Alla nostra Assemblea annuale di sabato 4 marzo a Benevento, tra i diversi contributi c’è stato questo di Rocco Cirocco, Consigliere comunale a Molinara, che presenta una riflessione originale su un possibile altro modello di turismo e di valorizzazione dei territori interni, con le loro storie e culture non posti nè in una idea di pura musealizzazione nè nel tritacarne della turistizzazione. Si avverte in questo contributo la ricchezza di idee e percorsi che nel Sannio sono ormai consolidati e di cui tante Amministrazioni locali e la stessa Futuridea rappresentano riferimenti importanti.
LE AREE INTERNE. UN’IDEA RADICALE. UN MODELLO REALIZZATO.
Il fenomeno pandemico ha fatto emergere strade alternative alle logiche dell’agglomerazione urbana ed ha portato alcuni studiosi a teorizzare un futuro determinato dal ritorno al “piccolo e bello”. Le “aree interne” e i comuni meno estesi sono stati investiti da un’attenzione che prima non avevano.
Storicamente il termine “aree interne” faceva riferimento alla dorsale montuosa dell’entroterra, tradizionalmente più povera, rurale e scarsamente popolata, che Manlio Rossi Doria definì “l’osso” in contrapposizione alle ampie aree costiere, ben più prospere e urbanizzate, “la polpa” del Paese. Il concetto è stato ripreso ed esteso da Carmine Nardone nei suoi scritti, anche in relazione tra vecchi e nuovi dualismi.
Le aree interne sono entrate in una spirale di spopolamento e sotto-infrastrutturazione in parallelo alla diffusione e all’evoluzione dei meccanismi di produzione capitalistici. Già alla fine del XIX secolo buona parte della popolazione era emigrata all’estero in cerca di condizioni lavorative migliori, andando a ingrossare le file del proletariato urbano delle metropoli americane e nordeuropee. L’esodo divenne sistematico nel corso del XX secolo, con l’industrializzazione del Paese e la meccanizzazione dell’agricoltura. L’affermazione del modello consumista, di vita urbana moderna, ha generato poi una percezione delle culture contadine e delle pratiche tradizionali come arretrate e sottosviluppate, in un certo senso da superare.
Una miriade di piccoli comuni, generalmente chiamati “borghi”, rappresenta il paradigma delle aree interne. La narrazione tende a valorizzarli solo se inglobati nella egemonia del “turismo” insaporiti con una spruzzata di ecologismo, che poco ha a che fare con la “questione ecologica”. Le stesse politiche pubbliche soffrono di questa distorsione sistematica.
Dentro questo scenario esiste una rappresentazione malata di “metrofilia”, ovvero la fuga dai paesi che non offrono servizi, divertimento e prospettive di carriera. Peggio, come hanno cercato di rappresentare in una recente pubblicazione curata dall’Associazione Riabitare l’Italia, Contro i borghi, “si trae piacere dall’eccitazione per un oggetto percepito come atipico, privo di una propria volizione, da soggiogare e umiliare in un riconoscimento del tutto asimmetrico, dove il borghese illuminato e riflessivo «adotta» il borgo bello ma bisognoso. Un rapporto, questo, che misconosce l’autonomia dei territori, la loro libertà di «dire no», il loro carattere morale e paritario nella produzione di strategia di sviluppo condivisa. Fino a negarne l’identità specifica”.
Si aprono interessanti spunti di riflessione.
Innanzi tutto, bisogna partire dalla necessità di sgomberare il campo, di ripulire una discussione viziata, patologicamente urbana e molto borghese, di una borghesia che si crede riflessiva e green, stanca delle città calde, alla ricerca della frescura. Quello narrato e idealizzato è un insediamento per sottrazione che racconta di progetti che cancellano storia, geografia e rapporti col contesto, disegno di una realtà che elimina conflitto, comunità, relazioni. Un vero e proprio “abuso del borgo” costruito su una certa ambiguità: da una parte chi pensa che l’Italia dei paesi sia uno sfondo paesaggistico dove andare a rigenerarsi; dall’altra l’idea di pensare a quei luoghi abitati da comunità, da persone che hanno bisogni e desideri, che hanno necessità di una rigenerazione essenzialmente sociale.
