Un cordoglio così largo per la scomparsa di Giorgio Napolitano, pur prescindendo da quanto vi può essere di circostanza, è il riconoscimento del ruolo assolto nella storia italiana per quasi ottant’anni. Egli, a buon titolo, appartiene al meglio di quella generazione di uomini politici che, raccogliendo il testimone dai padri costituenti, ha costruito la Repubblica democratica su basi salde guidando il Paese in una straordinaria trasformazione. Uomini che non sono riconducibili ad un cliché comune; ma di certo un minimo denominatore comune è stata la consapevolezza avuta di quanto la realtà sia complessa, poco comprimibile in schemi precostituiti. Eppure erano figli di una politica permeata di ideologia… E se la complessità è stata la “cifra” del loro rapporto con la realtà, caratterizzato dal rifiuto della schematizzazione, della semplificazione, del “bianco” e “nero”, è difficile accettare che riflettendo su di loro si possa cadere nello schematismo di giudizi semplificatori, in positivo come in negativo. Credo sarebbe fare loro un torto non sottoporre il loro agire politico ad una valutazione critica che si sforzi di cogliere esattamente la “complessità” del loro operare valutando gli effetti che ne sono derivati, a prescindere dalle intenzioni che li avevano mossi. E’ questo, a mio modestissimo parere, uno sforzo che siamo chiamati a fare, anche nella commozione del ricordo, nel dolore per la perdita.
Napolitano è stato un comunista e, condivido, un comunista “anomalo”.

Credo avesse percepito da tempo i limiti del comunismo “realizzato” e che, per tempo, si fosse posto il problema di uscire dalla tradizione terzo-internazionalista, ritenendo che l’approdo obbligato fosse la ricomposizione delle strade divaricate dei comunisti occidentali e delle socialdemocrazie europee. Tale approccio è stato del tutto legittimo, condivisibile o meno. Personalmente non l’ho condiviso e continuo a ritenere che la strada da lui proposta, per i tempi, le modalità e soprattutto per i contenuti, fosse sbagliata, che non tenesse nel debito conto proprio la complessità del PCI, “partito-giraffa”, strano eppur reale, ben lontano dai caratteri di tutti gli altri partiti comunisti eppure saldamente incardinato nella aspirazione ad “andare oltre” il capitalismo “realizzato” e non semplicemente di “migliorarlo”. Avverto -ma forse sbaglio- che l’elezione di Berlinguer a Segretario sia stata per lui un punto di svolta, in cui si accentua la divaricazione con il “comune sentire” della stragrande maggioranza dei militanti comunisti che in qualche modo -ma forse continuo a sbagliare- ne determina una sorta di progressiva deriva, oserei dire, “moderata”, che lo avvicina sempre di più alle correnti che nella socialdemocrazia europea più marcatamente intendono tagliare le antiche radici sostituendole con l’ambizione riduttiva di governare gli aspetti deteriori della “modernità” ma standovi dentro, introitandone al fondo i valori di base.

Donne e uomini della Federazione napoletana del PCI: 1950. Primo da destra Giorgio Napolitano e poi anche si riconoscono , Chiaromonte, Formiggini, Mola, Alinovi, TinaD Avenio.

