Nei giorni scorsi si sono riunite tante Associazioni per discutere dei problemi che solleva la nuova normativa urbanistica proposta dalla Giunta Regionale : siamo dunque nel cuore della campagna che RIGENERA sta provando a prendere di petto. Per questo è importante l’impegno di oghgi e lo sarà ancir di più quello per dare finalmente alla Campania una cornice normativa nuova e finalmente coerente con l’obiettivo della sostenibilità e della lotta al consumo di suolo.
Pubblichiamo il Comunicato Stampa emesso alla fine dell’incontro :
COMUNICATO-1-Associazioni-su-Legge-Urbanistica-14.9.23-2E le riflessioni del Professore Sandro Dal Piaz elaborate anche nel Comitato Scientifico di Nuove Ri-Generazioni, l’Associazione nazionale promossa da FILLEA CGIl con l’adesione dello SPI CGIL,, presentate in occasione dell’incontro:
NuRiGe – Comunità tecnico-scientifica
NOTE SULLA RIGENERAZIONE URBANA NEL
DISEGNO DI LEGGE DI REVISIONE DELLA L.R.C. 16/2004
Alessandro Dal Piaz – agosto 2023
Questo appunto concerne le disposizioni in materia di “rigenerazione urbana” specificamente inserite nel disegno di legge che la giunta regionale ha recentemente trasmesso al consiglio. Le criticità presenti nel testo del ddl sono più numerose, ma non mi soffermo qui su quelle relative ad aspetti del tutto diversi dalla rigenerazione urbana, anche se – ovviamente – l’ispirazione fondamentale del testo è piuttosto unitaria.
Per chiarezza esprimo subito il parere che il concetto di rigenerazione urbana concretamente assunto nel ddl risulta largamente insoddisfacente perché concentrato su un’accezione meramente edilizia, anzi edificatoria, del processo complesso che il termine dovrebbe indicare, ignorando in sostanza tutte le numerose e cospicue implicazioni sociali, culturali e politiche che dovrebbero accompagnare e qualificare, direi, gli aspetti materiali del processo.
Riassumo ora quanto presente nel ddl, commentandolo punto per punto in modo da dare consistenza al giudizio appena espresso.
La prima citazione della rigenerazione urbana si incontra nell’art. 23, inerente alla pianificazione urbanistica comunale. Il suo comma 9 bis elenca tutte le “azioni prioritarie” (ben 12 !) attraverso cui perseguire nello strumento urbanistico locale la rigenerazione urbana. I titoli delle “azioni” citate sono largamente condivisibili. Colpisce invece quanto resta assente: nulla, per esempio, fa riferimento diretto o indiretto all’incremento dei servizi e delle dotazioni pubbliche. Sotto il profilo sociale compare solo un “riconoscimento del diritto all’abitazione e alla città”: un’espressione fortemente ellittica che si traduce, negli articoli successivi, esclusivamente nel raccomandare una quota cospicua di ERS (edilizia residenziale sociale) nei casi di sostituzione quantitativamente paritaria dei volumi produttivi dismessi con destinazioni nuove (residenziali o terziarie). Com’è noto, l’edilizia residenziale sociale è edilizia privata destinata, per pezzature, tipologie e materiali, e quindi per costi, a target relativamente meno solvibili rispetto a quelli cui mira l’edilizia residenziale di mercato. Nulla si dice in rapporto ai ceti sociali più disagiati, quelli cui si dovrebbe provvedere attraverso l’edilizia residenziale pubblica – ormai inesistente – o in termini di contributi finanziari di sostegno agli affitti – via via più compressi o semplicemente cancellati –. Ma non si dedica nessuna attenzione neppure ad un altro aspetto cruciale, quello delle ubicazioni residenziali differenziate per censo nel quadro dei sistemi insediativi, attraverso le quali concretamente viene compresso il “diritto alla città” con l’espulsione progressiva dei ceti disagiati sempre più lontano dagli ambiti centrali e dai servizi. Nessun riferimento alla promozione ed animazione culturale, all’accoglienza inclusiva, alla tutela sanitaria attiva, alla formazione permanente, all’occupazione (possibilmente stabile) e via dicendo. Ma si deve sottolineare che anche per le “azioni prioritarie” citate non si rintracciano poi nel ddl disposizioni coerenti e incisive che ne garantiscano la realizzazione.
