“Il futuro in una stanza. Dialogo letterario dentro e oltre la pandemia” di Daniele Maria Pegorari, Valeria Traversi (Stilo Bari 2020, pp. 158): un libro assolutamente da leggere, scritto da un critico, Daniele, e da una scrittrice, Valeria, marito e moglie stretti in un fitto dialogo che al virus e al distanziamento sociale oppone la memoria letteraria ed artistica. Il volume è diviso in sei capitoli, dedicati alle parole ‘pandemia, distanza, silenzio, scienza, natura, tempo’. Voglio qui riportare, a mo’ di sintesi, un estratto della recensione di Graziana Moro apparsa sulla rivista “L’Immaginazione” (Manni, n. 321, gennaio-febbraio 2021). A seguire la recensione inedita di Maria Donata Montemurri:

«In questo viaggio, i due autori, nella convinzione che scrivere è acciuffare il tempo, dargli una sterzata, e cristallizzare nella bellezza l’attimo che fugge, colgono il valore del momento storico, riscoprendo nel silenzio pagine letterarie di varie epoche (dall’epica classica, a Dante, dalle distopie novecentesche ai racconti di peste di Boccaccio e Manzoni, da Huxley al Qoelet) suggestioni musicali (come “The sound of silence” di Simon e Garfunkel o “Futura” di Dalla), visioni cinematografiche (come “Sububicorn” di Clooney, “Tempi moderni” di Chaplin) che ci inducono a raccogliere le idee per imparare ad ascoltare il rumore del mondo e comunicare nel silenzio»


Recensione di Maria Donata Montemurri

Se anche non mi legasse agli autori di questo dialogo letterario, Daniele Maria Pegorari professore di Letteratura italiana contemporanea, Sociologia della letteratura e Letteratura e critica della modernità presso l’Ateneo barese, e Valeria Mirta Maria Traversi docente di Lettere nella scuola secondaria, un rapporto di profonda stima e amicizia, non potrei non riconoscere l’indubbio valore di pagine che, pur generate da un’occasione di certo non lieta, come la necessità di comprendere un fenomeno tanto complesso quale quello dello scoppio di una pandemia, custodiscono in sé la speranza di vita che nasce da un viaggio dai connotati particolari, perché fatto attraverso le parole.
Già la scelta del titolo Il futuro in una stanza. Dialogo letterario dentro e oltre la pandemia, credo avvalori questa iniziale considerazione e perciò meriti una riflessione dedicata.
Figurativamente parlando, la prima parte di esso rimanda all’immagine del chiuso perimetro di una stanza e anticipa quale sarà uno dei temi oggetto della scrittura, ovvero quello della distanza, del distanziamento sociale, cosa tanto innaturale per l’uomo che da sempre è essere comunitario, quanto misura resa necessaria per contenere i livelli del contagio e con cui, nostro malgrado, abbiamo dovuto fare i conti: si realizza dunque, fin da subito, il nesso con quello stesso spazio/confine domestico che ha caratterizzato le vite di tutti noi negli ultimi due anni a causa del diffondersi pandemico del virus Covid 19.
Tuttavia, in questa stessa immagine di limitatezza fisica, è contenuta l’idea della spazialità infinita, quella cioè di un futuro da costruire attraverso un viaggio fatto di e con le parole, come scrive la Traversi a p. 43: «Il piccolo spazio della nostra casa si dilata ogni volta che apro una delle ante delle nostre librerie alla ricerca delle parole che mi aiutino in questo viaggio di carta che abbiamo intrapreso». Ne nasce una costante riflessione che coinvolge a tutto tondo sia il mondo del cinema per la citazione di film che ne hanno fatto la storia, sia l’universo più squisitamente letterario per la presenza nel volume di passi, in prosa e in poesia, che i due autori alimentano e che, implicitamente, offrono al lettore, quando si scambiano impressioni o suggeriscono l’un l’altro titoli appartenenti alla letteratura di ogni tempo, italiana e straniera, a partire dal mito e dall’epica classica, passando per Boccaccio, Manzoni, Leopardi, Calvino, Primo Levi, Eco, Montale, solo per citarne alcuni, spingendosi fino a citare scrittori e opere appartenenti al genere distopico del Novecento per ciò che concerne la prosa e ricordando esponenti della contemporanea corrente del Realismo Terminale per quel che riguarda il campo della poesia: i volumi presenti nella biblioteca domestica, unitamente all’immagine dell’attesa della libraia che consegna loro libri a casa, si trasformano nelle “scorte” per non restare “senza”, e sono, di fatto, il mezzo usato per abbattere la chiusura dello spazio fisico, per fronteggiare il pericolo di essere risucchiati dal rumore della comunicazione gridata dal mezzo televisivo e dai social media, rendendoci simili a Ulisse che non si lascia ammaliare dal canto omicida delle sirene, perché «la letteratura legge il mondo» (p. 19).


