Nando Morra ha ricordato recentemente sulla rivista “Infiniti mondi” con grande affetto e con le giuste parole la straordinaria esperienza umana, intellettuale e politica di Umberto Minopoli
, prematuramente scomparso qualche settimana fa. ( https://www.infinitimondi.eu/2023/05/02/ciao-umberto-il-ricordo-di-nando-morra/ ) Nando fa il mio nome tra “i reclutati “, insieme a Raffaele Tecce e allo stesso Minopoli, da Antonio Bassolino per costruire un team nel dipartimento economico della segreteria regionale del PCI da lui diretto. Devo dire subito che per me lavorare, anche se per un breve periodo, accanto ad Umberto, Nando e Raffaele, è stato uno dei momenti più esaltanti della mia modesta storia politica dentro il partito. Dopo aver avuto non poche perplessità, nel 1982, ad accettare l’incarico di responsabile regionale delle fabbriche – perché da sindacalista (ero segretario della Fiom del comprensorio di Pomigliano) mi riusciva difficile capire il dibattito dentro il partito, che a volte mi sembrava lontano dai problemi reali della classe lavoratrice – cominciai subito a lavorare in stretto rapporto con le fabbriche – che in fondo era ciò che mi chiedevano sia Nando (che era stato segretario della Cgil della Campania) che Antonio. La cosa che mi colpì immediatamente all’inizio di questa esperienza, oltre la straordinaria lucidità politica di Bassolino, fu l’energia, la vitalità di Nando, che sembrava avesse il dono dell’ubiquità, perché, nella stessa giornata, era capace di partecipare ad un convegno sull’economia, ad una assemblea operaia o di commercianti e artigiani, intervenendo sempre con grande lucidità e competenza nel merito dei problemi al centro della discussione. Poi, chiamato da Bassolino, venne Umberto e mi accorsi subito del salto di qualità dell’intero team. Perché Umberto associava una non comune capacità organizzativa ad una profonda preparazione sulle teorie economiche del capitalismo contemporaneo. A ciò si aggiunga che manteneva costanti contatti con studiosi, scienziati sociali, ricercatori dell’Università, manager delle imprese più importanti della nostra regione.

Così, pur nelle diverse sensibilità politiche (lui era vicino all’area riformista, io a quella ingraiana), la sua vicinanza fu per me di prezioso arricchimento. Di lui mi colpivano innanzitutto la disponibilità all’ascolto, l’estrema franchezza (talvolta anche un po’ rude) nel dibattito politico; e, soprattutto l’ironia, quella sua ostentata volontà nel “dissacrare” anche qualche compagno di partito con cui condivideva le stesse idee politiche; una propensione alla provocazione intellettuale – di cui ha parlato recentemente anche Claudio Velardi in un commosso ricordo sul “Corriere del Mezzogiorno” – che me lo rendeva assai simpatico. Dice giusto Nando Morra quando afferma che Umberto fu anima e protagonista, nel 1984, di quel, davvero straordinario, convegno (che si tenne all’Isveimer di Napoli dal 11 al 13 maggio del 1984) promosso dal PCI sul tema della “Reindustrializzazione e innovazione in Campania” che intendeva fare il punto sullo stato dell’economia e dell’apparato produttivo nella nostra regione. Io mi occupai del coinvolgimento delle fabbriche, Umberto della presenza all’assise di tutti i maggiori dirigenti delle aziende pubbliche e private, che convinse ad intervenire nel dibattito aperto dalla relazione di Eugenio Donise, da un anno segretario regionale del PCI campano. Ne venne fuori un interessante confronto a più voci su nuove proposte per rilanciare il Mezzogiorno concluso da un lucido intervento di Alfredo Reichlin, che sottolineò l’urgenza di riportare al centro del dibattito nazionale la questione meridionale: “È impressionante, affermò, il silenzio sul Mezzogiorno a Torino e Milano. Non se ne parla proprio più”. Questo silenzio diventava sempre più assordante (e inquietante) di fronte al degrado produttivo della Campania che – come riferì poi la Federazione degli Industriali della Campania – perse, in un breve arco di tempo, circa 1300 aziende. E a questa cronaca di un disastro annunciato si aggiungeva l’aumento esponenziale dei cassintegrati e dei disoccupati. Di questa inarrestabile decadenza produttiva, sociale ed economica del nostro territorio, parlarono con accenti diversi Eugenio Donise, Antonio Bassolino, Nando Morra, Salvatore Vozza, e molti studiosi di diverso orientamento, tra cui Silvano Andriani, Augusto Graziani. Ada Collidà, Wanda D’Alessio, Vittorio Silvestrini, Guido Fabiani.

