L’iniziativa di pubblicare un libro sui gruppi politici degli italiani emigrati negli Stati Uniti, è nata, come spesso nascono interessanti realizzazioni culturali, da un moto spontaneo, da considerazioni estemporanee frutto di discussioni tra amici, ma sono anche risposte alle aspettative culturali. E poi c’era la volontà di ripercorrere alcuni momenti, in particolare il decennio 1930-40, in cui fu più evidente la vitalità politica degli emigrati italiani. Di qui nasce il volumetto “Compagni d’America”, pubblicato qualche tempo fa dall’editore ABE Napoli.
Gli italiani emigrati negli Stati Uniti non tardarono molto a manifestare l’opposizione alla situazione economica che li vedeva penalizzati nel lavoro, retribuito poco, ma anche nella vita sociale. “Agli italiani più di altri emigranti provenienti da altre nazioni, veniva associata l’immagine di gente cafona, con un’arretratezza di costumi, dovuta alle origini contadine… Si sviluppò quindi lo stereotipo degli italiani considerati delinquenti, sporchi, ignoranti, criminali e mafiosi” (Giacomo Lombardo in http://chambradoc.it › Novas-n182-Novembre-2018 ).
Non erano certamente univoche le idee politiche degli italiani in USA. Negli anni del Ventennio anche oltre oceano il fascino del Fascio aveva adepti e sostenitori; ma si formò anche una piccola agguerrita schiera che si ispirava alle idee del Comunismo.
Per lungo tempo si è creduto che le associazioni degli italiani per il comunismo fossero finite con la morte di Sacco e Vanzetti, le cui vicende sono state magnificamente ricostruite nel film del 1971 di Giuliano Montaldo. Di conseguenza, le storie del movimento comunista all’interno delle comunità italo-americane e del suo settimanale in lingua italiana, L’unità del Popolo, sono state quasi completamente dimenticate. Ma vale la pena ricordarle.


Il primo numero de L’unità del Popolo venne pubblicato a New York il 25 marzo 1939 (Gerald Meyer, L’unità del Popolo -The Voice of Italian American Communism 1939-1951, october 2, 2009 – il libro è in rete www.politicalallairs.net/l-unit-del-popolo-the-voice-of-italian-american-communism-1939-1951/). Era un settimanale di otto pagine, di cui una in inglese. Rappresentò la voce dell’antifascismo oltreoceano, fino al 1951, quando cessò le pubblicazioni. Ambrogio Donini, uno dei fondatori del settimanale, definì L’unità “un giornale comunista atipico, perché era indipendente dall’assistenza finanziaria del partito, ma era finanziato dai sindacati degli elettrici, della pellicceria, dei marittimi, del legno, dei camerieri in cui gli italo americani avevano funzioni importanti”.
Il giornale contava tra l’altro sulla presenza di Mary Testa, leader delle donne radicali italo-americane, che pure andrebbero riscoperte. “Mary era nata nel 1910 nel Massachusetts, terza di quattro figli di Sesto Pezzati, un ingegnere della città di Piacenza, e Cesarina, che proveniva da un ambiente contadino di una città vicina. Quando Mary aveva due anni suo padre morì di tubercolosi. Spinta dalla povertà, la famiglia si trasferì da un posto all’altro e alla fine si stabilì a Boston. Le difficoltà economiche della famiglia le impedirono di diplomarsi alle scuole superiori, ma svilupparono in lei l’esigenza di opporsi alle ingiustizie sociali. L’esecuzione di Sacco e Vanzetti nel 1927 radicalizzò il dissenso politico suo e del fratello minore, Alberto. Si dedicò con passione ad attività sindacale e riuscì a stento a sfuggire alla lista nera degli attivisti sindacali, nei primi anni Cinquanta, quando era in vigore la legge Taft-Hartley. Questa, introdotta all’indomani della grande ondata di scioperi del 1945 e 1946, proibiva tra l’altro gli scioperi selvaggi, gli scioperi politici o di solidarietà, i boicottaggi, i picchetti e le adunate di massa e diverse altre azioni di protesta. Inoltre imponeva ai funzionari sindacali di firmare presso il governo dichiarazioni giurate di non essere comunisti né tanto meno essere iscritti a partiti di ispirazione comunista.
Il legame della Testa con la realtà italo-americana è evidenziato nel suo articolo “Le piccole Italie d’America”, che ella descrive come parte del panorama della vita americana, pur conservando ognuna il proprio sapore particolare. “Ciascuna piccola Italia ha i suoi problemi, i suoi pregiudizi e le sue preferenze. Essi nascono dalle usanze che i nostri padri hanno portato dai loro paesi lontani e dalle nuove abitudini acquisite attraverso una lunga residenza con gli irlandesi, gli ebrei, i neri o semplici americani.”
Ma non c’era solo la stampa a veicolare le idee di rinnovamento, c’erano anche le associazioni. Una sorta di società assicurative, una forma di mutuo soccorso. L’International Workers Order (IWO) venne fondata nel 1930 e venne sciolta nel 1954 in seguito ad un’azione legale con lo Stato di New York. L’accusa: essere troppo legata al Partito Comunista. Eppure negli anni immediatamente seguenti alla seconda guerra mondiale, l’IWO contava 200.000 membri e forniva polizze sanitarie e assicurazioni sulla vita a basso costo, cure cliniche, mediche e dentistiche, sosteneva giornali in lingua straniera, organizzava attività culturali ed educative.


