Un libro importante questo di Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo: L’ULTIMO METRO’. L’Europa tra crisi economica e crisi sanitaria. Mimesis Editore 2022.
Importante intanto per l’autorevolezza dei due autori da sempre impegnati sul difficile terreno di una ricerca innovativa e critica o, se si vuole, innovativamente critica. E poi lo è soprattutto per lo spettro ampio e profondo di analisi economica e sociale della crisi del neoliberismo e dello scenario che essa apre, rispetto al quale mi limito solo a qualche scarna considerazione.
Intanto c’è una messa a punto di non poco conto: attenzione a intendere con neoliberismo una caduta di funzione dello Stato e dell’avanzare di un mercato libero. Tutto il contrario: la trasformazione neocapitalistica degli ultimi decenni ha avuto bisogno del ruolo di uno Stato piegato a interessi ed esigenze che in quella trasformazione maturavano. Una sorta di keynesismo privatizzato , come loro dicono, usato in una logica opposta a quella della esperienza storica. Rimane per gli autori dunque il tema che in questo quadro non basti dire piú spesa pubblica: se questa spesa non è orientata socialmente essa tende a sostenere le ragioni di uno sviluppo che separa i suoi interessi da quelli del mondo del lavoro e dei settori popolari. E dunque in questo mutamento di paradigma si impone anche il bisogno di una visione critica che si ponga oltre il keynesismo stesso.
Questa esigenza è sorretta da una spessa analisi degli equilibri determinati dopo la Seconda guerra mondiale; del processo costitutivo del Mercato comune europeo sollecitato dagli Usa e che ha assegnato nei fatti un ruolo economico centrale alla Germania in connessione con la quale si sono costruite nel tempo catene e filiere produttive; filiere e catene che hanno legato diversi paesi fino a configurarsi con una propria autonomia capace di scavalcare le possibilità di condizionamento delle politiche dei singoli Stati. Da qui anche per gli autori il bisogno centrale di recuperare nella dimensione europea l’unico spazio minimo di condizionamento critico delle dinamiche affermatesi negli ultimi decenni su cui ormai dal livello nazionale non riesci ad incidere. Catene e filiere produttive poi che hanno visto un mutamento di equilibri a ridosso dell’unificazione tedesca e dell’allargamento a est dell’Unione mettendo in difficoltà il ruolo, al loro interno, dei paesi dell’Europa mediterranea, Italia compresa.
Il sommarsi di crisi economica, di crisi pandemica e di crisi ambientale segna un punto limite raggiunto dall’attuale modello di sviluppo capitalistico, che, ricordano i nostri autori, ha goduto di una esplosione di finanza circolante senza precedenti e si è sostenuto anche su un fortissimo ampliamento dei livelli di indebitamento privato . Anche in questo modo ad un mondo del lavoro colpito nella quota di ricchezza percepita si è consentito un ‘recupero’ di disponibilità drogata proprio per via indebitamento. La crisi pandemica si presenta come dato non episodico di quel ‘ rapporto esasperato del capitale con la natura ‘ che appare come un connotato strutturale della crisi ambientale.’ Oggi si cerca una risposta miracolosa nel vaccino, che ci consenta di sognare un ritorno alla vita di prima, rimuovendo a un tempo l’imperiosa necessità di un diverso modo di produrre e di stare in società. Si nega la causa di fondo della crisi, che è il rapporto di rapina e distruzione della natura….Altre (pandemie) seguiranno nell’incapacità di modificare i rapporti sociali...’ ( p80 )
È in questo dato strutturale che si apre quello spazio di opportunità/necessità di lavorare, dentro questa crisi, ad un altro paradigma :” Dopo il coronavirus non si tratta di tornare a crescere, ma di ridefinire alla radice il senso e i contenuti dello sviluppo… L’equilibrio della nostra vita economica e sociale si è rivelato troppo precario ( e violento ), per permetterci di non rischiare nuovi esperimenti, e che questi esperimenti non possono salvarci se non hanno un contenuto rivoluzionario. Perché se così non è, l’immaginato riformismo si tramuta in una modernità e in uno sviluppo dai caratteri socialmente regressivi.’ Questo “ci obbliga a tornare ai temi fondanti della macroeconomia, che deve considerare non solo il livello di occupazione ma anche a cosa serve l’occupazione. In questa logica è necessario radicalizzare la nozione di socializzazione dell’investimento, trasformandola in quella di economia della produzione sociale : la sfida che abbiamo davanti riguarda infatti il ‘come’, ‘cosa’,’quanto’, e ‘ per chi ‘ produrre. ” ( p84 e seguenti ).
