Pace e Guerra
Mentre raccoglievo i materiali per questo lavoro per il centenario della sua nascita , rileggevo interviste, relazioni, testi di comizi di Berlinguer, quel suo impegno estremo per la pace e il disarmo dei suoi ultimi anni, pensavo ad una loro attualità politica, come insegnamento, come bisogno da tenere sempre vivo.
Mai avrei immaginato di dover completare questo lavoro in giornate in cui alcune delle sue parole più che attuali appaiono addirittura profetiche.
Profezia in senso laico, ovvero intesa come monito dato sulla base di esperienze personali o del proprio modo di considerare il corso degli eventi.
È difficile sfuggire alla crescente sensazione di essere immersi in una crisi organica del mondo.
Volutamente voglio riprendere questa espressione che è di Enrico Berlinguer: crisi del mondo.
Ovvero, crisi dei suoi assetti, delle sue relazioni e crisi del suo produrre, del modo di organizzarsi delle sue società, perfino del modo di pensarsi.
Alla fine, è durata davvero poco la rivoluzione liberistico-finanziario-informazionale.
Oggi siamo di nuovo alla guerra, di nuovo nel cuore dell’Europa: è da questa novità assoluta, per l’Europa del terzo millennio, che debbo prendere le mosse.
Mentre scrivo nessuno sa come finirà. Quando. Con quali ulteriori costi.
Ma tante cose sono già evidenti, accumulatesi in pochissimo tempo e così radicali da fare sorgere il legittimo interrogativo: ma com’è che non avevamo capito quel che stava maturando? Ma davvero non c’erano segni premonitori? Ma davvero Stati e Governi non avevano strumenti per capire, e vedere e agire prima? Ma allora davvero oggi l’unico sorvegliato in questo capitalismo reale è il semplice cittadino di cui le Piattaforme cercano di carpire perfino in anticipo i suoi desideri, determinandoli?
Lasciamola sospesa questa domanda: lasciamoci interrogare in permanenza da essa.
La guerra, quella più classica, più antica è esplosa. Non quella asettica delle serie TV, dove sangue, morti, distruzioni, dolore sembrano scomparire. Ma quella che intravediamo, drammatica, dalle devastazioni e dalle sofferenze di civili inermi che ci è apparsa dalle cronache informative.
La responsabilità è sulle spalle del Governo russo, del suo Presidente Putin, della sua classe dirigente.
Se il popolo ucraino sta pagando un prezzo altissimo, ingiustificabile, un prezzo gravissimo lo sta già pagando anche quello russo, per responsabilità primaria della sua leadership.
Un paese devastato; una guerra che, tornata ad essere osceno strumento politico, può ripresentarsi dall’Ucraina come possibile in altri spazi del continente.
È importante specificarlo, perché la guerra non è scomparsa dal mondo in questo scorcio di epoca della pacificazione, per come ce l’hanno raccontata.
A dire il vero neanche dall’Europa essa è mai scomparsa: un cumulo di fanatismi e di nazionalismi etnico-religiosi è stato alimentato con la disintegrazione della ex Jugoslavia, quasi invocata miopemente da più di un paese europeo.
E poi vennero la guerra, le pulizie etniche, Sarajevo dove alla fine non rimase neanche un albero in piedi.
Eravamo oltre la metà degli anni ’90 del secolo scorso. L’89 era vicino e fortissima la piega che aveva preso nel rapporto con l’Est da parte dell’Ovest: omologare tutto alle logiche di mercato e di rapina che si presentavano allora come ragione del mondo nella sua fase costitutiva, ascendente.
E Putin è la principale espressione di questa deriva: di un Occidente che non ha pensato l’Est come co-protagonista di un farsi nuovo della stessa idea di Europa e con un Est che progressivamente ha sviluppato integrazione dipendente nei meccanismi del capitalismo globale – con un suo nuovo ceto di super ricchi globali – unito a risorgente nazionalismo con tratti sempre più autoritari, repressione di ogni forma di dissenso, forte presenza di veri poteri criminali.
Nella rincorsa allo scavalco su chi è da noi più intransigente nei suoi confronti è miserrima la corsa dei tanti, italiani ed europei, a fare sparire le foto amichevoli e compiacenti con lo Zar da cui oggi si prendono le distanze.
È la destra italiana ed europea che deve provare vergogna per il suo passato-presente recente non di dialogo, che va sempre bene, ma di cointeressenze multiple con Putin e il suo entourage.
Perché nel nostro paese nessuno lo dice?
