L’arte e l’ambiente
Il riappropriarsi conscio di una relazione tra arte e ambiente è uno slancio degli anni ’60.
A partire dal Movimento di Arte Concreta, e più precisamente da Gruppo 58, l’evento estetico viene determinato dalla precisa relazione tra l’ atto creativo e il suo intorno.
Potremmo ardire che a Napoli, prima che altrove, si è concepito il contesto quale causale dell’atto creativo, pertanto questo è frutto di un vincolo tra luogo e operatore piuttosto che espressione esclusiva di un soggetto legittimato ad agirlo, cioè, delegato a rappresentare l’arte. Esso dunque è l’esito di una ricognizione dell’operatore estetico che assume l’espressione del contesto; un contesto urbano però in cui le tracce esteticamente rilevanti nascono spontaneamente e sono interpretate, o trasmesse, dall’artista. E sembra quasi che ogni appropriazione, tentata, anche nella validità della rappresentazione soggettiva, finisca per essere, in fondo, una riduzione dell’ espressione originaria.
La mutevolezza poi che caratterizza questa estetica sociale è una struttura infrangibile che contiene, inconsapevolmente, un metodo di conservazione dell’integrità.
Da ciò l’idea che l’estetica napoletana, intimamente connessa con l’ambiente sociale e urbano, si sottragga alla logica del sacco della globalizzazione.
La stabilità dell’estetica napoletana è costituita dalla sua liquidità, che muta di stato, impossibilitando qualsiasi imbalsamazione e consentendo, al massimo, un imbottigliamento che dura fin quando il liquido non evolve: le scatole di “Aria di Napoli” 1.
L’estetica napoletana dunque non vive l’ossessione della traccia, del residuo, perché si risolve sempre da qualche parte nell’universo sociale che la contiene senza mai perderla, sottraendosi, nel bene e nel male, ad una qualità esclusivamente commerciale.
L’ambiente urbano dove fiorisce e si colloca l’atto estetico, è luogo della storia sospesa, o anche, della storia che vive per accumulo nel presente. Le stratificazioni greco-romana-medioevale-cinque/seicentesca degli edifici, danno consistenza e persistenza alle identità e producono il fenomeno inatteso, e unico, della familiare utilità dei monumenti e dell’arte.
In questa direzione si perviene poi all’idea che l’espressione sociale e il legame socio-territoriale siano le chiavi per attivare un sistema sostenibile, culturalmente ed esteticamente, rilevante. Da ciò dovremmo convenire che anche una gestione della monumentalità territoriale potrebbe – dovrebbe – essere concessa alla società che da sempre la abita, avviando opportunità, si è detto, anche in termini di ricaduta economica.
« Viceversa in questi anni di incremento dei visitatori abbiamo assistito ad una tendenza opposta: un processo di esclusione degli strati sociali più deboli dal “ben-essere” di una città turistica. Li ritroviamo espulsi dalle loro vecchie attività artigiane, li costringiamo a cedere i loro locali alle griffes di abbigliamento, non li assumiamo nelle nuove attività perchè non parlano le lingue e nemmeno bene l’italiano, gli triplichiamo gli affitti, pedonalizziamo gli spazi ghettizzandoli nei vicoli, gli spieghiamo che il turismo è una risorsa ma solo per commercianti e imprenditori che vengono da “fuori” […] » 2.
In tal senso anche l’ambiente urbano rientra nella dinamica del “tutto sociale” e ciò che da questo esula semplicemente non funziona. Sono numerosi gli esempi… ma qui li sorvoliamo per focalizzare gli esperimenti riusciti. Pensiamo allora alla rinnovata coscienza degli anni ’90, quella che ha indotto i soggetti delegati all’architettura pubblica, l’architettura dei servizi (come può essere la stazione della metropolitana), a tener conto del mondo estetico-sociale in cui s’innesta e a creare l’interazione creativo soggettiva e creativo collettiva; un ambiente che digrada nell’installazione artistico-architettonica.