Esattamente, mi permetterei di aggiungere io, i temi che nella seconda metà degli anni ’70 andava ponendo Enrico Berlinguer proprio per superare ogni visione meramente quantitativa e produttivistica dello sviluppo.
Questa finestra di opportunità/necessità si è aperta a ridosso della crisi pandemica e climatica. Nelle dinamiche nazionali si è tradotta in una rinnovata centralità dei sistemi sanitari pubblici e nell’approntamento di strategie contro i cambiamenti climatici mentre a livello europeo ha visto l’avvio di un importante per quanto ancora limitato processo di mutualizzazione del debito e di investimento comune, il Recovery Found con i PNRR nazionali.
È ancora aperta questa finestra? E se si, ancora per quanto? Gli autori sottolineano come per agire questo spazio siano indispensabili due condizioni : una soggettività sociale -‘ senza la quale nè riforma della crescita nè ridefinizione dello sviluppo sono possibili –‘, ( p82 ) ; e una alternativa in campo politico. È fin troppo facile constatare come su entrambi i lati del problema manchino soluzioni. Sul piano sociale è di grande interesse, tra gli altri, il riferimento alle trasformazioni indotte nel lavoro e nella sua organizzazione dal digitale, dalla manifattura 4.0, dall’IA e dal ruolo sempre più invasivo di algoritmi proprietari con nei fatti l’incapacità del soggetto sindacale di individuare questo come proprio terreno di lotta sindacale e di conflitto. Anche molto a livello europeo. Su questo è davvero lunga la riflessione di Francesco Garibaldo tanto più impegnativa oggi nel suo ruolo di Direttore della Fondazione Claudio Sabatini. E allora certo non si può non convenire con la chiusa del libro che sollecita uno sviluppo di riflessione corale, a volerlo prendere di petto: ‘ la presenza di una forte iniziativa sindacale – meglio, di una nuova soggettività politica e sociale, che va pazientemente costruita – per rovesciare questo stato delle cose è indifferibile, se si vuole tornare a mettere al centro l’urgenza di un’economia della produzione sociale, o per lo meno porre un argine alla deriva in atto.‘.
Con il che potremmo anche dire che la lingua batte dove il dente duole.
Sarebbe interessante sapere come gli autori valutino la fase che si è aperta nei mesi successivi alla stesura del libro quando sotto l’incedere della guerra Russia-Ucraina utilizzata per una nuova stretta occidentalizzante e con la apertura di una crisi nelle filiere di approvvigionamento energetico e con l’esplosione di una spinta inflattiva sono ‘tornate’ al centro le esigenze del mercato e della produzione tout court, alla faccia della crisi climatica e di quella pandemica, respingendo ogni ipotesi di ampliamento delle logiche nuove di produzione sociale. Aggiungiamoci il voto politico di settembre con l’azione del governo di destra che si va dispiegando in coerenza con le nuove priorità e il quadro si completa.
Che rimane di quello spazio aperto?
Probabilmente poco, molto poco in termini di azione di politiche rebus sic stantibus.
Ma ne rimane tutta quanta l’esigenza: facendo finta di non vedere o non volendo vedere si prepara solo il tempo di nuove e più gravi crisi. E allora rimane tutto l’impianto di analisi e di prospettazione di un nuovo paradigma di sviluppo del lavoro di Riccardo Bellofiore e di Francesco Garibaldo : materiali preziosi a volerci lavorate su politicamente. E questo è esattamente il vuoto da cui non riusciamo a schiodarci e che ci impedisce di strappare il futuro dalle mani proterve dei pochi che oggi lo governano.
Gianfranco Nappi