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Ma qui mi taccio, perché di ben maggiore interesse appare un percorso del tutto originale che Napolitano intraprende, quello di uomo delle istituzioni, di uomo di Stato, di statista (Presidente del gruppo del PCI alla Camera dei deputati nel 1986, Parlamentare europeo dal 1989 al 2004, Ministro degli Interni nel 1989 con Prodi, poi Presidente della Camera nel 2005 ed infine Presidente della Repubblica nel 2006 e, primo ad essere rieletto, nel 2013). Ed è in quest’ultimo ruolo che grandeggia la sua capacità e originalità: uomo di governo pur non essendo investito di responsabilità di governo. Uomo di governo perché coartato da un’emergenza che non vedeva protagonisti in grado di assumersene la responsabilità o un Presidente “interventista” oltre il senso dei poteri costituzionali come concepiti dalla Carta? E’, a mio avviso, una questione aperta in sede storica, ma di non grande interesse rispetto al giudizio politico.
Se Napolitano opera da “uomo di governo”, da guida reale del Paese, prescindendo dal se si sia collocato al di qua o al di là delle funzioni costituzionali, impone un giudizio di merito, tutto politico, su cosa questo “interventismo” abbia determinato, quali effetti abbia avuto sulla vicenda politica italiana.
Vediamo i passaggi.
2011: L’esperienza di governo di Berlusconi giunge al capolinea. L’economia è allo sfascio come l’immagine del leader di Forza Italia. Napolitano affida l’incarico a Mario Monti, ma non per un “governo del Presidente” che porti in tempi rapidi alle elezioni ma per un governo “politico” basato su una inedita coalizione di “larghe intese” volta ad evitare le elezioni stesse per impostare subito una risposta economica alla crisi. Io credo che sarebbe stata una lettura più corretta dei meccanismi di una democrazia rappresentativa il richiamo alle urne gli elettori. Quel governo comportava una collocazione innaturale della destra come della sinistra, “alternative” fra di loro nel rispetto al patto con gli elettori che, per me, offende il concetto della rappresentatività che è alla base della democrazia italiana. Ma mi interessa di più qui notare come quella scelta appare essere stata foriera di effetti le cui ricadute portano lontano, ai giorni nostri al governo Meloni, con il neo-fascismo al potere. L’elettorato infatti, non mostra di apprezzare la scelta Monti e la sua azione di governo. A soffrire di più, a non capire, è il tradizionale elettorato di sinistra che avvia un processo di disaffezione dalla politica e di distacco dal PD. Il populismo grillino ne trae alimento passando da forza del tutto marginale a forza incidente negli equilibri di governo. Non c’è un rapporto di causa ed effetto? Possibile, ma è innegabile che stare per il PD in una alleanza di governo assieme a parte della destra crea sconcerto, confusione, qualunquismo, come è innegabile che, ispirato o meno da un Quirinale sempre più atlantista senza criticità ed europeista sino ad apparire prono alle politiche rigoriste della Commissione Europea, il governo Monti esprime nella sua politica economica una linea anti-popolare, non equa e vissuta tale dai ceti che di tale politica sono vittime. I “sacrifici”, una operazione di risanamento della finanza pubblica erano necessari? Certo che sì; ma era altrettanto necessario che i sacrifici fossero “spalmati” con equità, con un congruo contributo richiesto anche ai ceti possidenti con misure di fiscalità (patrimoniale e rimessa in vigore della tassa di successione, per esempio che altri governi avevano osato) e di lotta rigorosa ai grandi evasori sul piano penale.


2013. Il PD, con Bersani, vince a metà le elezioni. A vincerle per davvero sono i Cinquestelle. Io, molto modestamente, credo che al leader dello schieramento con la maggioranza relativa dei seggi andasse affidato un mandato senza condizioni. Nei mesi scorsi la Spagna ha votato, senza vincitori. Il re ha affidato il mandato al leader dello schieramento di maggioranza relativa pur consapevole che non avesse i numeri per formare il governo. A me è sembrato corretto, perché in una democrazia parlamentare è il parlamento che sancisce, con il voto di fiducia l’esistenza o meno di una maggioranza e quindi l’ineluttabilità del ritorno alle urne che in democrazia è “fisiologia” non una pericolosa “devianza”. Napolitano sceglie diversamente. E la sua scelta porta al governo delle larghe intese con Letta. Piaccia o meno, non è una scelta politicamente neutra: si porta alla sconfitta politica l’anima di sinistra del PD, la si umilia, aprendo per questa via la strada alla mutazione genetica renziana di fare del PD la “DC del terzo millennio”. Operazione illusoria che si consuma nell’arco di un quinquennio e non solo per gli errori di Renzi, quanto per poderosi movimenti carsici che spostano gli orientamenti della società italiana in una deriva qualunquista e populista.

E’ possibile che questo smottamento sarebbe andato avanti anche a prescindere delle scelte di Napolitano, tanto connesso come è stato con la frantumazione dei vecchi ruoli sociali e dei vecchi comportamenti politici. E’ possibile che le cose sarebbero sboccate comunque negli scenari elettorali degli ultimi anni; io, però, -lo dico con tutta la modestia possibile- credo che aver impedito alla sinistra per due volte di misurarsi con un quadro pur così complesso, le abbia tarpato le ali, l’abbia ristretto in un campo angusto, l’abbia cacciata in una posizione difensiva disarmata.
Non credo possibile che a Napolitano sfuggisse la “complessità” del quadro, la sua apertura a possibili vie alternative. Perciò mi è sorta spontanea la domanda del perché delle scelte fatte; senza riuscire a trovare risposta.

Lucio Fierro

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