La possibilità di guardare al teatro del grande Eduardo De Filippo per trovare categorie entro le quali inserire i nostri più svariati dubbi dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, la straordinarietà artistica del drammaturgo napoletano. Dunque voglio seguire il filo tracciato da Gianfranco nel suo incipit, ovvero guardare ancora ad Eduardo: quella nuttata, come tutti ricordiamo, era il dubbio che abbracciava la famiglia rispetto alla salute della piccola malata di casa. E’ un dato non da sottovalutare. La medicina era stata, dopo tanto girovagare, trovata, e la nuttata conteneva in sé la possibilità di una riuscita, la concreta guarigione di quella giovane vittima, anch’essa, della guerra. E allora, per restare nella metafora, siamo sicuri che sul destino della sinistra politica aleggi ancora la possibilità di una guarigione? Siamo davvero convinti che la nuttata, una volta passata, possa cedere il posto ad una giornata nuova? O forse dobbiamo ammettere che la nuttata è davvaro passata e che la bambina non è affatto guarita e che, anzi, si è aggravata o non è addirittura morta? Credo sia, dunque, fondamentale partire da questa constatazione: non c’è alcuna speranza se guardiamo con gli occhi a cui siamo stati abituati a vedere, se offriamo la stessa medicina. La sinistra, per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 30 anni, non esiste più, e ragionare ancora ancorandosi a quel corpo, con le sue categorie è solo pia illusione. Sia chiaro, la mia non è la retorica della sinistra del novecento che ha esaurito la “spinta propulsiva”- la sua archiviazione è un fatto che la storia si è incaricata di eseguire-, ma parlo proprio del modello di sinistra e di centro-sinistra che è stato elaborato e proposto agli elettori in questo trentennio: è morta la sua impalcatura teorica, la sua strategia di governo. Ed il funerale non è stato celebrato il 25 settembre. L’esito delle ultime elezioni è solo l’ennesima conferma di una scia di sconfitte non soltanto elettorali ma culturali e sociali che vengono da lontano, forse dalla più grande vittoria, in termini di voti assoluti, che la destra abbia mai raccolto: quella del 2008, così come dai flussi elettorali per cui gli emarginati non votano a sinistra da anni oramai.
Sgombriamo quindi il campo da ogni equivoco: non è possibile chiedere a questa sinistra, a queste strutture, a questa impalcatura teorica, a queste forme di organizzazione qualsiasi rinnovamento, poiché è in atto un processo di autoesaurimento della loro stessa funzione politica, e credo che quanto stia succedendo nel Pd lo dimostri a pieno titolo. Non va sottovaluta, e Gianfranco si premura di segnalarlo, come la gigantesca questione morale squarcia il velo di Maya della presunta superiorità che per tanti anni la nostra parte politica ha esibito come propria bandiera, facendo spesso coincidere, appunto, la morale alla politica e non renderla invece pratica di per stessa autonoma, requisito imprescindibile per qualunque azione. Ma anche qui, cari compagni, era davvero necessario il Quatargate per scoprirlo? O forse non bisognava allarmarsi già a quel famoso “abbiamo una banca” che l’allora segretario del più grande partito che osava definirsi socialdemocratico pronunciò dimostrando che la scelta del terreno di gioco non era più quello della battaglia politica, ma era altro e altri erano i mezzi.
E dunque? Dobbiamo abbandonarci al nichilismo più totale? Niente di più sbagliato. Va invece operata una profonda rilettura della società ed una radicale azione dirompente che prenda atto di come, nell’arco di appena tre anni, il mondo non solo è cambiato ma è ri-cambiato almeno altre due volte: pandemia, guerra, disastri ambientali, dissoluzione del corpo democratico, insomma già quello che dicevamo appena due anni fa ha la necessità di essere aggiornato. Chiarendo innanzitutto chi, quale corpo sociale vogliamo rappresentare? Che ruolo dare ed offrire al conflitto? Essere nei luoghi del conflitto sì, ma come? Comprendendo, innanzitutto, le strutture su cui si regge il capitalismo moderno che, per quanto forte e prepotente esso sia, ha in sé una debolezza profonda: l’incapacità, come l’ha definita Marco D’Eramo, di offrire un sogno che possa, dunque, guardare oltre il contingente. L’ipoteca sul futuro del nostro pianeta sta proprio lì a segnalare come il capitalismo sfrenato ed il turbo-liberismo sono gli ingredienti più nocivi per il futuro, altro che promessa di progresso!
Scegliere il terreno della lotta diventa, dunque, fondamentale e per me non può che essere quello ambientale e tecnologico: è lì che si misura la capacità di costruire un’alternativa di sistema, è lì che si misura la concreta possibilità di un miglioramento reale delle condizioni di vita di chi è più povero- a patto che siamo capaci di colmare il gap che su questo tema si registra, ovvero quello di una sensibilità che, per ora, solo le classi più agiate sembrano provare mentre i poveri sono, costantemente, altrove- è lì che si deve necessariamente ripensare questioni come la distribuzione della ricchezza (chi ha troppo inquina troppo), la centralità del mercato invece che dei popoli e tutte le lotte antiche e moderne che ci aspettano, compresa quella della pace che non può che ritornare, come un assillo, nelle agende di ciascuna forza realmente di sinistra: è possibile un mondo senza nucleare da guerra? L’imperialismo occidentale quante e quali facce ha? È il momento di investire nella costruzione di un nuovo ordine basato sul ripagamento dei debiti che noi, popoli del primo mondo, abbiamo nei confronti degli altri? Il piano tecnologico è quello dove più di tutti la pervasività del capitalismo moderno mostra la sua faccia più feroce: dati, algoritmi, localizzazioni, nuovi monopoli e immensi patrimoni che superano il pil di paesi europei e dunque nuovi domini, nuovi sfruttamenti e nuovi sfruttati. Con essa si è plasmata una nuova antropologia liberista. È dunque giusto battere il terreno per una tecnologia democratica? Per uno sviluppo che sia inclusivo e su cui la politica assuma una forma di presenza? È da lì che passa il nuovo lavoro, è da lì che passa la nuova necessaria opera di egemonia e di coscienza di classe che va ripensata e rimessa in campo.
Il come? La risposta non credo sia facile, ma forse, c’è bisogno della disponibilità di tutti, di una messa in discussione di tutto ciò che ad oggi c’è, di una connessione reale con tutti gli attori che, in un modo o nell’altro, fanno cittadinanza attiva nelle svariate forme e, quindi, non soltanto politiche.
C’è bisogno di mettere da parte, credo, l’ansia del potere: d’altronde, scarpe rotte pur bisogna andar.
Antonio Avilio
L’ARTICOLO DI GIANFRANCO NAPPI : https://www.infinitimondi.eu/2022/12/20/adda-passa-a-nuttata-ma-quann-passa-sta-nuttata-di-gianfranco-nappi/