È ANCORA QUESTIONE DI IDEOLOGIA

Da molti anni si è scatenata una vera fatwa contro l’ideologia. Ma la cosa è perfettamente comprensibile. Cominciamo con il riflettere su cosa è l’ideologia: un sistema di finalità da perseguire, una visione auspicata della società, delle sue componenti e delle loro relazioni. A ben vedere, dopo il neolitico e dall’invenzione della scrittura, la storia ne ha registrate innumerevoli, di progressiste, ma anche di retrive. Depurate del mitologico e del trascendente (la quota che attiene alla specificità della fede), le stesse religioni sono state soprattutto grandi ideologie. La storia delle culture sarebbe assai opaca se accedesse alla follia di tacere delle ideologie.

È chiaro che chi si è messo al seguito di Margaret Thatcher (“la società non esiste, esistono gli individui”), con il deficit di spirito critico che ciò comporta, ritiene di dover combattere perfino il concetto di ideologia. Cascando però in un pozzo nero con tutti i suoi abiti griffati, perché il neoliberismo è a sua volta un’autentica ideologia. Retriva, appunto, perché animosamente schiumante contro égalité e fraternité ed entusiasticamente palpitante per una equivoca interpretazione di liberté in senso licenzioso, come impune facoltà degli individui accorti, e pertanto “meritevoli”, e delle relative organizzazioni esclusive, di arricchirsi senza misura sfruttando la natura inerte e quella vivente (altri umani inclusi).

Noi, pronipoti della rivoluzione francese, nipoti di quella sovietica e figli della resistenza, non cercheremo certo di impedire ai neoliberisti la loro impudica predicazione, ma dobbiamo praticare tutta intera la nostra eredità ideale, consapevoli che il conflitto sociale non fa sconti a nessuno e che gli avversari sono particolarmente capaci ed incisivi.

E dobbiamo perciò analizzare bene anche le nostre esperienze, soprattutto per non cadere in nuovi errori da superficialità di valutazione.

Voglio utilizzare un esempio che a me sembra eloquente, sollecitato dagli importanti spunti recenti di riflessione sugli anni del terremoto e della ricostruzione post-sismica.

Il sindaco Valenzi, è più che noto, in base alla legge 219/1981 fu nominato commissario di governo per il PSERN, programma straordinario di edilizia residenziale per Napoli. Gli vennero dettati tempi forsennati (10 giorni) per decidere dove e quanto realizzare nel territorio comunale di un insieme di 20mila alloggi, con le relative urbanizzazioni e attrezzature collettive, anche surdimensionate in considerazione dei deficit pregressi. E analoga severità temporale (15 giorni) la legge impose per definire gli affidamenti, obbligatoriamente in concessione, alle imprese che si fossero candidate per la realizzazione degli interventi. In quelle condizioni, Maurizio Valenzi e i suoi collaboratori (voglio ricordare in particolare l’on. Guido Alborghetti, decisivo sul problema appena citato) non solo rispettarono al minuto le scadenze[1], ma allestirono un meccanismo complesso che riuscì ad evitare ogni contenzioso. Valenzi ottenne che tutte le imprese risultate in possesso dei requisiti del bando si aggregassero in consorzi pari al numero dei comparti in cui i circa 13mila alloggi (e relative attrezzature)[2] della quota comunale del PSERN era stato suddiviso in modo da avere valori economici grosso modo equivalenti.  Le convenzioni sottoscritte dal sindaco-commissario e dai consorzi stabilivano che questi ricevessero più che cospicue anticipazioni finanziarie per far fronte ai costi rilevanti, ma anche che la struttura tecnica del commissariato dovesse approvare preventivamente ogni fase delle attività consortili, dall’occupazione dei suoli alla progettazione urbanistica di dettaglio, a quella architettonica preliminare, a quella esecutiva, ai vari stati di avanzamento dei lavori.

La pubblica amministrazione controllava così nella misura massima possibile la correttezza dell’attuazione, ma nello stesso tempo veniva di fatto conferito alle imprese edili un potere contrattuale straordinariamente rilevante, nei confronti delle istituzioni locali, dei partiti e dei sindacati, delle industrie fornitrici, delle categorie professionali.

Com’è noto, il sindaco Valenzi guidò in quegli anni sempre una giunta minoritaria (costituita da assessori del PCI e del PSI, affiancati con minore costanza da assessori del PSDI e/o del PRI e/o da assessori indipendenti) che superava lo scoglio annuale dell’approvazione del bilancio grazie ad un artificio tecnico in qualche modo concordato con la DC, lucidamente consapevole, questa, dello straordinario consenso conquistato dal PCI durante l’epidemia locale di colera e durante la battaglia per la difesa del divorzio.