Un solo obiettivo è adeguatamente e vigorosamente perseguito: quello degli incentivi alla rigenerazione urbana di iniziativa privata, costituiti da cospicui incrementi volumetrici, sistematicamente quantificati fino al 20% nei casi di ristrutturazione senza demolizione e ricostruzione e fino al 35% nei casi di sostituzione. Se ne inizia a parlare nel comma 9ter dell’art. 23: il piano comunale definisce zona per zona obiettivi di qualità cui corrispondono automaticamente “premialità volumetriche o di superficie” (precisate in percentuale, come detto, nel comma 9septies, ma che possono arrivare al 50% in caso di trasferimento da zone a rischio, secondo il comma 9octies).
Agli estensori del ddl non è sfuggito che agli incrementi di volume debbano corrispondere incrementi degli standard urbanistici, ma la soluzione “alternativa” che viene indicata (e che sarà indubbiamente di gran lunga la preferita) è quella della monetizzazione, che ora diventa ordinaria e praticabile senza particolari procedure.
Per ciò che concerne gli altri aspetti attuativi, la semplificazione è massima, sempre a vantaggio del privato e mai del pubblico: l’art. 33quater specifica che la rigenerazione urbana può riguardare un solo fabbricato (si attua con titolo abilitante diretto, senza incremento di standard neppure monetizzato), uno o più fabbricati contigui (si attua mediante permesso di costruire convenzionato), o la riqualificazione di ambiti urbani degradati (si attua mediante un “programma operativo di rigenerazione urbana”). Tale programma può essere proposto innanzitutto da privati, comporta gli incentivi già quantificati, con standard sempre monetizzabili; la convenzione con il comune è quindi del tutto facoltativa (non vi è, perciò, nessuna garanzia di incremento dei servizi e delle dotazioni pubbliche). Non è obbligatoria neppure la VAS, perché si procede in primo luogo con la verifica di assoggettabilità. In caso di necessità (realizzazione di alloggi parcheggio), si può disporre di un supplemento di incremento volumetrico fino al 15%.
È il Comune che deve deliberare sulla eventuale decisione di escludere alcuni ambiti dalla realizzabilità degli incentivi. Il testo di legge elenca intanto alcuni casi di esclusione prestabilita: fra essi figurano, ma falsamente, i centri storici (perché in essi gli incentivi possono riconoscersi su tutti gli edifici che siano stati “realizzati, ampliati o ristrutturati (!) anche parzialmente dopo il 6 agosto 1967”) e le zone agricole E. In queste infatti negli “ambiti urbanizzati costituiti da uno (!) o più edifici non connessi alla conduzione dei fondi agricoli” (sono davvero innumerevoli) si possono approvare “programmi operativi di rigenerazione urbana” con tutte le inevitabili premialità volumetriche. Alla faccia del contrasto al consumo di suolo.
Non è fuor di luogo sviluppare qui qualche commento. L’esecuzione di interventi di ristrutturazione o di sostituzione edilizia con ampliamenti dei volumi comporterà chiaramente la re-immissione degli immobili sul mercato a prezzi maggiorati, sia per la compravendita che per gli affitti. La declinazione della rigenerazione urbana secondo il ddl produrrà, in altri termini, aumenti delle rendite urbano-immobiliari grazie a maggiori costi insediativi. È perciò evidente che il ddl effettua una precisa scelta politica, di destra, favorendo gli interessi economici di una minoranza (soprattutto i grandi proprietari e i promotori immobiliari, e gli imprenditori delle costruzioni) ai danni della maggioranza dei cittadini sui quali ricadranno maggiori oneri finanziari per usufruire di un’abitazione.
Anche l’inganno sul consumo di suolo comporta danni sociali, perché l’aggravamento delle alterazioni climatiche comporta minor sicurezza collettiva, sia in termini di rischi per la sopravvivenza o per la salute di numerosi cittadini (fatalmente i meno agiati) che in termini di rischi relativi ai beni e alle attività di ulteriori cittadini, non solo disagiati.
In conclusione, la rigenerazione urbana a marchio “giunta regionale della Campania” è in larga misura l’opposto della rigenerazione urbana davvero auspicabile.