L’Italsider era dunque allora solo la punta di un iceberg che stava per abbattersi sulla nostra comunità nel silenzio generale delle istituzioni locali e nazionali, regalando così alla criminalità organizzata intere aree della nostra regione ormai desertificate e lasciate brutalmente marcire in un inarrestabile declino. Anche Gianfranco Borghini, della direzione nazionale del PCI, soffermandosi sul significato della battaglia di Bagnoli, sostenne che “la classe operaia dell’Italsider non si accontentò di difendere l’esistente ma di riavviarlo in una prospettiva produttiva importante”. Ma poi, negli anni successivi, non mancarono anche a sinistra ambiguità, inadeguate proposte di rilancio dell’area, col risultato che Bagnoli ancora oggi resta una vuota pagina bianca tutta da riempire. Il colpo mortale alla classe operaia bagnolese che non aveva mai smesso di lottare contro l’assistenzialismo per un’altra idea di sviluppo della città, certo lo diede il governo alla fine degli anni Ottanta che chiuse definitivamente l’impianto nell’indifferenza e nel cinismo della nostra classe dirigente locale. Cosi, da sostenitore della prima ora di quella battaglia di civiltà, lessi con grande piacere una lettera aperta di Minopoli a Bassolino (pubblicata il 14 luglio 2018 dal “Corriere del Mezzogiorno” col titolo Bagnoli perduta. Ilva, storia del fallimento della sinistra nelle vicende di Napoli e di Taranto), in cui, senza mezzi termini, egli sostenne – come del resto, alcuni di noi dicevamo da anni inascoltati – che “gli operai, avevano ragione, che Bagnoli chiuse per ragioni non economiche. Chiuse per salvare Taranto. Le ragioni della salute, dell’ambiente, del paesaggio, vennero dopo. Quando il destino del cantiere era già deciso”. Per ritornare al convegno sulla reindustrializzazione devo dire che di grande interesse furono anche gli interventi dalle fabbriche, con le interessanti relazioni dei compagni delle sezioni del PCI della Selenia, dell’Olivetti, dell’Ansaldo; notevole fu anche il contributo di Umberto e di Angela Francese che firmarono insieme un importante testo sul governo del mercato del lavoro.

Fu questa varietà di accenti, che assunse quasi le caratteristiche di una inchiesta sul nostro apparato industriale, che ci spinse a pubblicare gli atti in volume (edito da Casa editrice “Sintesi”, 1984), con una prefazione, molto sintetica, firmata da Umberto e da me (il testo fu scritto da lui, io mi limitai solo ad aggiungere alcune considerazioni sul ruolo delle Partecipazioni Statali nel Mezzogiorno). Non fu difficile trovare un accordo sull’indirizzo generale da dare al volume, perché entrambi eravamo convinti che nel Mezzogiorno non si dovesse prescindere da un rinnovato processo di industrializzazione dentro la “centralità del risanamento ambientale”. Ma dicevo dell’ironia di Umberto. Con lui, pur all’interno delle drammatiche condizioni sociali ed economiche in cui versava la Campania dopo il devastante terremoto dell’Ottanta, si lavorava con serenità, spesso ironizzando su aspetti poco edificanti della vita interna dell’organizzazione; oppure sull’eccessivo utilizzo di figure retoriche nei discorsi di alcuni autorevoli dirigenti del partito.

Così, non mi meravigliai quando, dopo l’intervento conclusivo di Reichlin al convegno, Umberto mi passò un foglietto dove aveva trascritto tutte le espressioni metaforiche da lui usate per rendere più chiara la nostra opposizione al governo. Al primo posto di questo simpatico elenco, stilato come un indice di un libro”, c’era scritto: “la mosca nel brodo”; e subito dopo altre frasi dello stesso tenore. Proruppi in una irrefrenabile risata e per alcuni giorni non parlammo d’altro che della straordinaria fantasia discorsiva del compagno Reichlin. Correggemmo le bozze del volume con grande passione e applicazione, consapevoli della nostra molto limitata esperienza nell’attività di editing; il lavoro andò avanti per un po’ di tempo anche con qualche discussione sulle forme letterarie dei testi inviati dagli autori: come quando Umberto mi fece notare che un direttore di una grande azienda aveva, a suo avviso, commesso un grave errore di italiano. Io non fui d’accordo. Ero invece convinto che quella frase fosse assolutamente corretta. Mosso da dubbi, e per sgombrare il campo da ogni polemica, Umberto decise allora di interpellare il suo amico e compagno, profondo e riconosciuto letterato, Vittorio De Cesare, che in qualche modo riuscì a mettere d’accordo entrambi sostenendo che non c’era errore ma che il periodo in fondo era mal formulato. Poi, come succede nella vita, ci perdemmo di vista, ma, caro Umberto, difficilmente potrò mai dimenticare quella tua indipendenza di giudizio, quella tua libertà di pensiero che si accompagnava sempre alla tua inesauribile ironia che non faceva sconti a nessuno.

Antonio Grieco

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