Non vigilammo abbastanza, né a Napoli né a livello nazionale, sui rischi che gli avversari s’impadronissero delle articolate soluzioni studiate nella specifica emergenza per utilizzarle in una strategia di segno opposto.

Nonostante la costituzione di un “gabinetto politico” consultivo[3] (con gli esponenti di tutte le forze politiche presenti in consiglio comunale) presso il commissariato, l’istituzione ordinaria pativa il dinamismo e la centralità operativa di quella straordinaria, determinando logoramenti e insofferenze, che si ripercuotevano e rimbalzavano anche negli ambienti imprenditoriali. Nell’estate del 1983 si ruppe l’accordo di giunta e, dopo una breve amministrazione prefettizia, si tornò ad amministrazioni di centro-sinistra con il passaggio di volta in volta al nuovo sindaco anche del ruolo di commissario di governo. E quando fu il turno del democristiano Scotti, in quel tempo anche ministro, si realizzò una “svolta” nel PSERN (sia nella quota comunale che, soprattutto, in quella regionale) con l’immissione nel programma di nuovi interventi, specialmente infrastrutturali, frequentemente assai costosi e privi di studi, piani e/o progetti già approvati, affidati, ovviamente in concessione, ad imprese scelte, fra quelle impegnate, non sempre secondo criteri “geografici” inoppugnabili.

Una rottura dell’equilibrio originario del PSERN a vantaggio del privato e del potere economico. Nel quadro dell’offensiva globale thactherian-reaganiana che veniva facendo proseliti anche in Italia e perfino nella sinistra.

Sicché non fu del tutto un fulmine a ciel sereno, qualche anno dopo, la presentazione a Napoli in un mega-convegno al quale partecipò addirittura l’on. Natta, segretario nazionale del PCI succeduto allo scomparso Enrico Berlinguer, di una iniziativa imprenditoriale denominata “il regno del possibile”. Una iniziativa lanciata da una società di studi, composta da imprese a partecipazione statale, cooperative e private, che proponeva al parlamento italiano l’approvazione di una legge speciale per la rivitalizzazione del centro storico napoletano. La legge avrebbe dovuto consentire la costituzione di una SIF “società per azioni immobiliare finanziaria” a favore della quale lo stato avrebbe dovuto stanziare importi finanziari che essa avrebbe destinato quali incentivi ai proprietari di immobili nel centro storico di Napoli che avessero accettato di cederli alla SIF in cambio di obbligazioni non indicizzate, spendibili nel quadro dell’acquisto successivo di un appartamento ristrutturato o sostituito. Il programma prevedeva l’acquisizione alla SIF di circa 70mila alloggi, mediante cessione volontaria appunto o, in caso di opposizione, mediante espropriazione. Il Comune di Napoli, proprietario nell’insieme del programma di circa 5mila alloggi, avrebbe invece ricevuto in cambio “azioni privilegiate”, con un rendimento certo, ma prive del diritto di voto nelle assemblee ordinarie degli azionisti. Il programma avrebbe coperto 15 anni, con una durata media di tre anni per ciascun intervento durante i quali gli occupanti dell’appartamento acquisito avrebbero alloggiato in una casa parcheggio o ricevuto un contributo per una diversa sistemazione.

Una proposta che, in sostanza, escludeva l’istituzione elettiva dalla pianificata programmazione del recupero del centro storico, attribuendo tutto il potere di progettare e gestire interventi di simile natura e dimensione ad un soggetto economico (incontrollabile), secondo la nuova ideologia in ascesa.

I volumi a stampa con la proposta, distribuiti qualche anno dopo nelle more della conclusione dell’acceso dibattito che la proposta aveva acceso in città e nei partiti, specie all’interno del PCI, contenevano già le planimetrie del centro storico con l’individuazione dei numerosi mini-sventramenti che il programma avrebbe previsto.

Lo scontro fu aspro e alla fine prevalemmo noi oppositori della proposta, che non ebbe dunque seguito concreto. Ma il danno era fatto.

Non riuscimmo a convincere il Paese che una adeguata strategia per il Mezzogiorno doveva basarsi sul potenziamento massiccio delle dotazioni quali-quantitative delle autonomie locali e dei servizi pubblici collettivi[4]. Si sono moltiplicate le occasioni più disparate per far ricorso a commissari straordinari, senza però dotarli mai di strutture pubbliche davvero adeguate. Le istituzioni comunali sono state inoltre indebolite fino all’astenia e quelle provinciali sono state cancellate di fatto. E la propaganda (ideologica) contraria alle ideologie ha eroso le capacità critiche di intellettuali e politici, convincendo perfino qualche protagonista, pentito, oh sì, pentito, dello scontro vincente con “il regno del possibile”.

Ma noi no, non dobbiamo, non possiamo rinunciare a riconoscerci in un’aggiornata ideologia, complessiva e complessa quanto occorre. Contro le vecchie e nuove forme di sfruttamento parassitario, per la difesa dell’ambiente e per la solidarietà attiva con chi si batte per il lavoro e vive del lavoro.