Alle aree interne, ai borghi, vanno assegnate le attenzioni che meritano, con una netta presa di coscienza. Il tema è l’abitabilità quotidiana. La necessità è quella di uscire – in maniera sostanziale – dalla sola logica che tende a far rientrare tutto nelle categorie dell’estetica.
Le aree interne sono luoghi della produzione di processi di innovazione: mestieri tradizionali riletti in chiave contemporanea, laboratori per affrontare il cambiamento climatico coniugando anche l’economia delle “terre alte”. Ed è qui che voglio presentare un modello che “passo dopo passo” continua a compiersi, a realizzarsi.
A rappresentarlo è la cooperativa di produttori delle “Terre di Molinara”, ultimo atto di un percorso collettivo che appartiene ad una intera comunità in grado di dare una rilettura contemporanea all’identità del borgo di Molinara. Siamo in quell’angolo di Campania in cui la provincia di Benevento incrocia la dorsale appenninica, dove la profonda consapevolezza della cultura locale ha dato origine ad una rete di virtuose collaborazioni tra Università, Centri di ricerca come il CNR, mondo delle professioni e istituzioni pubbliche.
Molinara muove la sua rivendicazione di rinascita tra gli uliveti secolari di Ortice che ricoprono le campagne e sembrano scandire routine e ricorrenze di un paese consapevole della valenza di tre elementi essenziali da tenere insieme: paesaggio, cultura ed economia.
I proprietari di terreni e coltivazioni di Molinara hanno dato vita ad un percorso di aggregazione delle realtà agricole con l’obiettivo di arginare uno dei motivi profondi della crisi del sistema produttivo delle aree interne: la struttura individualistica delle attività economiche. Terre di Molinara non vende oggi semplicemente l’extra vergine che produce: vende l’identità di un luogo, quello che ha saputo essere e quello che ha saputo realizzare in un percorso condiviso. Un lavoro costruito negli anni, che ha dato anche una spinta all’integrazione al reddito di molte famiglie tornate a riprendere la coltivazione delle olive e che, di questi tempi, sta organizzando anche l’accoglienza, in azienda e nella comunità.
L’esempio Molinara induce al cambio di prospettiva. Le aree interne non solo hanno bisogno di contare di più e di non essere osservate soltanto su base demografica. Le aree interne devono essere considerate per quello che hanno, non per quello che manca.
Dal punto di vista istituzionale hanno maggiormente subito il pasticcio delle riforme delle province. Le comunità montante, invece, continuano a rappresentare la politica del nulla – organismi inconsistenti nei fatti – tutt’altro rispetto alla funzione di presidio territoriale di riferimento.
Il teatro della rinascita, come insegna Molinara, è possibile solo se cominciano a guardare le aree interne come “questione politica”, oggetto di pianificazione e investimenti. Affinché tutto questo possa avvenire, occorre ripartire dai servizi e dal lavoro: dall’agricoltura, dal turismo sostenibile e organizzato, dal sistema dei trasporti, dalla sanità e dalla scuola. Dalla difesa del suolo e delle acque. Tematiche e ambiti di intervento che discendono dai principi fondamentali della Costituzione ma che, nella costruzione di una rinnovata sostenibilità, hanno bisogno di sperimentare nuovi modelli, economici e sociali.
La vita nei piccoli centri delle aree interne può rappresentare il laboratorio di nuove libertà. Il Pnrr ha trascurato l’abitabilità dei territori del margine, le piccole economie, la necessità di adeguati servizi pubblici delle terre meno popolate. Il Pnrr ha acceso lo sguardo sulla ricaduta turistica, sui borghi da visitare, investendo su residenzialità temporanea, doppie abitazioni, servizi legati alla ricettività. Una sorta di cortocircuito di concetti che fanno pensare a chiese, castelli e piazze ma mai alle identità dei luoghi intimamente connessi con la produzione agricola e il paesaggio, al miglioramento qualitativo dei servizi per chi abita le aree interne, a sistemi capaci di aggregare più comunità. Non abbiamo saputo immaginare una nuova “coscienza di luogo” da realizzarsi attraverso un approccio territorialista, più funzionale e necessario nelle aree caratterizzate da tradizioni comuni, da identità locali somiglianti, da un senso di appartenenza e aspettative analoghe.