In questa spinta all’ union sacrèe che è più che giustificata nella lotta per la pace e per fermare la guerra, nella solidarietà attiva nei confronti della popolazione ucraina, più che giustificata nella imposizione anche di durissime sanzioni alla Russia che non hanno precedenti, non ci si può spingere fino a non vedere, al tempo stesso, il drammatico bisogno di politica.
Attenzione a non fare il gioco di Putin, e di tutti quelli come lui.
Già in queste settimane si sono consumate scelte dai tratti di rottura e senza precedenti: ma davvero l’invio di altre armi in Ucraina è stata scelta giusta? Io ho seri dubbi. Penso anzi che tra gli altri abbia ragione Maurizio Landini, il Segretario della CGIL, che si è detto contrario.
E di sicuro non lo è questa corsa al riarmo che già in questi primi venti anni del terzo millennio ha visto raddoppiate, sì raddoppiate, le risorse ingoiate.
Non male per l’era della pacificazione e della fine della storia.
E ora, un vero e proprio salto ulteriore.
E mi appare come una rottura gravida di conseguenze la decisione della Germania, che ribalta oltre settanta anni, di investire 100 miliardi e il 2% del suo futuro Pil in armamenti.
E non diversamente si può giudicare questo rilancio della Nato come assorbente rispetto a istituzioni europee e Osce.
Tanto più, tutto questo, dopo la disdetta operata da Trump nel 2019 dell’accordo sul disarmo sottoscritto nel 1987, a chiusura della vicenda degli Euromissili nucleari, da Ronald Reagan e Michail Gorbaciov, per il quale accordo proprio figure come Olof Palme, Willy Brandt ed il nostro Enrico Berlinguer tanto si erano spese insieme ad uno straordinario movimento di pace: vicende che hanno un ruolo centrale nelle riflessioni proposte da questo lavoro.
Invece, tutti insieme, tutti d’accordo oggi.
E se ti metti su questo piano, poi certo appresso arriva tutto il resto: da Putin si passa ai Russi in quanto tali, li si individua come co-responsabili: come cultura, come popolo.
Si intravedono in questo i segni riconoscibilissimi di un tragico passato che ritorna.
E più noi siamo questo, più il nostro messaggio si riduce a questo, ad un noi e voi, di nuovo ad un al di qua e un al di là, e più i Putin di oggi, e quelli che potranno venire, saranno aiutati nell’imprigionare il proprio popolo nella gabbia nazionalistica e del nemico che accerchia.
Come parliamo a quella società russa che si è attivata contro la guerra di Putin? Come parliamo alle migliaia di donne e uomini arrestati per il loro no alla guerra? A quei tanti intellettuali, scrittori, registi, giornalisti che con coraggio si sono espressi a favore della pace lì dove questo costa licenziamento, discriminazione, quando non anche fine della propria libertà?
Bellissima la lettera che Lev Dodin, Regista e Direttore del Teatro di San Pietroburgo, uno dei più importanti di Russia ha indirizzato a Putin: ”… Ho 77 anni, non è difficile per me immaginare cosa accadrà dopo ovunque, ovunque: la divisione in giusti e non giusti, la ricerca dei nemici interni, la ricerca dei nemici esterni, i tentativi di modellare il passato, di accogliere il presente, per riscrivere il futuro. Tutto questo è già successo nel 20° secolo…In questi giorni che viviamo, siamo arrivati nel futuro. È in questi giorni che inizia il 21° secolo. Insieme, abbiamo realizzato questo secolo ed è arrivato così com’è. Il 21° secolo si è rivelato più orribile del 20°…”. (1)
È oggi, nel vivo della guerra, che devi provare a delineare un futuro utile per il popolo ucraino e per quello russo, e per tutta l’Europa.
E’ oggi, nel vivo della guerra che occorre far sentire la voce dei popoli per la pace, come pure sta avvenendo.
È questo che più di ogni altra cosa isola il nazionalismo da cui scaturisce la guerra, ne accorcia i tempi: e Putin è certo tante cose, ma di sicuro è espressione proprio di questo nazionalismo estremo.
Insomma, se è tornata possibile la guerra nel cuore di quell’Europa che ha visto l’Olocausto e che ha sconfitto il nazismo anche grazie al sacrificio di milioni di ucraini e russi, cosa ci mette al riparo da un possibile ampliamento/cambiamento dello scontro, fino al considerare usabile anche l’arma nucleare, quella irreversibile, quella che non lascia un dopo?
E il nucleare torna come minaccia ulteriore anche per un possibile incidente in una delle centrali nucleari disseminate nel territorio ucraino e tornerà perfino come incubo e spinta rinnovata per la produzione di energia di fronte agli effetti della crisi in atto.
È per questo che sono impressionato da questo arruolamento generalizzato.
