Le donne, gli anziani, i ragazzi e i bambini bruciati vivi o sgozzati nel kibbutz di Kfar Aza non possono che suscitare orrore ed esecrazione in chiunque conservi un barlume di umanità. E non può che essere totale la solidarietà per chi è stato portato via a forza, e torturato, e violentato e ridotto a merce di scambio, ad arma di ricatto; e non può non essere partecipe del dramma di chi, madre padre, fratello, sorella, compagno/a vive un’angoscia senza fine e senza consolazione dal biblico “dente per dente”
Ma abbiamo il dovere, di capire, premessa al tentativo di cercare una qualche strada che aiuti due popoli ad uscire dalla logica di una guerra “fratricida”.
Siamo di fronte ad un nuovo 11 settembre, ad un episodio dello scontro di civiltà tra l’integralismo islamico e Occidente, di cui Israele sarebbe la casamatta in Medio Oriente? E’ una tesi risibile, che tenta di cancellare una “questione”, originale ed autonoma, che è quella palestinese, irrisolta dal 1948, di espellere dalla politica internazionale il dramma di un popolo, reso capro espiatorio, scaricandogli addosso il senso di colpa per la Shoà dei non innocenti “occidentali”, tedeschi certo, ma anche italiani, francesi, ungheresi, ucraini, croati, slovacchi, sloveni, rumeni.
Dobbiamo, allora, respingere la vulgata di cui si è fatta campione -pensate!- una destra erede dei Pavolini e dei Preziosi, dei “collaborazionisti” repubblichini corresponsabili del massacro ebraico. Se ci poniamo domande, anche se qui passiamo per isolati, siamo in buona compagnia, con la parte migliore del mondo israeliano e di quello arabo e siamo altresì nel solco della migliore politica della “prima Repubblica”.
Vediamo: innanzitutto,
1) Perché ora? Le cose non avvengono per caso. Una azione militare così complessa, non viene decisa a cuor leggero, quando non si può non essere consapevoli che essa metta a rischio di distruzione l’intera struttura militare e la perdita di ogni “presa” sulla Striscia di Gaza. Non li ha mossi un’esplosione di fanatismo o perché “marionette” mosse dal “grande Satana” iraniano. La scelta di Hamas è stata politica, e come tale, per quanto aberranti siano le sue modalità, va giudicata. La ripresa della guerra, perché di questo si tratta, il suo primario obiettivo lo ha forse conseguito: impedire gli “accordi di Abramo”. Servivano a “normalizzare” i rapporti tra i Paesi arabi ed Israele, e, per la grancassa propagandistica “occidentalistica” erano la via maestra per pacificare il Medio Oriente, atto conclusivo di una strategia avviata a Camp David nel 1978 con la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Egitto e poi con il trattato di pace tra Israele e Giordania. Ma, guardando le cose con occhi palestinesi, è solo l’ultimo atto di una strategia finalizzata ad isolarli, a metterli ai margini, di ridurli a problema minimale e residuale da “assorbire” attraverso il mantenimento della occupazione israeliana, illegale per la comunità internazionale, (di fatto una effettiva annessione), la “colonizzazione” della Cisgiordania e una conseguente ulteriore espulsione di palestinesi o una integrazione come cittadini di serie b, in Israele. E come non condividere, alla luce delle scelte di Tel Aviv (la colonizzazione, lo statuto di Gerusalemme …) che hanno affossato il di per sé difficile percorso definito ad Oslo, di superare l’illegittimo regime di occupazione dal 1967, avendo sullo sfondo una soluzione definitiva, quella di “due popoli, due stati”?
