Quanto vale una vita umana? “Milioni di volte in più di tutte le proprietà dell’uomo più ricco della Terra” avrebbe risposto un certo rivoluzionario. Forse è per questo che, di fronte alla morte, ci fermiamo, osserviamo, proviamo a capire, per poi ritornare a essere distratti da quella continua corsa che è diventata la vita.
E’ quanto successo a Pomigliano dove un’intera comunità si è trovata spiazzata davanti all’omicidio brutale di Frederick, un ragazzo Ghanese che viveva da clochard, ucciso a colpi di botte da quelli che sembrerebbero poco più che ragazzini.
Una tragedia che ha scatenato indignazione, solidarietà e risvegliato un forte senso di umanità nella cittadina pomiglianese e non solo, ma che, come spesso accade, rischia di essere la reazione spontanea, ma purtroppo a scadenza breve, che proviamo di fronte a queste tragedie; tragedie che invece imporrebbero un momento di riflessione serio perché figlie di scelte politiche e fattori sociali ben precisi.
Dall’abrogazione della protezione umanitaria voluta dall’allora Ministro degli Interni Matteo Salvini che ha contribuito ad aumentare la schiera di invisibili e senza diritti nel nostro Paese, l’incapacità per gli Enti Locali di far fronte alle situazioni di povertà e disagio sui propri territori tramite le Politiche Sociali, l’assenza totale di politiche di inclusione sociale e lavorativa.


Forse però la vera causa di questa morte sta nella deriva culturale che la nostra società ha preso da quando, senza una reale alternativa, la pratica e la cultura dell’individualismo è diventata egemone. Molti in queste ore si affannano infatti a chiedere pene esemplari e severe, dimenticando però che qualsiasi punizione, per quanto esemplare, non solo non restituirà la vita a questo ragazzo ma non eviterà il ripetersi di queste tragedie. Abbiamo costruito una società dove “l’altro” è solo ed esclusivamente un competitor e in cui la ricchezza indica in automatico il valore di una persona, una società in cui non esistono esempi positivi per i ragazzi su nessun livello: con le istituzioni di prossimità assenti, la scuola che è sempre più in affanno e le famiglie che, tra problemi economici e sociali, non riescono ad incidere sull’educazione dei più giovani; a questo va aggiunto l’impossibilità, oggi, per i più giovani di vedere un futuro che sia li ad aspettarli con la prospettiva certa del precariato; a tutto questo va aggiunto la trasformazione delle città che nell’esclusiva ottica della commercializzazione hanno smesso di offrire momenti culturali, spazi di aggregazione, attività ricreative e di svago, con i social network ad essere ormai l’unica piattaforma in grado di unire i più giovani (e spesso anche i più adulti) con il problema che spesso, con la compresenza dei sopracitati fattori, la dimensione virtuale slega dalla realtà andando a creare una finta possibilità di “affermazione sociale” che passa però attraverso modalità dettate da “trend” e “algoritmi” che impongono cosa e come fare per avere maggiore visibilità, eliminando ogni giudizio di merito rispetto all’atto che di volta in volta si va a commettere, perché in una società che vive di visualizzazioni e che ha reso le pratiche collettive un lontano ricordo, tutto va bene affinché si riesca ad affermare se stessi: la violenza e i soprusi sono insomma mezzi giustificati dal fine.


Forse da questo si dovrebbe ripartire: da una seria riflessione su cosa vogliamo essere,
se continuare a voler alimentare pratiche di odio e indifferenza o costruire una società dove il collettivismo e i principi del vivere in armonia con l’altro facciano da padrone. Con la prospettiva e la certezza però che se si sceglie la seconda strada il lavoro sarà enorme e sarà difficile anche capire da dove partire, perché le parole cultura, scuola, istituzioni e lavoro rischiano di essere contenitori vuoti se non riempiti con le giuste scelte politiche ed educative. Sarà compito di tutti, e in particolare di chi si identifica nei valori della solidarietà, dell’uguaglianza e della non-violenza, iniziare a costruire un percorso che abbia la capacità di affondare fino alle radici della società nella quale oggi viviamo e riuscire a scalfire quel muro di indifferenza e individualizzazione che abbiamo costruito, solo cosi si potrà rendere onore a Frederick e al sacrificio della sua vita che, come quella di tanti altri, rischia altrimenti di diventare esclusivamente il ricordo di una giornata di cordoglio servita più a lavarci le coscienze che a far si che tutto questo non avvenga mai più.

Vito Fender

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