Sandro Dal Piaz
E poi seguono le osservazioni di dettaglio operate dal Professore Alessandro Dal Piaz sul testo della proposta della giunta Regionale
NOTE SUL DDL DI REVISIONE DELLA LRC 16/2004
Articolo 2
L’elenco delle “azioni prioritarie” è puramente declamatorio. Non si rintraccia nel ddl nessuna disposizione volta a definire concrete modalità quali-quantitative per il loro effettivo recepimento nella pianificazione urbanistica comunale.
Articolo 2 bis
La definizione di “territorio urbanizzato” è meramente qualitativa. Occorrono parametri precisi, del tipo : indice di fabbricazione esistente (vedi DI 1444/1968 per le zone B) oppure percentuale di suolo impermeabilizzato oppure … Si potrebbe proporre : una percentuale di suolo impermeabilizzato non inferiore al 50 %.
Non sono determinati né qui né altrove nel ddl:
- il riconoscimento della edificabilità urbana (residenze, commercio, attività del secondario, direzionale, infrastrutture a rete …) nel solo territorio urbanizzato
- la riserva del territorio rurale a edificazioni indispensabili per le attività coltivatrici secondo piani aziendali asseverati da agronomi iscritti all’Albo (nel PUC ammissibili deroghe esclusivamente per impianti tecnologici pubblici e infrastrutture per la mobilità di rango almeno regionale, nonché per ricettività alberghiera e campeggi con limiti percentuali di superficie adeguatamente bassi, articolati per dimensione territoriale dei comuni)
Articolo 3 comma 2
– cancellare le parole “e di incentivi”
– integrare : “l’eventuale incentivazione delle sole iniziative riconosciute come concorrenti al miglioramento della qualità del territorio e corrispondenti all’interesse pubblico per evidenti vantaggi collettivi”
Articolo 10 comma 2
– per ciò che riguarda la durata del periodo di salvaguardia va uniformato all’art. 12 del vigente D.L.vo 380/2001
Articolo 22
La illogica cancellazione della obbligatorietà del “piano programmatico operativo” comporta due gravi inconvenienti, già largamente registrati in rapporto al PRG della legge urbanistica del 1942:
- l’impossibilità di una regia pubblica delle priorità attuative, che vengono invece concretamente definite dal casuale manifestarsi delle convenienze dei privati sia sotto il profilo temporale che sotto quello spaziale;
- la necessità di inserire nel “piano strutturale” vincoli funzionali di tipo espropriativo, inevitabilmente soggetti, almeno in parte, a decadenza, con grave menomazione strategica del medesimo piano strutturale e pesante onerosità della reiterazione dei vincoli.
Occorre conservare le disposizioni preesistenti in merito all’obbligatorietà della componente programmatico-operativa del PUC. Si può eventualmente convenire sulla possibilità di una sua adozione successiva a quella del piano strutturale, ma entro il termine massimo di un anno.
Articolo 23 c. 1 e 2
Non si comprende perché si preveda di cancellare dai contenuti della disciplina propria del PUC una serie di formulazioni della originaria LRC 16:
– perché cancellare “la tutela ambientale” (comma 1) ? È chiaro che non si tratta di una competenza originaria autonoma, ma non può esservi alcun dubbio che le disposizioni del PUC, derivando in larga misura da quelle sovraordinate affidate ad esempio all’Autorità di bacino o al Ministero della cultura (vincoli e/o piani paesaggistici), hanno il compito di concretizzare dettagliatamente la tutela dell’ambiente con la quale devono risultare compatibili le norme sulle trasformazioni territoriali ammissibili. La cancellazione lancia invece un messaggio non condivisibile (che del resto il ddl tenta di accreditare anche altrove – art. 3 c. 2 – quando vuole sostituire i “vincoli” con gli “incentivi” urbanistici) secondo il quale la pianificazione urbanistica deve rispondere solo allo scopo di promuovere l’incremento di rendite urbano-immobiliari;
– perché cancellare: a) il dimensionamento del piano secondo il calcolo di fabbisogni, tanto di costruzioni quanto di spazi pubblici; b) la zonizzazione con l’indicazione di ambiti non edificabili; c) lo sviluppo propedeutico di studi idrogeologici di dettaglio (comma 2) ? anche in questo caso, risulta evidente la volontà di rendere indefinite, meglio illimitate, le possibilità edificatorie secondo le convenienze speculative private, in sostanziale promozione (altro che contrasto !) del consumo di suolo, anche a rischio di non curarsi adeguatamente delle pericolosità idrogeologiche più circoscritte o meno eclatanti. In epoca di alterazioni climatiche e di eventi meteorici estremi questa impostazione, tendenzialmente antiscientifica, risulta veramente irresponsabile.