Mi spaventa per quel che si porta appresso: non l’accelerazione della pace ma la preparazione del terreno per altri scontri.
Eccolo l’arretramento che stiamo già vivendo.
Fermarlo non è altra cosa dal fermare la guerra.
La solidarietà attiva, operosa con il popolo ucraino anche di questo si deve nutrire, proprio per abbreviarne le sofferenze.
E quindi qui veniamo al bisogno di una visione, di un pensiero tanto forti da ricomprendere tutta l’Europa.
Se la politica non è questo, cosa è? E come fai ad essere e a dirti sinistra se non lo fai?
È in questo vuoto che è tornata la follia della guerra.
È nell’aver rinunciato a pensarla in grande per davvero l’Europa, come sviluppo comune, come cultura, come sguardo aperto sul mondo e sui suoi problemi, verso Est e verso Sud, verso quell’Africa di cui continuiamo a rapinare terra e risorse per restituirgliele sotto forma di rifiuti tossici e nel mentre dichiariamo guerra, questa sì nuova di questo ultimo ventennio, ai suoi migranti.
Oscurati li definiva Pietro Ingrao in una sua bellissima poesia: non perché non abbiano una propria luce o un proprio nome ma perché noi gli togliamo anche questo nel mentre con la nostra indifferenza lasciamo che, a migliaia, muoiano inconosciuti inghiottiti dal Mediterraneo (2).
E allora, se non riparti da questo, che pace puoi pensare di costruire? Putin non ha alibi né giustificazione alcuna.
Ma tu, Europa, per te e per il tuo ruolo nel mondo, che bisogno hai di spingere la Nato fino ai confini della Russia? E non ci sono forse analisi avvertite negli stessi Usa che da anni prevedevano esiti drammatici derivati da questa scelta?
Si può tacere su questo?
Un guasto grande si è già consumato.
E più grande sarà se non si invertirà quanto prima la tendenza.
Di fronte alla guerra, appaiono lontane anni luce le preoccupazioni per il cambiamento climatico, per la Pandemia.
Quel fragile eppure realizzato sforzo comune, oltre confini, Stati, logiche economiche, di fronte a queste gravi emergenze sembra spazzato via.
Eppure è ad esso che occorre tornare.
E allora, davvero è durata poco questa stagione dei luccichii del capitalismo reale del nostro tempo
In un vorticoso incedere sembra avere consumato e bruciato in un battito il suo tempo: eccola la crisi del mondo, di questo mondo costruito a sua immagine.
Quanto è durata la fine della storia? Fino alla prima crisi dei titoli tecnologici americani del 2001? Fino alle Torri gemelle del settembre di quell’anno?
Forse possiamo spingerci fino al 2007/2008, con l’esplosione crisi della finanza più aggressiva che dagli Usa ha contagiato l’intera economia globalizzata? E la cosa ancor più grave è che in buona sostanza nel tempo che ci separa da allora, la finanza ha continuato a correre libera, più proterva e potente che mai di fronte al corrivo silenzio di Governi e istituzioni, tutti o quasi in buona sostanza espressione di un unico pensiero. Ne sa qualcosa la civilissima Grecia.
O vogliamo spingerci fino all’emergere dei guasti, indotti e accelerati dalle caratteristiche più proprie di questo nuovo mondo costruito nel nome di mercatoprofitto, dei Cambiamenti climatici in termini così radicali negli ultimi tre anni ( i più caldi e quelli con i maggiori fenomeni estremi della storia )?
O fino allo sconquasso nel quale siamo ancora immersi di una Pandemia figlia di un concreto spillover annunciato per l’invasione umana, e sempre del mercatoprofitto, di ogni ambiente terrestre?
Una successione impressionante di eventi epocali. Concentrati in poco tempo. Il senso di un precipitare, non di un procedere arditi verso il futuro.
E all’accadere di tali eventi, sempre, una dose di sofferenze in più, di disuguaglianze in più, di rotture nelle società e tra le società in più.
Quanto sono durate quindi queste magnifiche e progressive sorti con tanta forza e pervasività annunciate agli inizi degli anni novanta del secolo scorso?
Dieci anni? Forse 15 al massimo.
E siamo così proiettati dentro quel bisogno prepotente di riprendere un cammino compiutamente e nuovamente politico.
Di questo c’è bisogno.
Recuperare l’idea stessa della possibilità di mondi diversi è il primo passo urgente da compiere.
