Ci siamo conosciuti nell’ottobre 2019 a Venezia – io impegnata ad esplorare nuove qualità della mia Venezia, Gholam vincolato con rigore dal suo lavoro che ci ci ha dato l’opportunità di tessere una comunicazione sempre più attenta con parole vive, continuata da lontano con qualche email. Poi il terribile 2020 ha segnato il nostro reciproco silenzio.
L’ottobre 2021 con singolare casualità – come a volte la vita sa regalare – ha creato il nostro riannodare i fili di un dialogo sempre più ampio, continuo, profondo anche per la ricchezza di linguaggio di cui oggi Gholam è singolare padrone.

Gholam Najafi è nato in Afghanistan circa trentuno anni fa – la sua data di nascita non risulta ancora registrata correttamente – contadino e pastore senza possibilità di frequentare scuole. All’età di dieci anni è costretto a fuggire dalla sua terra con l’obiettivo Europa. Esperienze di vita per noi inimmaginabili, nonostante gli innumerevoli reportages che a volte amplificano l’indifferenza di molti.
Gholam dal 2007 vive a Venezia; dopo pesanti difficoltà è stato accolto dall’affettuosa cura di una bella famiglia che ha potenziato la sua tenacia a voler sapere, conoscere e capire: già si è laureato in soli due anni in “Lingua e letteratura araba-persiana” e ha conseguito la specializzazione in “Lingua politica e economia dei paesi arabi” all’Università Ca Foscari.

Tanti i suoi lavori umili vissuti con pazienza, vari i suoi lavori sperimentati: oggi Gholam continua a lavorare in albergo, è interprete ed un efficace mediatore culturale, perseverante nell’accogliere nuovi insegnamenti ascoltando biografie nutrite da sofferenze e dall’ amore per la vita. Già autore di varie pubblicazioni, si affida al suo scrivere e allo studio di testi di intramontabili autori, sostenuto dall’amore scoperto per l’arte.
Gholam conserva e dà vigile vitalità a un patrimonio di esperienze inedite che lo rendono vicino a molti suoi connazionali di ogni età, a molte persone di altre terre del mondo. Persone e terre mortificate, e non solo.
Dal 25 maggio al 15 luglio è stato nella sua Afghanistan: un doppio ritorno che ha ulteriormente tracciato un suo sentiero di riflessioni più dolorose nel sopraggiungere dell’autunno. Qui un’inedita sua ricomposizione di appunti per InfinitiMondi.

Coraggio esemplare, etica potenziata in impegni quotidiani, rielaborazione creativa in espansione: la storia di Gholam Najafi mi chiede come dovere bello – pensando ad Infinitimondi con la convinzione che altri mondi sono possibili – una narrazione molto più ampia, accurata. Vorrei incisiva.






GHOLAM NAJAFI

Benvenuti due volte*

Prima di mettere in opera il mio diario, metto in chiaro le mie riflessioni su questi lunghissimi mesi invernali alla fame per tanti.

La saggezza della resistenza di queste persone che oggi, in questo momento della loro storia, si sono fermate, schiacciate, è continuare a bere l’acqua da una fonte viva. Hanno paura oggi e l’avranno domani né saranno amici dei nemici, ma parleranno la stessa lingua e si rivolgeranno nella stessa direzione per la preghiera. La sicurezza di uno diventa, anche per l’altro, fonte di convivenza, come rami di fiori che oscillano in un unico vaso di terracotta.

I nemici hanno distrutto le antenne della comunicazione, i fili delle informazioni, così la vita in ogni città e in ogni villaggio si è fermata come un fermo immagine, bloccata, come queste foglie cadute d’autunno e rotolate con il vento e che ora si fermano a marcire o forse resteranno sotto il freddo della neve di questo lungo inverno.

L’Afghanistan sembra a pezzi, ho notato che perfino le sue atlete  sembrano stanche e ansiose; tanti paesi in un solo paese, come l’erba medica in un’unica mangiatoia.

Con l’interruzione delle scorte di grano e farina, le fatiche dei contadini sembrano fermarsi ai nostri confini; luce e vestiti per la stagione invernale sono scarsissimi, eppure gli afghani lottano per vivere con una certa serenità.

Se uno aveva parenti in un’altra città o regione, sembrava che li avesse in un altro continente, tutti sono preoccupati per tutti; ciascuno, nella propria tana, resta in attesa di una notizia: le donne cullano il bambino, gli uomini corrono per recuperare gli ultimi raccolti dei campi prima che arrivi questo freddo inverno.

L’apertura dei confini regionali, nel frattempo, segna un filo di speranza, il paese scivola un po’ nel capitolo precedente e un po’ nel capitolo successivo mentre pian piano le sue montagne si velano con la neve e fanno crescere gli antichi boschi come barba maschile.

Questa volta ho potuto portare con me notizie sicure avendo assistito al trasferimento dei poteri nei palazzi. Sono stati cambiati molti nomi anagrafici, è cambiato il colore della bandiera, gli avvisi, gli attacchi, le ferite inguaribili e alcune sepolture nello smarrimento di un complesso identitario.

Mi sono messo a scrivere, a scrivere con la mia penna tutta l’ingiustizia di oggi, le date, le cadute dei luoghi e il ritorno di un insegnamento più elementare per questa generazione già povera.

Alcuni villaggi si sono arresi, ma hanno subito ugualmente il terrore, per colpa di quegli altri villaggi che non hanno voluto arrendersi subito perché erano armati.

Alcuni hanno accolto, dando acqua e pane nella loro casa; accogliere nel calore della propria casa…questo tipo di ospitalità significava: proteggersi dal danno del nuovo regime e sporcarsi le mani, anche se dura poco si vive meglio.