Articolo 23, commi da 9 bis a 9 sexies
Il ddl mette qui in fila una serie ingannevole di buone intenzioni, peraltro limitate a enunciati generici, privi di conseguenti disposizioni concretamente definite, con lo scopo di introdurre il vero obiettivo della legge, quello di disporre per i proprietari e i promotori immobiliari e gli imprenditori edili incondizionate opportunità di incremento delle volumetrie edilizie esistenti (residenziali, direzionali, commerciali etc.) qualificate come incentivi/premialità connesse, ma in automatico, con la dichiarazione delle elencate buone intenzioni.
Articolo 23, commi 9 septies e 9 octies
La quantificazione degli incentivi generalizzati e incondizionati è già nota da precedenti provvedimenti legislativi della Regione Campania: fino al 20% per le ristrutturazioni senza demolizione e ricostruzione, fino al 35 % per le demolizioni e ricostruzioni, fino al 50% per i trasferimenti da ambiti territoriali di elevata o molto elevata pericolosità idrogeologica o vulcanica. Negli articoli 33ter e 33quater c’è perfino la possibilità (possiamo immaginare quanto facilmente utilizzata) di un ulteriore 15% nei Programmi operativi in caso di necessità.
Articolo 23, comma 9 novies
Agli incrementi di volume debbono corrispondere proporzionali aumenti degli spazi pubblici e di uso pubblico di cui al DI 1444/1968 ? Certo. Ma anche qui è prevista la scappatoia: la monetizzazione degli standard urbanistici diventa una pratica ordinaria e semplicissima, che consentirà di non accrescere affatto le dotazioni pubbliche.
Articolo 23, comma 9 decies
Gli immobili dismessi possono essere comunque demoliti e ricostruiti con destinazioni più profittevoli a parità di volume (non di superficie, che farebbe perdere il succulento sfruttamento delle grandi altezze negli edifici ex industriali). In caso di destinazione residenziale è obbligatorio riservare il 40% del volume a ERS, edilizia residenziale sociale, in vendita o in affitto. Si badi, non ERP, edilizia residenziale pubblica, che istituti pubblici possono utilizzare assegnandola a canoni sociali alle famiglie più disagiate, ma ERS ossia alloggi relativamente economici di proprietà privata da vendere o affittare a un target sociale intermedio, in possesso di risorse finanziarie un po’ limitate rispetto al libero mercato. Non c’è l’obbligo di vendere. Il promotore/costruttore può conservare la proprietà e affittare, a canoni convenzionati per un certo numero di anni, traendo già grandi vantaggi dalle economie di scala; e dopo può disporne senza vincoli. In alternativa, l’acquirente singolo, dopo un certo numero di anni, si ritrova un immobile libero da restrizioni, che può a suo piacimento vendere o destinare secondo le convenienze, ad esempio per casa vacanza.
Articolo 26
Il piano comunale può attuarsi attraverso atti abilitanti diretti secondo il DPR 380/2001, mediante il permesso di costruire convenzionato o mediante un PA piano attuativo (assistito, ma solo facoltativamente, da una convenzione).
Perché solo facoltativamente la convenzione con il Comune ? e la cessione gratuita dei suoli con destinazioni pubbliche ? Ma quali suoli ! Gli standard verranno certamente monetizzati, a che scopo la stipula di una convenzione ?! Semplifichiamo, semplifichiamo !
Articoli 33 bis, 33 ter e 33 quater
Gli articoli 33 disciplinano i “Programmi operativi”. Essi sono di tre tipi: “PO per il Piano nazionale di ripresa e resilienza”, “PO urbanistico comunale e di area vasta”, “PO per la rigenerazione urbana”. La distinzione fra programmi operativi e piani attuativi è impercettibile, consistendo tutti nella definizione progettuale di interventi complessi di trasformazione assimilabili alla tipologia della ristrutturazione urbanistica. Il sospetto è che la diversificazione, sostanzialmente nominale, risponda all’intento di moltiplicare, ma solo in apparenza, le finalità motivazionali, così da facilitare l’accumulazione plurale dei Programmi edificatori.
