa la generazione dei giovani di Valle Giulia. Approdano nelle file del Partito con il loro carico di odio e disprezzo, eredità del qualunquismo e dell’accidia. Nuovi arrivi nel PC di Basilicata, giungono dalle fabbriche dismesse (le famose cattedrali nel deserto) della valle del Basento. Tutti, scolarizzati e non, hanno in comune i baffetti brindisini (Pasolini), e nessun interesse per lo studio, nessuna curiosità intellettuale; ciò che li anima, che li rende inquieti è la febbre per la carriera.
Questa nuova presenza nella vita delle sezioni determinerà l’allontanamento del Partito dai problemi reali della gente. Ne sa qualcosa Umberto Ranieri che dal ’75 all’80 guiderà i comunisti di Basilicata. Ricordo la sua mitezza e l’invito a rimanere dentro le questioni che in quegli anni gravavano sulla regione e nel Paese.
Per meglio comprendere il Mezzogiorno di oggi, in questo suo memoriale, Morra non esita a chiamare in soccorso Carlo Levi e, per ciò che riguarda la politica, Antonio Gramsci. Nando coglie nella lezione del grande politico del Novecento il superamento delle utopie (non avevano fatto fare nessun progresso al mondo del lavoro, nè assicurato qualche giovamento alle masse contadine e bracciantili). Merito di Gramsci, per Morra, è stato quello di aver riempito la politica, dopo averla liberata dalle astrazioni, di concretezza. Parola sconosciuta alla moderna politica, chiederne il recupero, anche solo parziale, è pretendere troppo…
Nicola Filazzola


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