2) L’attacco di Hamas è un atto di terrorismo o un atto di guerra? Che l’attacco di Hamas sia un atto di terrorismo è lapalissiano. Ma è anche atto della guerra infinita che insanguina la Palestina da ben prima dello stesso 1948. Facciamo un passo indietro. L’avvento del nazismo al potere accentua il trasferimento ebraico in Palestina. Con la complicità dei ceti agrari arabi, felici di intascare il denaro degli ebrei in cambio di terre avare, si accelera la spoliazione dei contadini palestinesi. Una cessione di proprietà è vissuta dalla comunità ebraica come cessione di sovranità, l’acquisizione ad uno Stato che non esiste di pezzi di territorio. E’ qui l’origine della “questione palestinese”. La esacerbano, negli anni trenta e quaranta, le contraddizioni della Gran Bretagna, incerta tra il rispetto di un impegno che non aveva legittimità ad assumere, la dichiarazione Balfour del 1917 (“Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo …”) e il suo rapporto col nascente nazionalismo arabo. Il terrorismo vi alligna presto. Ma non è peculiarità araba. Se sparuti gruppi, eccitati dal gran Muftì di Gerusalemme sono responsabili di attacchi singoli con il chiaro intento di “terrorizzare” i coloni ebrei, dal versante opposto non sono marginali le forze che mettono in piedi un “terrore” sistematico per costringere inermi popolazioni arabe ad abbandonare le loro case, la loro terra. L’Occidente ha la memoria corta. Le radici dello Stato d’Israele sono biforcute. Un ramo, quello più importante, di ispirazione “democratica”, pone le basi dell’Haganà, in nuce, l’esercito nazionale ebraico che, con la guerra del 1948, porta al consolidamento dell’appena nato, per legittima risoluzione dell’Onu, Stato di Israele, laico, democratico, a guida laburista. Ma c’è un secondo ramo, che oggi si tende ad occultare, quello dei terroristi dell’Irgun e della banda Stern. Una frangia marginale senza peso sulla formazione dello Stato ebraico? Tutt’altro. I due gruppi terroristi sono l’humus da cui origina il Likud, il partito che è il padre della destra oggi, e da tempo, culturalmente e politicamente egemone. A questi gruppi terroristici hanno appartenuto due primi ministri, Yitzhak Shamir e Menachem Begin, con ruoli non di secondo piano. Shamir, addirittura della famigerata della banda Stern, un gruppo di sanguinari tanto accecati dal loro nazionalismo dal proporre d’intervenire a fianco di Hitler nella guerra mondiale pur di scacciare gli arabi dalla Palestina ed erigervi uno stato ebraico “compatibile” con il “nuovo ordine” nazista. E, se questo non basta, occorre ricordare agli immemori che il processo di pace è stato interrotto da un atto terroristico, l’uccisione di Yitzhak Rabin, premier israeliano stroncato non dalla mano omicida di un terrorista palestinese, ma da quella di un integralista ebraico. Ma al di là della storia… Il terrorismo è uso non convenzionale della violenza con atti che non distinguono i civili inermi dai militari combattenti per ottenere, con il terrore, un effetto “militare”. A me pare difficile distinguere il terrorismo delle milizie palestinesi dai lunghi anni dal 1948 ad ieri da un comportamento, eguale e contrario degli israeliani, attraverso bombardamenti indiscriminati su ospedali, scuole, acquedotti, elettrodotti, depositi di cibo, il massacro di chiunque sia trovato, anche se non armato, dentro una zona di operazioni, “omicidi mirati” da parte del Mossad di “resistenti”, talora presunti, sino all’arresto indiscriminato dei loro familiari e l’abbattimento delle loro case e oggi, bloccando le frontiere per imprigionare sotto i bombardamenti la popolazione civile… Forse quando questi atti “di guerra” avvengono attraverso strumenti tecnologici avanzati che tengono lontano chi preme il bottone dai corpi dilaniati di donne, bambini, anziani, malati, uomini inermi, cambia il carattere dell’atto? Io non lo credo, come non considero che le rappresaglie delle truppe naziste per ritorsione ad attacchi di “irregolari” fossero atti legittimi di guerra e non azione di mero terrorismo (come peraltro hanno riconosciuto le sentenze, anche italiane, contro i “boia” nazisti). Il punto, allora è affermare con forza il rifiuto di ogni terrorismo, di quello palestinese e di quello israeliano, come quello russo in Ucraina e quello degli ucraini a danno delle popolazioni russofone.