La biblioteca, dunque, costituisce il centro del percorso, il fulcro intorno al quale si snodano le diverse argomentazioni, la stessa conditio sine qua non del progetto di scrittura; essa è, al contempo, punto di partenza e punto di arrivo di questo metaforico viaggio, «granaio pubblico in cui ammassare riserve contro un inverno dello spirito» (p. 10) per citare la bellissima espressione usata da Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano (1951) che Pegorari riporta nel suo discorso e da cui trae la forza necessaria alla ricostruzione: «Ho ricostruito molto, e ricostruire significa collaborare con il tempo, nel suo aspetto di ‘passato’, coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo quasi verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti» (p. 10).
È evidente come fondamentale diventi, dunque, il soccorso offerto dalle metafore, affinché la biblioteca si trasformi in ponte tra passato, presente e futuro, luogo dove andare alla ricerca delle risposte, senza incorrere però nell’errore di «prendere romanzi e poesia alla lettera (nessun gatto ha gli stivali e se strofini la lampada non esce nessun genio), ma di sapere come funzionano i procedimenti metaforici, che comportano sempre un ‘salto’; senza salti non esisterebbe la civiltà, senza salti diventerebbe insopportabile per l’uomo affrontare consapevolmente la propria finitudine» (p. 14).
Altresì, la scelta stessa della scrittura nella veste di un dialogo letterario, pur mostrandosi in tutta la sua intimità (come solo può accadere quando a scrivere sono due intellettuali legati profondamente al proprio lavoro nonché uniti da un vincolo d’amore), non risparmia una critica sociale lucida e onesta e, al contempo, ci rende spettatori delle riflessioni e dei punti di vista che i due autori si scambiano dentro le mura della loro casa barese: un dialogo che riesce a dipanarsi dentro la pandemia, perché partendo dal reale vissuto, ne sviscera la natura sotto il profilo non solo economico, politico e socio-antropologico, attraverso le puntuali e acute riflessioni di Pegorari, ma allo stesso tempo non perde occasione per ricercare, nel tesoro della letteratura di ogni tempo, elementi che aiutino a leggerla meglio; similmente, è capace di andare oltre essa, sempre grazie all’ausilio offerto dalla letteratura, dato che «è la letteratura a incarnarsi nella storia; non si tratta di un’attitudine “profetica” dello scrittore, ma della capacità di grandi opere di sviluppare più livelli di significato, almeno uno dei quali è in grado di solcare i limiti temporali in cui il testo è stato pensato e di attingere a strutture più antropologiche che storiche» (p. 16).
Il volume, in modo molto piacevole e raffinato, mai urlato (a differenza di tanta comunicazione attuale), in alcune pagine anche commovente, offre al lettore la possibilità di riflettere, con la dovuta lentezza, su quanto stia accadendo all’intera umanità: l’arresto forzato dei vorticosi ritmi di vita in cui siamo inviluppati senza neanche accorgercene darà i suoi frutti se saremo capaci «di ‘scoprire il tempo’, capire che è un bene che non dovrebbe essere mai violato e che sta alla nostra responsabilità investirlo o buttarlo via» (p. 126).