Volendo radicalizzare le posizioni, bisogna essere “maldisposti” nei confronti delle città. Rimuovere cioè quell’ambizione remissiva che concede la sola possibilità di essere merce di scambio, soddisfazione del benessere di altri – temporaneo, tra l’altro –, che tende a cancellare il conflitto.
Siamo obbligati, dunque, ad una inversione di senso, ad un approccio basato sul luogo – sui luoghi – che combina gli indirizzi strategici nazionali, sceglie le priorità, indica i criteri fondamentali ma lascia aperta l’applicazione territoriale. Un approccio anche a sostegno dei piccoli comuni, oggi non più capaci di assicurare progettazioni adeguate a causa della completa assenza di competenze a disposizione delle amministrazioni locali.
Molto più avanti della politica sono stati i vescovi delle aree interne che nel settembre del 2021 hanno saputo fare rete, oltre la logica dei campanili, per lanciare un messaggio alle loro comunità e alle istituzioni. Nel documento conclusivo della “due giorni” di Benevento a cui hanno partecipato venti pastori di dieci regioni italiane, dal Piemonte alla Sicilia, i vescovi spiegano che hanno «ascoltato la sofferenza e le attese del popolo, dovuta al progressivo spopolamento di molti centri e all’assenza dei servizi fondamentali e condiviso il senso di frustrazione delle popolazioni e l’abbandono da parte delle istituzioni».
I vescovi invitano le comunità a «fare rete». Alle istituzioni sollecitano, compatti, impegni precisi: «disegnare un nuovo modello di sviluppo, equo e condiviso». E, ancora, chiedono di «offrire risorse e disponibilità per costruire intorno alle potenzialità di carattere naturale, paesaggistico, storico, religioso e culturale una vera prospettiva di riscatto».
E’ stato soprattutto l’attivismo del Vescovo di Benevento, Felice Accrocca, a determinare un’attenzione di grande rilevanza per le aree interne. Il Vescovo, non la politica, ha messo attorno al tavolo i sindaci del Fortore, area interna della Campania. Il Vescovo, non la Comunità Montana del Fortore, ha organizzato e fisicamente accompagnato a Roma i sindaci ad un incontro con il Ministro per il Sud e la Coesione territoriale, Mara Carfagna. Dopo quell’incontro c’è stato il riconoscimento istituzionale dell’Area interna “Fortore beneventano” da parte del Comitato Tecnico.
Coesioni. Connessioni. Mettere insieme interessi. Aggregare funzioni. Associare i servizi. Confronto permanente tra organi e istituzioni. Le politiche separano sulla base di confini che hanno natura amministrativa, in ossequio a criteri disegnati dai centri o in funzione della ricerca del consenso. Solo raramente accompagnano e valorizzano le interdipendenze funzionali, i flussi di risorse verso le reali esigenze delle persone che vivono e lavorano a cavallo di questi confini, nello spazio che disegna aree omogenee. Mortificano, per esempio, le battaglie che fanno i sindaci per tenere in piedi classi di alunni composte da tre bambini per paese. Che futuro assegniamo alle coscienze di coloro che saranno gli abitanti di domani di questi luoghi?
Nelle aree interne il segno degli errori è più evidente. La valorizzazione del policentrismo richiede politiche di connessione tra territori capaci di generare scenari nuovi, di osare nel costruire reti, servizi e infrastrutture comuni. Riportare al centro i territori, mettere a nudo le contraddizioni di uno sviluppo squilibrato e indicare nuovi sentieri di rinascita sociali (ed economici) attraverso più precisi investimenti. Investimenti “di priorità” non di sola immagine. Anche per contrastare, con rinnovate forze, gli effetti del cambiamento climatico.
Rocco Cirocco
Fonti:
Contro i borghi (edizioni Donzelli) 2022
Metromontagna (edizioni Donzelli) 2021
Un Paese di paesi (edizioni ETS) 2021
Il futuro dell’osso tra vecchi e nuovi dualismi (edizioni Futuridea) 2021