Possibile che non riusciamo a vedere il tempo che stiamo vivendo? O è solo voglia di non pensarci? L’immagine del Titanic, per quanto abusata, è però sempre più calzante. Forse, più che gli scongiuri è il caso di cominciare/ricominciare/in modo ancora più forte a fare qualcosa.
Il Papa, rientrando dal suo viaggio in Africa ha detto :
“ Sì, ci sono guerre più importanti per il rumore che fanno, ma tutto il mondo è in guerra, e in autodistruzione. Dobbiamo pensare seriamente: è in autodistruzione. Fermiamoci in tempo! Perché una bomba richiama una più grande e una ancora più e nell’escalation non sai dove finirai.”
Per il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, invece i nostri occhi sono ben aperti. Ha avuto modo di affermare non più tardi di due giorni fa :
“ Le possibilità di ulteriore escalation e spargimento di sangue continuano a crescere. Temo
che il mondo non stia camminando come un sonnambulo in una guerra più ampia, temo che lo stia facendo con gli occhi ben aperti” … il mondo “ è al più alto rischio da decenni di una guerra nucleare …un annientamento nucleare causato in modo accidentale o in modo deliberato”.
Possibile che tutto questo non generi una reazione adeguata al pericolo?
Questo è un interrogativo per certi versi angosciante che a momenti assale.
Nel flusso informativo-digital-multimediale nel quale siamo immersi tutto viene macinato-digerito-espulso-sostituito in modo vorticoso.
Così è per tutte le emergenze che vive il mondo, da ultimo il terremoto tra Turchia e Siria, compresa la guerra: digerita e normalizzata.
Almeno dal punto di vista mediatico.
E forse è questo che non ci fa percepire la minaccia reale, la guerra come fatto che precede e/o segue l’ultimo gossip sull’eredità della stella del cinema; il Covid in calo; la Juve quasi retrocessa; Blanco che a Sanremo distrugge il palco…
Un susseguirsi in cui si perde il peso reale di ciascuna notizia e si rimane solo con la sensazione di un normale succedersi di fatti che autoalimentano la certezza del loro perpetuo succedersi.
Penso che questo colga un aspetto della verità.
Ma penso anche che non sia sufficiente per spiegarsi com’è che qui, nel cuore dell’Occidente, noi con questi nostri occhi aperti eppure non riusciamo a vedere.
E non a caso invece ‘vedono’ occhi globali, come quelli del Papa e del Segretario dell’ONU.
Ci deve essere qualcosa di altro che ritrovo in altre riflessioni sempre di questi giorni.
La Lettura di domenica ha una intervista all’autore di un libro in uscita Mark Leonard L’Era della non-pace. Perché la connettività porta al conflitto.
Già il titolo dice tanto. Siamo nell’era della non-pace. E quindi della ( quasi ) guerra permanente? Ciò a cui stiamo assistendo, dice lo storico, è un tempo nel quale, dopo le speranze della globalizzazione, tutto viene buono per essere usato in uno scontro guerreggiato: non solo le armi, vedi Ucraina, ma anche la Rete, le materie prime, le fonti energetiche, il cibo…Insomma, il problema è l’interdipendenza “ che pensavamo avrebbe trasformato i nemici in amici e avrebbe creato un mondo senza conflitti: ora abbiamo capito che l’interdipendenza ci apre a ogni tipo di vulnerabilità, ci mette in posizione di debolezza”.
L’interdipendenza come problema. Anzi come origine del problema.
Due giorni fa, questa volta sul Corriere quotidiano, Biagio De Giovanni ha sviluppato una riflessione impegnativa sul tempo in cui siamo entrati.
Scrive De Giovanni : “ La guerra segna la fine della globalizzazione come capacità dell’interdipendenza economico-commerciale di muovere verso la formazione di un ordine mondiale più unificato e pacifico, una sorta di nuovo cosmopolitismo”.
E invece, quello a cui siamo di fronte è “ lo scontro in atto e in potenza tra il ‘potere orientale’ e il ‘potere occidentale’.
Siamo per De Giovanni quindi ad un vero e proprio scontro di civiltà con da un lato Russia, e dietro ancora, Cina e più avanti forse anche India.
Continua De Giovanni: “ Dunque la resistenza dell’Occidente è per la propria sopravvivenza come continente della libertà”. E decisivo sarà il comportamento dell’Europa “ centro di civiltà, dove nasce l’Occidente, che deve rinascere…”
E finisce:
“ Tra potere orientale e potere occidentale ora non c’è mediazione possibile, lo scontro è appena cominciato, questo significa che la globalizzazione come pacifica celebrazione della interdipendenza è finita, e si apre la lotta per un nuovo ordine del mondo”.
Ecco dunque perché non vediamo pur avendo gli occhi aperti: semplicemente perché nel pensiero dominante in Occidente, noi davvero siamo già in guerra. De Giovanni, con la sua acuta sensibilità, lo dice in modo chiaro e rende in un modo che più chiaro non si potrebbe, il senso di quel che sta accadendo.
Io, mi dispiace, lo trovo impressionante.
Trovo cioè impressionante introiettare l’idea della inevitabilità della guerra, perché di questo stiamo parlando.
E’ introiettare questo che non mi fa vedere seppure io sia ad occhi aperti.
Quanto questo sia grave poi, ce lo dice il fatto che siamo nel dopo Hiroshima e Nagasaki e, con il nucleare, come dice il Papa citato da Alex Zanotelli nell’apertura del nostro nuovo numero di Infinitimondi che ieri abbiamo anticipato, finisce anche il tempo della guerra giusta.