Pensiamo pure ad un’architettura come gesto politico, in questa direzione, consideriamo gli interventi di Riccardo Dalisi, al rione Traiano, a Ponticelli, infine, negli anni ’90 in Rua Catalana, nel centro della città, a riguardo dei quali Angelo Trimarco ebbe a dire: « […] si fa strada la necessità di una relazione più intensa con gli abitanti del quartiere, l’importanza di definire lo spazio secondo la misura di chi dovrà viverci. La politica della partecipazione diviene, a un tempo, strumento d’analisi e tensione utopica, impegno quotidiano e sguardo lontano[…] Il suo viaggio, dal Traiano a Rua Catalana, è nutrito dalla stessa passione: dare voce al rimosso e al marginale, affacciandosi sull’oblio e sulla miseria delle cose per contaminare, sporcare, turbare la superficie levigata delle discipline.» 3
Operazione, infatti, immediatamente accolta dal contesto.
La progettualità architettonica dunque si legittima solo se riesce a discutere concretamente l’intorno, il reale; condizionante e condizionata, significante e significata dall’ambiente.
In questi termini l’apice di tale sentimento si raggiunge attraverso l’esperienza “metronapoli” che pur configurandosi come occupazione del non luogo e negazione di uno spazio prima di allora significato dallo slancio popolare, si connota come esperienza positiva, innestandosi esteticamente nella storia degli uomini quale primo autentico superamento del museo cristallizato. Ivi l’arte diventa esperienza pubblica, vissuta, e perciò, con sicure valenze etiche. Gli ambienti del metrò sono l’esposizione diffusa, il più grande museo del mondo distribuito su un territorio enorme. Il passaggio da una sala espositiva all’altra attraverso la città.
C’è poi un secondo livello di lettura ed è quello della percezione della società che la vive: “Metronapoli” nasce, si diceva, come occupazione, ma viene accolta positivamente in quanto struttura che naturalmente suscita il fascino in un modus pensandi, quello di un mondo sociale già avvezzo alle suggestioni della discesa nell’ombra, nell’ade, nel maternale grembo della terra. Metronapoli evoca il medesimo fascino delle Fontanelle o anche quello più di recente di Napolisotterranea.
Allora l’oggetto “metrò” che celebra la seduzione dell’ “ombra”, tanto caro ai napoletani, nell’esercizio del passaggio dall’emergente al sotterraneo, dal mondo della luce alla tenebra, attraverso il prodigio dell’esterno che continua nell’interno, crea con l’ausilio di una forma nota, (penso ai calchi del Museo Archeologico nella stazione “Museo”), la familiarità che il napoletano desidera anche nel confronto con l’ignoto, come i colloqui affettivi delle vecchie della Sanità con i trapassati dell’ossario. 4
In altri termini, spazio architettonico e oggetto, integrati, che si modellano reciprocamente, determinando un contatto “morbido” con l’utenza, diventando un “tutto estetico” che espelle anche la distinzione tra discipline “artistiche”: l’architettura che si pone in qualità di struttura funzionale (La stazione ); e poi il reperto, la scultura, l’immagine. A Napoli è avvenuto il miracolo del “tutto estetico” relato all’ambiente sociale.
NOTE:
1) Claudio Ciaravolo “ …dopo aver realizzato dal 1979 molti programmi per la Rai come autore radiotelevisivo, ora si occupa quasi esclusivamente dell’invenzione di nuovi format. […] ha scoperto la possibilità di utilizzare internet per vendere in tutto il mondo i prodotti della sua attività di “creattivo”. Dalla prima, notissima, “Aria di Napoli”, con smog o senza, all’ “Aria da Fesso” fino ad altri prodotti da lui inventati, altrettanto virtuali, ma molto più attuali: le s-mail.Lo ha fatto senza utilizzare pubblicità, ma sempre e solo il marketing virale.” Tratto da http://www.ciaravolo.it/
2) « Noi » e « loro ». La cultura da turisti e i napoletani. Articolo di Attilio Wanderlingh; dal mensile “Carta” n.5 giugno 2007 soc.coop Carta, Roma; pp.14-15;
3) A.Trimarco “Napoli, un racconto d’arte 1954/ 2000” Ed.Riuniti, Roma 2002. pp…
4) L’antico ossario si sviluppa per circa 3.000 m2 e la cavità è stimata attorno ai 30.000 m3. Il sito insiste nel cuore del Rione Sanità, quartiere tra i più ricchi di storia e tradizioni, appena fuori della città greco–romana. Un quartiere sorto su un’area che fu necropoli pagana e poi cimitero cristiano. L’ossario conserva da almeno quattro secoli i resti di chi non poteva permettersi una degna sepoltura e, soprattutto, i resti delle vittime delle grandi epidemie che hanno più volte colpito la città.