Alessandro Dal Piaz


[1] La scelta, particolarmente qualificante, fu di attuare programmi urbanistici preesistenti: per una parte minore nei piani di zona 167 di Scampia e Ponticelli e per la parte maggiore nel “piano delle periferie”, un complesso di piani di zona 167 e di piani di recupero dei nuclei storici degli ex comuni autonomi aggregati a Napoli tra fine ‘800 e primo ‘900, approvato all’unanimità dal consiglio comunale nella primavera dello stesso 1980. Un comparto di nuova individuazione venne composto con un certo numero di singoli edifici inutilizzati e fatiscenti dispersi nei tessuti urbani della città, ivi incluso il centro storico, destinati tutti ad attrezzature pubbliche o di interesse pubblico.

[2] I restanti alloggi sarebbero stati affidati ai medesimi consorzi dopo averli quantificati e localizzati nei comuni della provincia che avessero comunicato al presidente della giunta regionale, a sua volta nominato commissario di governo, di mettere a tal fine a disposizione i propri piani di zona ex lège 167.

[3] Il “gabinetto politico”, sciolto dal commissario prefettizio, non fu mai ricostituito dai successivi sindaci-commissari di governo.

[4] “Non è vero che leggi come l’equo canone, come la nuova disciplina dei suoli edificabili, come il piano decennale per la casa sono affette da un eccesso di massimalismo e di giacobinismo: si tratta di norme moderatamente riformiste, la cui applicazione richiede, però, una capacità di gestione e di spesa che gli organismi locali e la pubblica amministrazione non posseggono assolutamente: è inutile attendersi dalla DC iniziative per il necessario potenziamento (ciò andrebbe contro i suoi interessi), ma occorre francamente riconoscere che i partiti di sinistra non hanno affrontato tale fondamentale problema, né durante la passata esperienza del centrosinistra, né durante il periodo delle astensioni e delle larghe intese” (Marcello Vittorini, “Per costruire la repubblica delle autonomie”, L’Astrolabio n. 15, 29 luglio 1979, oggi in Raccolta di 16 articoli di Marcello Vittorini scritti per L’Astrolabio a cura di Michele Colletta, aprile 2019, acquisibile solo in digitale).

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Nota a margine su “La Giunta”, proiezione del 29 marzo al Circolo ILVA

“La Giunta” è un film che fa riflettere e stimola la discussione, come abbiamo potuto constatare dopo la proiezione e come puntualmente riassunto da Gianfranco Nappi. Dunque, un successo, un’operazione culturale intelligente che mette a fuoco soprattutto, con le parole del suo autore, Alessandro Scippa, la storia affettiva di un periodo, la ricucitura di un dialogo complicato tra genitori e figli. È una pagina della mia storia. Anche io sono figlia di un uomo impegnato nella politica nella forma assorbente raccontata nel film dagli juniores Geremicca e Scippa e in sala, dal ruolo opposto ma convergente nella critica, da Berardo Impegno. Tutti, tra l’altro, molto solidali con le madri e mogli che per tenere insieme le famiglie hanno sacrificato la propria inclinazione e il proprio desiderio. Questo, ovviamente, trascese la storia familiare per farsi questione politica. E, ancorché non ancora del tutto risolta, mi pare si possa affermare che abbia contribuito a trasformare le modalità straripanti di un tempo in favore di un equilibrio tra le differenti componenti della vita.
Scrivo queste poche righe per aggiungere un diverso punto di vista da parte di una figlia.
Ancora negli anni 70 del Novecento, il padre, dispensatore di moderate lodi e sicurezza distante, non era, in generale, molto presente nella vita dei figli e ancor meno in quella delle figlie, se non come censore e somministratore di divieti. Mio padre era all’epoca segretario della sezione Gramsci del PCI, un dirigente periferico, dunque proporzionalmente coinvolto in grado minore. La FGCI, a pensarci oggi, fu la mia occasione per colmare quella distanza, il luogo condiviso in cui raggiungere mio padre prima che l’anagrafe (o il rimpianto) rendesse inevitabile il normale processo di ricongiungimento. Il PCI fu anche questo, incontro, scontro, confronto tra generazioni, un laboratorio dove si potevano imparare lingue diverse e, a volte, capirsi. Prima o poi. E certo, le donne, madri e mogli, come spesso accade, hanno pagato un prezzo alto. Ma forse non le figlie.

Iaia De Marco

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L’ARTICOLO DI GIOVEDI’ 30 MARZO

https://www.infinitimondi.eu/2023/03/30/la-giunta-al-circolo-ilva-di-bagnoli-una-affollata-serata-per-un-bel-film-che-fa-riflettere-di-gianfranco-nappi/

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