L’impegno delle associazioni di sinistra fu quello di fare prendere coscienza del pericolo che rappresentava l’ideologia fascista e che i regimi che si erano consolidati in Italia e Germania non promettevano nulla di buono nel campo della politica e del rispetto per i diritti umani di tutto il mondo. Poiché tra gli italo-americani il fascismo raccoglieva simpatie e consensi, occorrevano modalità efficaci per far giungere correttamente le idee e i programmi di riscatto sociale e di impegno antifascista che le associazioni operaie e di sinistra andavano diffondendo (cfr. Antonio Elefante, Modelli regionali di emigrazione. Appunti sul fenomeno migratorio in Campania, in Archivio Storico dell’Emigrazione Italiana, 1 Settembre 2008 www.asei.eu › it › 2008).
Nel 1939, pochi mesi dopo l’emanazione in Italia delle leggi razziali, è pubblicato per conto delle associazioni italo americane di sinistra un opuscolo di 48 pagine, dal titolo “Are We Arians?” e in italiano “Siamo Ariani?”. In esso vi è la condanna esplicita e decisa di ogni forma di razzismo. “Se la teoria di una razza ariana è già ridicola in Germania dove razze e gruppi etnici innumerevoli si sono incrociati attraverso i secoli, questa teoria raggiunge il colmo del buffonesco applicata al popolo italiano. Basta una conoscenza superficiale della storia per ricordare che pochi paesi hanno avuto un così complicato intreccio di razze come la penisola italiana e le due isole di Sicilia e di Sardegna”. Gli italiani d’America capivano meglio di quelli in patria la doppiezza del regime fascista, che mentre annunciava una cosa ne faceva un’altra.
Parte dell’eredità di questo mondo venne trasmessa alla generazione successiva. Quando l’opera di demolizione del mondo della sinistra e della sua componente italo-americana si fece più aspra, molti figli e figlie di quella generazione contribuirono alla formazione di comunità umanitarie e continuarono ad esprimere una cultura di opposizione. Altri sono diventati leader importanti nella nuova Sinistra (G. Meyer, 2009, op. cit.).
Le pubblicazioni, gli studi sull’ emigrazione negli USA, sono notevoli per quantità e per qualità di problemi affrontati. Ma la letteratura italiana ha svolto un ruolo significativo? Lasciamo l’analisi ad un autorevole scrittore napoletano: “Solitari e disperati partirono gli emigranti, abbandonati da Dio e dagli uomini, da uno Stato che più indifferente al loro destino non poteva essere. Della stessa indifferenza fu colpevole la letteratura italiana. Non c’è un vero romanzo su quest’epica della povertà, non uno scrittore ha voluto raccontare questo tragico esodo. C’è un racconto molto romanzesco di De Amicis, e poco altro che io sappia. Sono rimaste le canzoni napoletane a ricordare tanti dolori e nostalgie e patimenti (Partono i bastimenti…, E ce ne porta lacrime ‘st’ America…) e un atto unico Scalo marittimo, scene e musica di Raffaele Viviani” (Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, Milano, 1994, pp. 31-32).
Spicca in questo panorama desolato Giovanni Pascoli, che quando erano passati non molti anni dalle numerosissime partenze degli italiani dopo il 1880, nel 1904, pubblica il poemetto Italy. Egli traccia una strada nel rendere in versi la condizione esistenziale degli emigranti. Ma non venne seguita, anzi il poemetto a stento ricevette l’attenzione che si dà alle informazioni bibliografiche. E poi, nei versi, tutte quelle parole inglesi…

Virgilio Iandiorio

Virgilio Iandiorio
Laureato in lettere classiche presso l’Università di Napoli, consegue il Diploma di Perfezionamento in Biblioteconomia presso la stessa Università. Dirigente scolastico nei licei in diverse città italiane. Collabora con Quotidiani locali e Associazioni culturali. Il suo interesse è rivolto alla ricerca storica e letteraria; ha al suo attivo diverse pubblicazioni.

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