3) Ma se il terrorismo attuale è un effetto, quale ne è la causa? Il terrorismo nel movimento di resistenza palestinese ne è, all’origine, una componente minoritaria. Non va sottaciuto comunque che un filone terroristico, essenzialmente ispirato dal filo-nazista Gran Muftì di Gerusalemme, sia stato presente sin dalle origini. Né va sottaciuto che, soprattutto con il FLP, è presente in tutta la storia della resistenza palestinese. Ma era largamente minoritario, marginale, rispetto al ruolo egemone di Al-Fatah, organizzazione laica, di ispirazione socialista, guidata sino alla sua morte da Yasser Arafat. La domanda è, allora, perché è avvenuto un così poderoso spostamento di consenso dei palestinesi politicamente attivi verso Hamas, verso cioè una organizzazione permeata di integralismo islamico e che fa del terrorismo l’unica forma di lotta militare? C’è un parallelismo che colpisce, tra Ucraina e Palestina: le radici delle guerre attuali affondano entrambe nel fallimento di un percorso di pace, la mancata attuazione degli accordi di Minsk in Europa e l’interruzione del percorso avviato a Oslo per il Medio Oriente. Insomma una politica che sceglie l’abbandono della negoziazione come strada obbligata per regolare rapporti tra popoli diversi che vivono lo stesso territorio porta ad una deriva nazionalista, xenofoba, apre alla guerra e che questa, assume con facilità i caratteri di una guerra terroristica per tutte le parti in campo. Scavare sulle responsabilità con una critica scevra da posizioni preconcette è la pre-condizione, per l’opinione pubblica internazionale, per sviluppare un ruolo vero, isolando le posizioni estremistiche, per riavviare un difficile rapporto di pace fondato sul reciproco riconoscimento delle ragioni dell’altro.
4) Una condizione senza sbocco? L’attacco di Hamas, per una sorta di eterogenesi dei fini, senza che questo possa modificare il giudizio morale esposto in premessa, è però, incredibile a dirsi, una straordinaria opportunità. Se indulgiamo nell’idea errata dello scontro di civiltà, tra un modello di arretratezza medievale della cultura araba e mussulmana in genere, contrapposto ad un modello superiore, e perciò “esportabile” anche sulla punta delle baionette della cultura occidentale, è facile vedere ove si andrà a sbattere. Stanno là ad indicarlo l’Afganistan come la Libia, l’Iraq come la Siria. E si andrà approfondendo il solco tra il cosiddetto Occidente e stati e popoli che rifiutano l’incasellamento della storia contemporanea in questa narrazione… I cittadini di Israele rivendicano legittimamente il diritto alla sicurezza. I suoi governanti di destra hanno cercato di assicuragliela con l’occupazione, con la violenza sistematica, i bombardamenti, le distruzioni degli abitati, l’assedio sistematico, la prevaricazione a danno degli arabi e con il rifiuto assoluto di riconoscere le ragioni palestinesi. Ed è grande la responsabilità dei cosiddetti “paesi amici” di aver sostenuto la destra israeliana in questo percorso. Per questa via la “sicurezza” si è convertita nelle stragi e nella violenza di oggi. Mai, dal 1973 ad oggi, i cittadini di Israele sono stati meno sicuri … In Israele si sta aprendo una riflessione. In mano a quel popolo c’è una scelta: la guerra permanente o il percorrere con coraggio la strada della coabitazione paritaria con gli arabi. La prima strada si dimostra inefficace. Ogni bomba israeliana creerà una buca ove crescerà la pianta dell’odio. Se davvero Israele è quel paese civile, “occidentale”, quale lo si vuol presentare, non può più esimersi dai passi che una civiltà “occidentale” richiede: riconoscere nei palestinesi un interlocutore “paritario” e farci gli accordi possibili che Oslo lasciava intravedere. Il terrorismo ebraico quella strada l’aveva chiusa; il terrorismo palestinese potrebbe, paradossalmente averla riaperta così condannandosi alla sconfitta. Qui, c’è un ruolo da svolgere per l’Europa, per chiunque sente di essere portatore dei valori veri connessi alla identità dell’Europa d’occidente.
Lucio Fierro