E poi occorre saperne vedere l’urgente necessità di fronte alla crisi di questo capitalismo reale che è giunto probabilmente alla sua estrema possibilità di autotrasformazione per reggere e riproporsi: ha raggiunto il limite stesso della vita. Con la sottomissione della natura, fino a comprometterne la riproducibilità. Con la salute e una Pandemia che nasce come abbiamo visto e con la maggioranza della popolazione mondiale che si vede privata della possibilità di accedere ai vaccini. Con una insopportabile disuguaglianza sociale che vede una concentrazione di ricchezza che si avvia a diventare addirittura maggiore di quella del capitalismo delle origini. Ed ora, con la guerra.
Ecco la crisi del mondo nella quale siamo immersi, per una umanità che, diceva Berlinguer, ‘ ha raggiunto un punto supremo del suo sviluppo ’.
Ma per questo, appunto, serve la politica, nutrita di idee, di nuovi protagonismi sociali, di inedite trame partecipative, ma serve la politica.
Soprattutto a sinistra.
Avevi proprio ragione caro Enrico.
Dirlo ancora
e dirlo in queste ore
diventa immediatamente
contributo
per un mondo migliore.
Gianfranco Nappi
(1)
Dire: “Sono sconvolto” è non dire nulla. Io, figlio della Grande Guerra Patriottica, non riesco nemmeno a immaginare in un incubo missili russi inviati nelle città e nei villaggi ucraini, che spingono la popolazione di Kiev verso rifugi antiaerei o la costringono a fuggire dal loro paese. Nella mia infanzia, abbiamo giocato a difendere Mosca, Stalingrado, Leningrado, Kiev. Non riesco nemmeno a immaginare che oggi Kiev si stia difendendo o si arrenda ai soldati o agli ufficiali russi. Il mio cervello si attacca al mio cranio e si rifiuta di vedere, di sentire, di immaginare tali immagini.
Gli ultimi due anni del flagello della pandemia universale avrebbero dovuto ricordare a tutti noi che viviamo al di là di tutti i confini possibili quanto sia fragile e vulnerabile la vita umana, che in un solo minuto il mondo crolla quando perdiamo le persone che amiamo. Non ce lo hanno ricordato. In questi giorni in cui viviamo, il mondo di coloro i cui cari muoiono si sta sgretolando. Il mondo di coloro che uccidono quei cari crolla. Misericordia, compassione, empatia non si sottomettono alla volontà di stati e politici. È impossibile dettare agli uomini quando e di chi dovrebbero temere, quando e di chi dovrebbero avere pietà. Nessuno Stato, per il momento, ha imparato a controllare i sentimenti degli
uomini. La missione dell’arte e della cultura è sempre stata ed è ancora, soprattutto dopo tutti gli orrori del 20° secolo, insegnare agli uomini a prendere come propria la disgrazia dell’altro, a capire che non c’è una sola idea, anche la più grande e più bella, vale una vita umana. Già oggi possiamo dire: ancora una volta la cultura e l’arte non sono riuscite a compiere la loro missione.
Ho 77 anni, non è difficile per me immaginare cosa accadrà dopo ovunque, ovunque: la divisione in giusti e non giusti, la ricerca dei nemici interni, la ricerca dei nemici esterni, i tentativi di modellare il passato, di accogliere il presente, per riscrivere il futuro. Tutto questo è già successo nel 20° secolo.
In questi giorni che viviamo, siamo arrivati nel futuro. È in questi giorni che inizia il 21° secolo. Insieme, abbiamo realizzato questo secolo ed è arrivato così com’è. Il 21° secolo si è rivelato più orribile del 20°. Cosa ci resta da fare? Pregare? Pentirsi? Speranza, supplica, domanda, protesta, fede? Probabilmente tutto quello che non abbiamo fatto finora: amare l’altro, perdonarlo come noi perdoniamo noi stessi, non credere al Male e non prendere il Male per Bene.
Ho 77 anni, ho perso molte persone che ho amato nella mia vita. Oggi, quando sopra le nostre teste, al posto delle colombe della pace, volano i missili dell’odio e della morte, posso solo dire una cosa: “Ferma!” L’organismo dell’umanità non può essere curato con interventi chirurgici. Qualsiasi operazione di interferenza fa defluire il sangue della persona operata e contamina la persona operante con un’infezione incurabile. Ferma questa interferenza chirurgica, metti dei lacci emostatici sulle ferite. Raggiungiamo l’impossibile: realizzare il 21° secolo che potremmo sognare e non quello che stiamo realizzando. Sto facendo l’unica cosa che posso: ti prego, fermati! Fermare.
TI SCONGIURO. Lev Dodin
Lettera originariamente pubblicata sul sito web della rivista Teatr , il 28 febbraio, tradotta da Béatrice Picon-Vallin e ripresa da Liberation del 2 marzo 2022.
(2)