Commentiamo qui analiticamente solo il contenuto dell’art. 33 quater, dal momento che nei due articoli precedenti si ritrovano quasi tutte le sue disposizioni.
È opportuno premettere che nell’intero ddl, il solo riferimento ad una finalità sociale da perseguire nella pianificazione è il “riconoscimento del diritto all’abitazione e alla città”: un’espressione fortemente ellittica che si traduce, come si è detto, esclusivamente nel raccomandare una quota cospicua di ERS (edilizia residenziale sociale) nei casi di sostituzione quantitativamente paritaria dei volumi produttivi dismessi con destinazioni nuove (residenziali o terziarie). Abbiamo già sottolineato che l’edilizia residenziale sociale è edilizia privata destinata a target relativamente meno solvibili rispetto a quelli cui mira l’edilizia residenziale di mercato. Abbiamo anche già notato che si tace – clamorosamente, potremmo dire – sul sostegno ai ceti sociali più disagiati, quelli cui si dovrebbe provvedere attraverso l’edilizia residenziale pubblica – ormai inesistente – o in termini di contributi finanziari di sostegno agli affitti – via via più compressi o semplicemente cancellati –. Ma non si dedica nessuna attenzione neppure ad un altro aspetto cruciale, quello delle ubicazioni residenziali differenziate per censo nel quadro dei sistemi insediativi, attraverso le quali concretamente viene compresso il “diritto alla città” con l’espulsione progressiva dei ceti disagiati sempre più lontano dagli ambiti centrali e dai servizi. Ed è fortissimo il timore che la rigenerazione urbana produca soprattutto effetti di questo tipo.
In ogni caso nel ddl non compare alcun riferimento alla promozione delle relazioni sociali, all’animazione culturale, all’accoglienza inclusiva, alla tutela sanitaria attiva, alla formazione permanente, all’occupazione (possibilmente stabile), allo sport giovanile e via dicendo. Cioè agli obbiettivi immateriali che consentono di considerare rigenerazione urbana quanto è, in loro assenza, pura e semplice speculazione edilizia.
Il solo obiettivo vigorosamente perseguito è infatti quello degli incentivi alla rigenerazione urbana di iniziativa privata, costituiti dagli incrementi volumetrici già citati. Per ciò che concerne gli aspetti attuativi, la semplificazione è massima, sempre a vantaggio del privato e mai del pubblico: la rigenerazione urbana può riguardare un solo fabbricato (si attua con titolo abilitante diretto, senza incremento di standard neppure monetizzato), uno o più fabbricati contigui (si attua mediante permesso di costruire convenzionato) o la riqualificazione di ambiti urbani degradati (si attua mediante un “programma operativo di rigenerazione urbana”). Tale programma può essere proposto innanzitutto da privati, comporta gli incentivi già quantificati, con standard sempre monetizzabili; la convenzione con il comune è facoltativa (non vi è, perciò, nessuna garanzia di incremento dei servizi e delle dotazioni pubbliche). Non è obbligatoria neppure la VAS, perché si procede in primo luogo con la verifica di assoggettabilità. E, in caso di necessità (realizzazione di alloggi parcheggio), si può disporre di un supplemento di incremento volumetrico fino al 15%.
È il Comune che deve deliberare l’eventuale decisione di escludere alcuni ambiti dalla realizzabilità degli incentivi. Il testo di legge elenca intanto alcuni casi di esclusione prestabilita: fra essi figurano, ma falsamente, sia centri storici (perché in essi le demolizioni e ricostruzioni sono ammissibili previa formazione di piani particolareggiati comunali, non meglio definiti, e perché in essi gli incentivi possono comunque riconoscersi su tutti gli edifici che siano stati “realizzati, ampliati o ristrutturati (!) anche parzialmente dopo il 6 agosto 1967”) sia le zone agricole E. In queste infatti negli “ambiti urbanizzati costituiti da uno (!) o più edifici non connessi alla conduzione dei fondi agricoli” (sono davvero innumerevoli) si possono approvare “programmi operativi di rigenerazione urbana” con tutte le inevitabili premialità volumetriche. Alla faccia del contrasto al consumo di suolo.