Semplicemente con il nucleare il rischio è di una escalation che giunga al punto di non ritorno e di autodistruzione dell’umanità, come dice Francesco.
E il fatto che qui, dall’Occidente, dal cuore dell’Europa, non si riesca a ‘pensare’ e ad ‘elaborare’ nulla di diverso dall’idea di uno scontro definitivo con ‘l’altro’ non è esso stesso segno di una sua crisi profonda? Quanto meno di incapacità di fare egemonia?
E poi. Ma siamo davvero la culla della civiltà? E se è così, com’è che da questa culla sono nati fascismo e nazismo, è stato teorizzato e praticato l’Olocausto e, prima, mentre Cartesio, Kant ed Hegel elaboravano certo le vette del pensiero, si consumavano contemporaneamente con il colonialismo oscenità e brutture contro l’uomo e la natura del tutto indicibili, ben iniziate con le modalità di conquista delle Americhe?
Anzi, per dirla tutta, quello che viene a crisi in questo tempo è proprio quell’idea che ha attraversato tutta la modernità, e che ne ha rappresentato in qualche modo uno dei fondamenti : la superiorità e il primato dell’Occidente su ogni altro pensiero e sulla natura.
La questione è quindi complessa.
Voglio tenermi stretta la mia libertà. La difendo. Tanto più che non mi è stata concessa ma proprio essa, qui in Europa, è stata il frutto di una guerra, della Resistenza, della lotta al fascismo e al nazismo, di una Costituzione che ha delineato i caratteri di una democrazia che va oltre i confini liberali con le masse popolari e il movimento operaio che per la prima volta hanno avuto un ruolo attivo.
E proprio il rendere questo meno nitido in questi decenni ha indebolito proprio democrazia e libertà in Occidente.
E allora, forse qui viene un primo punto che possiamo mettere.
Che cosa è entrato in crisi evidente? L’interdipendenza, mai veramente cercata e costruita o invece l’idea delle relazioni nel mondo, a partire dell’89, come finalizzate ad un allargamento del mercato all’infinito?
Cioè, io contesto che si sia realizzata l’interdipendenza in questi decenni.
Si è realizzata invece l’unificazione del mondo in nome del mercato, del produttivismo e del profitto. E in questa unificazione del mondo il capitale è stato costretto a fare entrare pienamente in circolo – nuovi mercati per le proprie merci e la propria finanza – paesi, aree del mondo, culture che partivano da condizioni di svantaggio. Poi però, in questo mercato diventato tutto intercapitalistico, lo stesso suo meccanismo interno ha generato processi di concentrazione oligopolistica tra pochi grandi giocatori mondiali e, quindi, di competizione diventata di nuovo competizione tra aree del mondo.
Lo scontro nasce cioè dall’idea falsa che il mercato fosse sufficiente ad unificare e pacificare il mondo nel segno dell’egemonia di pochi grandi colossi occidentali.
Questo ha invece alimentato risorgenti nazionalismi.
E nel processo di modernizzazione avviato, alcuni nuovi giocatori hanno imparato a giocare da soli e pensano in grande. A cominciare dalla Cina.
Su questo nodo ha scritto cose di grande importanza Piero Bevilacqua nel suo ultimo lavoro: “ Non è evidente a tutti che all’interno del paradigma competitivo lo sbocco finale è la guerra, il tentativo rovinoso degli Stati militarmente più potenti di prevalere con la forza sugli altri per accaparrarsi le risorse ancora disponibili?” ( Un’agricoltura per il futuro della terra. Slow food Editore, che peraltro presto presenteremo a Napoli ).
Ora, evocare o rievocare lo scontro di civiltà da portare alle estreme conseguenze, e c’è da rabbrividire, significa proprio disarmare ogni spinta per la pace e per un ordine mondiale nuovo non fondato sul mercato e sullo sfruttamento.
Ecco la verità che si vuole coprire con un rilancio ideologico in grande: il mondo per salvarsi invece ha bisogno di vedere l’interdipendenza e darle una forma giusta, plurale, capace di valorizzare storie e culture che pure vogliono rimanere diverse ma non per questo vogliono rinunciare a discutere, confrontarsi e lavorare insieme.
Sì, perché l’interdipendenza non è una scelta politica: è un vincolo.
Perché in questo mondo unificato è evidente che le contraddizioni più acute solo in uno sforzo comune potranno essere affrontate: cambiamenti climatici, pandemia, povertà e fame nel mondo.
E allora, attenzione.
Davvero serve che una nuova mobilitazione di donne e uomini si faccia sentire con forza proprio qui nel cuore dell’Occidente e rivendichi un futuro di pace, di disarmo, di giustizia planetaria.
E proprio per l’anniversario della sciagurata invasione dell’Ucraina ci sono appuntamenti importanti per far sentire con forza la voce dei popoli europei.
Mai come ora questa voce serve.
Gianfranco Nappi
Letto qui al computer una seconda volta:
condivido e grazie a Gianfranco per la ricomposizione delle importanti citazioni. In verità spesso mi risuona la voce del Papa (con le sue parole ripetute dai media) come un continuo campanello d’allarme che sembra ascoltato da tutti ma accolto da pochi in un mare di incuria umana…ma noi dobbiamo puntare ad oceani di pace con fattiva responsabilità e tenace coesione anche gestendo in modo nuovo lacerazioni personali (frutto di propria formazione culturale e politica) perché so che, in ogni caso, è una nostra peculiare forza soprattutto in questi tempi sempre più inquietanti … ma il mio disorientamento e il senso di impotenza persistono.