Metronapoli
E’ una quindicina d’anni che s’è voluto fare st’accostamento “trasporti/arte”; Quindici anni fa qualcuno del liceo artistico ebbe la pensata di offrire gratis la decorazione di una dozzina di pannelli lungo le pareti della stazione di Piazza Amedeo, un’ uscita metro che dà sulla zona più chic di Napoli. In occasione di Italia ‘90, mi pare, il “mondiale” d’Italia.
Fu un fatto nuovo, quello di consentire la decorazione di uno spazio pubblico a giovani artisti nemmeno presenti sul mercato, quelli che avrebbero “decorato” ugualmente la stazione da poco imbiancata con i “graffiti” su mura …e convogli, per questo talmente economici da essere gratis. La prima volta che la gente poteva confrontarsi con il contemporaneo, ufficialmente, in uno spazio pubblico.
Da quel semplice episodio nacquero tutta una “serie” di sensibilità dell’amministrazione che indusse, nel giro di pochi anni, prima a strutturare meglio quegli stessi pannelli, affidandone la seconda decorazione ad artisti un po’ più presuntuosi e poi, tempo dopo, a creare il soggetto “metroarte” vero e proprio, con un progetto ad ampio respiro affidato ad Achille Bonito Oliva, atto ad integrare gli ambienti nuovi e rifatti della nuova e vecchia tratta della Metropolitana.
Va detto, a mio avviso, che l’idea di un progetto di alto profilo culturale, con artisti più o meno noti, ha rappresentato anche l’opportunità di fare girare “qualche soldo” nella categoria dell’arte, di difficile confutazione; così, ancora una volta, la spontaneità, che io definirei la sapientia naturalis partenopea, l’espressione popolare spontanea, ha dato luogo ad un’idea che ha fatto la fortuna di pochi.
Si può dire che quell’episodio realizzato da sconosciuti studenti fu una prova di quello che sarebbe stato il prestigioso arredo dell’attuale “Metronapoli” ma, credo di poter dire, anche delle installazioni festive che da quegli anni in poi furono tradizione, e dei musei d’arte contemporanea PAN e MADRE, idea partorita, e mai veduta realizzata, da Lucio Amelio.
In quella stazione ricordo di aver incrociato spesso il maestro Augusto Perez, il grande scultore catanese, in certe giornate prefestive, quando si disertavano i corsi in Accademia o, talvolta, a sera, quando tornavo dalle lezioni di pianoforte al Vomero. Il cappottone nero, lungo fin sotto il ginocchio; la sua figura alta e longilinea; il viso emaciato e i capelli grigi, lunghi e sciolti, che ne facevano una figura inquietante. Perez, prima cattedra di scultura in Accademia, se ne stava fermo davanti ai primieri pannelli a guardare con simpatia quello iato, spontaneo e giovane, di arte pubblica. Se li guardava per tutto il tempo dell’attesa della corsa, che sulla tratta vecchia aveva durate interminabili di mezze ore.
Più di una volta ho avuto la tentazione di disturbarlo per uno scambio di idee su quel che, per allora, era un curioso episodio…non ne ebbi mai il coraggio e l’ ho sempre ammirato da lontano.
Gennaro Avano