Non è fuor di luogo sviluppare qui qualche commento. L’esecuzione di interventi di ristrutturazione o di sostituzione edilizia con ampliamenti dei volumi comporterà chiaramente la re-immissione degli immobili sul mercato a prezzi maggiorati, sia per la compravendita che per gli affitti. La declinazione della rigenerazione urbana secondo il ddl produrrà, in altri termini, aumenti delle rendite urbano-immobiliari e corrispondenti maggiori costi insediativi. È perciò evidente che il ddl effettua una precisa scelta politica, di destra, favorendo gli interessi economici di una minoranza (soprattutto i grandi proprietari e i promotori immobiliari, e gli imprenditori delle costruzioni) ai danni della maggioranza dei cittadini sui quali ricadranno maggiori oneri finanziari per usufruire di un’abitazione.
Anche l’inganno sul consumo di suolo comporta danni sociali, perché l’aggravamento delle alterazioni climatiche comporta minor sicurezza collettiva, sia in termini di rischi per la sopravvivenza o per la salute di numerosi cittadini (fatalmente i meno agiati) che in termini di rischi relativi ai beni e alle attività di ulteriori cittadini, non solo disagiati.
In conclusione, la rigenerazione urbana a marchio “giunta regionale della Campania” è in larga misura l’opposto della rigenerazione urbana davvero auspicabile.
Articolo 33 quinquies
Il “Programma integrato di valorizzazione per lo sviluppo del territorio” è un’altra invenzione preoccupante. Nel testo del ddl le sue finalità sono ridotte ad uno straordinario livello di genericità, ma molti documenti politico-programmatici della giunta regionale in carica ne hanno chiarito il senso: esso dovrebbe essere lo strumento – negoziale, ossia contrattabile, modificabile e mutevole – per l’attuazione (ma in realtà anche per la gestione “dinamica”) del piano paesaggistico regionale, inteso assai più come strumento di accompagnamento allo sviluppo economico che come strumento di tutela. Nella legge urbanistica regionale esso deve figurare per ottenere legittimità, anche se “sotto copertura”. È bene, però, essere ben consapevoli della sua vera finalità per opporsi adeguatamente alla sua legittimazione. La cosa da non accettare assolutamente è la sua “natura negoziale” ed i suoi effetti dinamici nei confronti del piano paesaggistico regionale.
Articoli 45 bis e 45 ter
La presenza in una legge urbanistica regionale sul governo del territorio e sul sistema di pianificazione di due articoli come questi è particolarmente incongrua, ma corrisponde benissimo alla meschinità delle finalità autentiche del provvedimento.
L’articolo 45 bis concerne i parcheggi pertinenziali. Il suo testo persegue due soli obiettivi: a) affermare che il vincolo di pertinenzialità si può legalmente applicare a qualunque distanza fra residenza e autorimessa purché entro il medesimo territorio comunale (per esemplificare, l’abitazione a Posillipo e il garage di pertinenza a Ponticelli, o viceversa); b) considerare ammissibile che un’impresa ottenga dal Comune il permesso di realizzare anticipatamente un complesso di box auto, preferibilmente interrati, con l’impegno di venderli poi a privati con il vincolo di pertinenza (in caso non le riesca, sui box invenduti si applicheranno le sanzioni amministrative dell’esecuzione in assenza di atto abilitativo). La finalità più che evidente è quella di aprire un ulteriore sbocco speculativo alle imprese edili nelle città medio-grandi e grandi della Campania.
L’articolo 45 ter consente il cambio di destinazione in direzione di utilizzazioni residenziali, commerciali o turistiche degli svariati volumi attualmente esistenti sulle coperture degli edifici. La cosa è difficilmente commentabile. In molte città occidentali ci si adopera, nelle circostanze odierne della crisi climatica, per utilizzare le coperture a fini di produzione energetica rinnovabile o per ridurre le isole di calore con i tetti verdi. In Campania ci si ingegna per moltiplicare quote miserabili di rendita immobiliare promovendo la trasformazione di un bucataio in B&B o di uno stenditoio in negozio.