Nelle settimane scorse si è discusso, dopo molti anni, delle gabbie salariali a proposito delle retribuzioni dei docenti e dei divari esistenti fra nord e sud.
Le gabbie salariali furono istituite con l’accordo sindacale del 6 dicembre 1945, stipulato dalla CGIL, allora unico sindacato unitario, guidato da Giuseppe Di Vittorio, e la Confindustria che rappresentava anche le aziende a partecipazione statale.
L’accordo si basava sul principio di parità del trattamento retributivo SOSTANZIALE (salario reale) tra i lavoratori e indicava il potere di acquisto dei salari in relazione al costo della vita, rilevato periodicamente in ciascuna area geografica del Paese, al di là della divisione nord- sud, quale parametro oggettivo per determinare livelli salariali non discriminatori.
Vennero definite 14 zone territoriali, successivamente ridotte a 7, che presentavano significative differenze nel calcolo del costo della vita. Le zone erano da intendere come fasce nelle quali venivano comprese varie aree geografiche che presentavano lo stesso livello del costo della vita.
L’oscillazione massima prevista della retribuzione rispetto ai minimi contrattuali era del 29%. In questo range si collocavano le sette zone salariali.
Il sistema della PARITA’SOSTANZIALE dei livelli retributivi doveva, nelle intenzioni dei promotori, precorrere e realizzare, di fatto, i principi di uguaglianza e pari dignità sociale del cittadino lavoratore, sanciti dalla Costituzione della Repubblica che all’art.36 dice “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla QUANTITA’ e QUALITA’ del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla FAMIGLIA una esistenza libera e dignitosa”.
E’ molto importante notare che la retribuzione del lavoratore è intesa come REDDITO SUFFICIENTE FAMILIARE, e non prevede un secondo reddito percepito nell’ambito del nucleo familiare che garantisca la sufficienza.

Con l’autunno caldo ed il prevalere di una forte spinta all’egualitarismo, più formale che reale, le gabbie salariali furono gradualmente eliminate nel triennio 1969-1972. L’impatto più immediato che si ebbe con l’abolizione di esse, fu un livellamento verso l’alto dei trattamenti salariali stabiliti nei contratti stipulati durante l’autunno caldo, come un elemento significativo della forza ed unità del movimento sindacale. In questo quadro di grande peso del movimento dei lavoratori e di un protagonismo delle stesse forze di sinistra e del PSI nel governo di centro sinistra fu varata la Legge Brodolini che introduceva nel nostro ordinamento lo Statuto dei Lavoratori. Poco dopo, nel 1974, fu anche firmato l’accordo sul punto unico di contingenza. In questi anni si cominciò a registrare nel nostro Paese una forte spinta inflazionistica ed una spirale prezzi salari. Non c’è alcun dubbio che la dinamica salariale ebbe una sua parte in questo processo ma è del tutto fuorviante considerarla come la causa principale, dal momento che la crisi energetica e delle materie prime, all’indomani della guerra del Kippur del 1973, ebbero un ruolo determinante. Gran parte degli anni 70 e 80 sono stati segnati da alti livelli di inflazione, anche a due cifre, ed in qualche caso intrecciata con fenomeni recessivi.

Il combinarsi di inflazione e recessione rappresentò uno scenario del tutto nuovo ed introdusse nel linguaggio economico il termine stagflazione che anche di recente è stato evocato come una possibile fase della economia europea e italiana. In questi stessi anni crebbe in modo significativo l’imposizione fiscale, aumentata dal 1975 al 2005 di oltre il 20% a carico dei redditi fissi e sulle imprese. L’entrata in vigore dell’euro nel 2002,sia per il livello del cambio, sia per l’assoluta mancanza di controllo sui prezzi, ha comportato, di fatto, una riduzione strutturale del potere di acquisto dei redditi da lavoro dipendente e da pensione di ben oltre il 50%.

Su questo argomento c’è uno studio del CEP(Center for European Policy) di Friburgo che quantifica la seria perdita di ricchezza del nostro Paese nel corso degli ultimi venti anni, insieme con la Francia, a fronte di un bilancio positivo da parte della Germania.
La sommatoria e l’interazione di tutti questi fattori ha determinato inevitabilmente il calo progressivo della produttività del lavoro e, conseguentemente, della competitività del Paese, nonché il livellamento verso il basso dei salari e degli stipendi, del tutto insufficienti, anche nelle aree più sviluppate del Paese, dove pure i residenti possono spesso usufruire di specifici vantaggi (abitazione, rete familiare ecc.),o anche di più redditi da lavoro.


Nello stesso lasso di tempo l’esplosione del debito e della spesa pubblica, compreso il servizio del debito ed i conseguenti stringenti vincoli di bilancio, hanno compresso i margini di intervento dello Stato a favore dello sviluppo economico, imponendo, anzi, tagli di spesa lineari nei servizi essenziali e negli stessi stipendi dei dipendenti pubblici. Da ultimo, ad aggravare ulteriormente il contesto generale, in particolare sul versante del costo della vita e della già scarsa competitività del sistema imprese, la forte impennata dell’inflazione, indotta in parte dalla tumultuosa ripresa economica globale post pandemia (materie prime, noli ecc.),ma soprattutto dall’esplosione dei prezzi delle fonti energetiche a causa del conflitto russo-ucraino.

Ne consegue che, per quanto sussistano profonde disparità territoriali del costo della vita che ostacolano, fino a precluderla, la necessaria mobilità della forza lavoro, sia pubblica che privata, non sia oggi possibile ipotizzare una qualsiasi forma di riproposizione dei LIVELLI RETRIBUTIVI DIFFERENZIATI per area territoriale.
Insomma bisogna prendere atto che la ricostituzione, sia per via contrattuale che legislativa, di una differenziazione retributiva tale da colmare il superiore livello del costo della vita nelle zone più sviluppate del Paese rispetto al Mezzogiorno, sarebbe oltre che politicamente improponibile, del tutto incompatibile ed insostenibile con gli attuali costi di produzione del settore privato ed insostenibile con i limiti e i vincoli di finanza pubblica nel settore della P.A.
Altre sono le strade da percorrere al fine di rilanciare lo sviluppo ed, insieme, far crescere l’occupazione e il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi, ed anche il tenore di vita del ceto medio autonomo in larga misura “proletarizzato”. Occorre un rinnovato ruolo dello Stato che, a partire dalla piena attuazione del PNRR, predisponga, fra l’altro, un piano decennale di investimenti nella edilizia economica e popolare, nella sanità, nel trasporto collettivo, nella formazione di ogni ordine e grado. Un piano di questo tipo discusso con i vari livelli istituzionali (regioni, comuni ecc.) e con le forze economiche e sociali e deliberato in modo formale nel Parlamento può riportare il nostro Paese a pieno titolo sulla scena europea e internazionale. Naturalmente occorre che lo Stato sia profondamente semplificato, sburocratizzato e snellito, in una parola, seriamente riformato e non svilito e depotenziato sul piano interno ed internazionale come avverrebbe nella ipotesi di autonomia differenziata dell’attuale Governo. Questa è la grande sfida che sta davanti alla sinistra riformista e di governo.

Arturo Marzano

Onofrio Palieri

Arturo Marzano Già Deputato del PCI, Saggista

Onofrio Palieri Già responsabile delle Relazioni Industriali e delle Risorse Umane del Centro Siderurgico di Bagnoli, Direttore Intersind della Puglia e della Lombardia.

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