Un villaggio di Ghazni si chiama “Khosh, Khosh” (benvenuti due volte), anch’io vi avevo messo piede a fine giugno 2021. Io che vivo un po’ a Venezia e un po’ tornando alla mia terra bagnata di sangue continuo e di lacrime versate. Quella mattina di fine giugno, sono passato a chiedere un po’ d’acqua, appunto, ad una casa di questo villaggio appena colpito dal nemico. È capitato al mio orecchio di sentire la voce di una donna, ormai cieca, ferita dall’arma del nemico misterioso, ma, in realtà, lei non ha nessun nemico, è  una donna che, pur rispettando ogni regola religiosa e sociale, è stata ferita per sempre, un’assoluta innocente, eppure colpita.

Lei, fino alla settimana prima, si svegliava presto per accendere il forno per fare il pane. Pane! Quel pane che oggi tutti cercano e ricercano; si svegliava con i canti dei galli, i tanti cic degli uccelli sui rami degli alberi davanti a casa; cucinava il pane fresco ai sei figli e alle tre figlie per il loro risveglio poco dopo l’alba; mandava le sue pecore e capre al pascolo in montagna con il pastore al sorgere del sole, anche se il sole arrivava sulla sua casa nascosta tra le rocce con enorme ritardo, poco prima del mezzogiorno.

Lei, oggi, è cieca di entrambi gli occhi, sepolta viva nella sua terra natale, fino a ieri l’altro aveva sogni e desideri da portare avanti mentre oggi, all’improvviso, vive un po’ qua fra gli uccelli e un po’ là, nel buio, come un verme che scava la sua strada dove Dio lo guida.

Il rapporto umano si interrompe da un momento all’altro senza alcun ritorno, senza preavviso. Non esiste riparazione per quegli occhi. Qui è con il corpo, là è con una visione. Uno diventa cieco leggendo, scrivendo, dipingendo e lei, lei? Lei che ha cantato la sua poesia durante i matrimoni dei suoi figli e figlie, d’ora in poi non sarà più la memoria di questo paese. Lei che fino all’anno scorso dava il pane agli altri, oggi vede che sono gli altri a sfamare lei. Fino a pochi mesi fa faceva soldi ricamando, portava pesi sulla testa facendo la strada senza esitazioni, ma oggi? è un tutto sospeso dalla vita.

* Traduzione di “Khosh, Khosh” nome di un villaggio di Ghazni.

Anch’io porto una cicatrice da quando sono venuto al mondo (31 anni fa), sopra l’occhio sinistro, fortunatamente non ho perso l’occhio e ho imparato la misura delle parole.

I carri armati oggi se ne vanno via, via da lì, lasciando un’aria pulita finalmente, ma il vuoto dei suoi occhi e il suo futuro riposano nell’incertezza: niente più lacrime, piange con il sangue del cuore; quel che resta non lo vede più.

La letteratura di questo villaggio è stata trasmessa oralmente fino a poco tempo fa, ora non si riesce a ricomporre tutte le poesie del passato, ognuno per sé stesso, in un orale che non ama le regole.

Lei sta seduta davanti a me a ruminare tutto il suo passato ma non riesce più a dare una forma al nostro mondo perché non vede e noialtri intanto non capiamo il suo mondo.

Qui, le poche persone rimaste lottano per raddoppiare il tempo, quasi fermando il sole nel cielo.

D’ora in poi non si vedrà più disordine, proprio a metà novembre sono state fissate le nuove regole, ora bisogna far abituare le menti a una visione nuova. È obbligatorio fissare la nuova bandiera bianca e nera sulle porte di ogni negozio e chi non ha il denaro per comprare quella bandiera, fissa un’enorme pagina bianca con la sacra scrittura,  così viene fatto anche sui portoni delle scuola dove dovrebbero nascere le nostre conoscenze.

Oggi, tutti sono in partenza, sia chi può e chi non può se ne va a cercare un pezzo di pane di qualcun altro e un goccio d’acqua.

Come mai continuo a tornare qui? È una domanda che mi faccio molto spesso, soprattutto quando tolgo le ragnatele dagli angoli della mia casa, spero sempre che non torni più alcun ragno invece viene quando vuole, invade la mia stanza quando vuole, mette la sua tenda dove vuole. È come i fili dei ricami in un tappeto afghano, opera di donne a cui sono legato particolarmente. In casa gioco con i fili dei ragni e fuori, non a caso, passeggio per le vie di Herat notando che in questi ultimi anni sono stati piantati sempre più alberi, alberi di ogni tipo, alberi che fanno tornare gli uccelli, perché i tanti rami permettono una vita più sicura, perfino di fare un nido al riparo e i rami in più creano ombra, attraggono altre specie

Io partivo e molti sarebbero dovuti partire.

Intanto il tramonto copriva le montagne con le sue ombre, me compreso, io porto con me, come il carapace della tartaruga, quell’ombra sulla schiena e i ricordi di quella antica terra che una volta era coltivata mentre oggi, stupidamente, viene abbandonata.

Oggi in me c’è un “là” che vive nella fame, nella miseria, nella rovina, ma anche nella gioia; tutte le miserie vengono coperte ai nostri occhi con tante altre miserie, ma ho in me un “qui” che studia le trame aprendo continuamente le cicatrici.

Non so se il mio povero cuore provi più dolore o amore per il profumo di questa terra, conosco la sua miseria e so che si è moltiplicata rispetto a quando sono nato.


Le foto sono di Foto di Gholam Najafi

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1 commento

  1. Grazie, Rosanna. Grazie, Gholam..
    Che dire di più?

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