Vorrei soffermare per un attimo l’attenzione su un aspetto che profondamente ha condizionato le vite di tanti durante questi mesi: probabilmente per via di un personale e comune sentire con l’autrice, essendo entrambe docenti di scuola secondaria, mi sembra che la sottolineatura della mancanza del suono della campanella (che segna ora l’inizio, ora la fine delle lezioni e dell’anno scolastico) e con esso i sorrisi, i timori, la vitalità degli studenti che solo si alimenta con l’esserci fisicamente, con quella presenza che mai nessuna soluzione tecnologica potrà eguagliare né sostituire, intrepreti lo stato d’animo dell’intero mondo della scuola, che di certo ha riportato ferite profonde e, tuttavia, con forza resiste, facendosi portavoce di un messaggio di resilienza che non può rimanere inascoltato.
È quasi naturale leggere fra le righe l’invito a rendere fruttuoso questo tempo sospeso della pandemia, non limitandosi scioccamente a leggere un buon libro come ricorda lo slogan ripetuto da più esponenti della comunicazione di massa, quasi come se la letteratura fosse una semplice ed elementare forma di intrattenimento per colmare i vuoti partoriti dalla noia, ma a riempirlo di sostanza, a tentare di imporre una ‘sana distanza’ nei confronti dell’attitudine, oramai diffusissima e trasversale a ogni fascia d’età, a trascorrere parte della giornata utilizzando social media che, facendo leva sul desiderio di un protagonismo diffuso, di fatto sottraggono il diritto ad avere un tempo tutto per sé.
Ecco che il libro assume i connotati di un luogo dell’anima non solo per chi ama le parole, per chi si impegna nel ricercarle, nel decifrarle per disvelarne il significato profondo, ma anche per tutti coloro che si predispongono all’ascolto senza filtri di un messaggio sincero quale solo può giungere dalla letteratura.
Se l’Epilogo descrive la nascita dell’idea di un progetto di scrittura condivisa, proposto da lui e avvertito da lei come «un progetto di vita in un tempo di sospensione e di paure», l’argomentazione si struttura intorno alla scelta di sei temi fondamentali che costituiscono anche i sei capitoli, le sei stanze’ del volume, intorno ai quali la parola passa da Daniele a Valeria sine termino continuitatis: Pandemia, Distanza, Silenzio, Scienza, Natura, Tempo.
Rispetto ad essi si palesa evidente la diversa penna dei due letterati: se la scrittura di Pegorari si connota infatti per il suo essere critica, militante, estremamente raffinata ed elegante, quella della Traversi ha il sapore delle pagine di un romanzo; da una parte ci coccola attraverso il ricordo della tenerezza di alcuni momenti dell’infanzia, l’immagine tanto cara del mare che avvolge cullando i pensieri e, dall’altra, non si esime dal suggerire un assortimento di opere o di dare un prosieguo alle riflessioni di Pegorari contenute nell’incipit di ogni sezione, inanellando passaggi di ampio respiro che spaziano dalla letteratura epica classica a quella distopica novecentesca.
Difficile esprimere una preferenza per un capitolo o per un altro: ciascuno di essi, infatti, affronta così compiutamente il tema che propone ed è arricchito da tanti stralci narrativi o poetici, al punto che la lettura, giunta al termine, golosamente torna indietro per fissare nella mente ora un passaggio ora l’altro; non da ultimo è da sottolinearne la spendibilità a livello didattico, per la proposta di letture da suggerire agli studenti e per la trattazione di autori appartenenti alla letteratura contemporanea che, purtroppo, la scuola secondaria accantona per tutta una serie di motivazioni che non è opportuno discutere in questa sede.
Rintracciare l’idea di fondo che sostiene l’intero progetto di scrittura è operazione abbastanza agevole data la sincerità che traspare dalle riflessioni e dai ragionamenti tanto dell’uno quanto dell’altro autore: ovvero quella della speranza di un nuovo umanesimo che non teme il silenzio, ma che è capace di ascoltarlo, che non si lascia ammaliare da fatui discorsi e da vane promesse, ma cerca «le parole per mettersi in discussione come società» (p. 67), che non impone violentemente la propria presenza sulla natura defraudandola dei suoi cicli, alterandone irrimediabilmente il bìos, ma che sa rispettarla vivendo in comunione con essa e tramandando questo comportamento virtuoso alle generazioni future; un nuovo umanesimo che non cede alla seduzione del vincitore e all’egoismo ma che, alla stregua di tanti personaggi di cui la letteratura è foriera, tenta lo sforzo di fare i conti con la propria coscienza per scorgere, «da un malchiuso portone», il giallo dei limoni.

***

Daniele Maria Pegorari (1970) è professore di letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Bari “Aldo Moro” e autore o curatore di una ventina di libri e numerosi studi che spaziano dalla sociologia della letteratura alla tradizione dei modelli e alla poesia in lingua e in dialetto. Tra gli ultimi volumi: “Umberto Eco e l’onesta finzione. Il romanzo come critica della post-realtà” (2016), “Scritture precarie. Editoria e lavoro nella grande crisi 2003-2017” (2018), “Letteratura liquida. Sei lezioni sulla crisi della modernità” (2018), “Amleto o lo specchio oscuro della modernità. Tre secoli di riscritture italiane 1705-2019” (2019). Svolge un’intensa attività di critico militante come direttore della rivista «incroci» e di alcune collane, come collaboratore di diverse testate.

Valeria M.M. Traversi (1974)  dottore di ricerca in Italianistica, ha curato per i tipi di Palomar un’edizione del “Dispaccio di Venere. Epistole eroiche di Pietro Michiele” (2008) e l’antologia “Farfalle di spine. Poesie della Shoah”, ampliata e ripubblicata nel 2014 col titolo “Margherite ad Auschwitz” (Stilo).  Suo interesse di studio continua a essere la tradizione novecentesca, cui ha dedicato alcuni saggi pubblicati in volumi e riviste specializzate: “I rumori stridenti della scrittura. Scrivere dopo Auschwitz” (1999); “Suggestioni d’Africa e tradizione letteraria nel ‘Porto Sepolto’” (2003); “Il ritorno a casa attraverso la letteratura: l’Istria di Pier Antonio Quarantotti Gambini”(2006); “Ci ritroveremo in non so che punto”: le lettere di Montale a Irma (2007); “Per dire l’orrore: Primo Levi e Dante”(2008). Ha pubblicato nel 2019 il romanzo: “Io non sono Clizia”, sulla storia d’amore e di poesia vissuta da Montale e Irma Brandeis.

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