N.3 Il santo dell’arte.

di Gennaro Avano

2002. Otto anni sono passati dalla scomparsa di Lucio Amelio, “santo” e icona dell’arte. In lui, convettore di energie, ogni artista ha sperato di trovare la soluzione ai propri problemi, commerciali ed esistenziali. Proprio come un santo Amelio avvertì la vocazione all’arte con un evento inatteso che mutò il clinamen della sua vita, determinando l’incontro con sé stesso e con il mondo: «[…] A Barcellona, dove […] mi ero trasferito a dirigere la filiale della ditta, la mia brillante carriera di venditore internazionale di prodotti chimici terminò bruscamente in una buca di cinque metri di profondità, da dove mi ripescarono con un femore rotto in quattro pezzi. Ingessato dal collo ai piedi sembravo un calco di Pompei […]questo soggiorno di sei mesi in posizione orizzontale fece nascere nuovi fermenti nella mia testa e sostanzialmente cambiò la mia vita…» (Tratto da “Lucio Amelio” ed.Skirà).

Un salto nel vuoto che diede inizio al suo viaggio interiore e fisico, con l’accessorio dei riferimenti sociologici e con lo strumento di una storia culturale congenita. L’obiettivo non fu, banalmente, l’affermazione; obiettivo era la vita stessa e la ricerca del suo senso. Una ricerca paragonabile a una pittura tenebrista, in cui si cerca una luce, la luce del vero che forse c’è e forse no, che forse è il vero bene, oppure è l’inferno. Per questo l’estetica di superficie che egli rappresenta è il volto dell’eterno barocco di Napoli: una “profonda superficie”; Il nervo scoperto d’occidente. Dopo il primo salto, individuale, Amelio dovette patire un “secondo salto”, collettivo questa volta: il terremoto del 23 novembre 1980 che fu uno spartiacque epocale. E nel cuore della prostrazione post terremoto, nell’epoca che rappresentò l’enorme speculazione politica dopo il cataclisma, la straordinaria persona di Amelio volle compiere il gesto dirompente di escludere il lusso tout court dall’arte, e recuperare all’arte la capacità di essere anche cronaca del proprio tempo. Facendola ri-assurgere al ruolo di “lusso indispensabile”; un concetto più tardi, e più volte, richiamato da Bonito Oliva.

«Dopo il violento terremoto che colpì la Campania e l’Irpinia […] il gallerista napoletano Amelio decise di organizzare una mostra con autori internazionali che rappresentassero iconograficamente il tema della tragedia. Nacque così il progetto Terrae Motus che raccolse la partecipazione di tantissimi artisti, tra cui Beuys e Warhol, e che rappresentò la risposta artistica internazionale all’emergenza sociale del terremoto in Campania». (tratto da http://www.comune.milano.it ). Straordinariamente, quella che sembrava azione velleitaria, un’ attività irrilevante nell’immane emergenza, si rivelerà un dono tra i più duraturi, e ricchi, tra le offerte che un singolo uomo potesse fare. «Amelio è riuscito a trasformare un cataclisma naturale in un evento storico-culturale. Terrae Motus è perciò l’emblema dell’azione positiva che non si piega, che reagisce di fronte a forze più grandi dell’uomo. Terrae Motus è quindi il simbolo dell’animo eroico […]». (tratto da www.artleo.it/alarte/interviste/amelio.htm). Con Amelio l’arte tornava a sporcarsi con la polvere della storia e leniva la tragedia incontrando la vita… laddove c’era solo morte.

Solo chi ha avuto orecchie per intendere però ha inteso e chi ha avuto cuore sgombro ha raccolto.

«Tu avissa vedè a Kounellis»; «…?… » il mio sguardo al suggerimento del maestro Sgambati. «Vattello a vedè, sta addo Lucio Amelio». Ero studente alle prime armi e la mia esperienza di arte contemporanea ancora acerba e intuitiva.
La galleria di Amelio, per gli artisti in erba come me, era un mito del quale si veniva a conoscenza non appena varcavi la soglia tufacea della Reale Accademia di Belle Arti: «Non conosci a Lucio Amelio? Staie areto proprio». Presi per comandamento biblico lo spunto e la conoscenza di Kounellis avrebbe coinciso con quella della galleria.
Il giorno seguente, alle 9.30, ero a Piazza dei Martiri e incrociando un tizio che usciva dal palazzo chiesi «Scusate…la galleria di Lucio Amelio?». Il tizio mi guardò stupito e rispose: «Stongo a vint’anne cca, ma nun l’aggia maie sentuta».
Mi ci volle mezz’ora per trovarla. Forse qualcuno più informato mi indicò il percorso da seguire nell’enorme stabile settecentesco: il grande cortile al centro del palazzo, vari accessi alle rampe «…prima scala sulla destra, primo piano…boh?». La medesima ricerca fu un’esperienza “tenebristica”, poi una scura porta chiusa che mi si parava davanti. «…Dovrò bussare?». Esitazione, campanello, silenzio, buio. La porta si aprì e la luce irruppe nell’oscurità delle scale. « Buon giorno, potrei visitare la mostra?». Era Lucio Amelio in persona!
«Prego, se desidera c’è il manifesto…può prenderlo».
Vincendo l’imbarazzo di essere, a quell’ora, unico spettatore mi immersi nell’opera. Kounellis fu una rivelazione, restai per un’ora e mezza nelle stanzette della galleria che ha segnato l’incontro dei grandi Beuys e Warhol, di Fluxsus e Pop Art, che non s’erano mai visti prima. Il soggetto: un peschereccio fotografato in bianco e nero, reiterato in mille possibili declinazioni con i più disparati interventi.

Restai ammirato da Kounellis, guardavo e riguardavo gli interventi sull’immagine e… mi scordai che c’era Amelio, con il quale avrei potuto scambiare qualche considerazione; dal quale avrei potuto apprendere il pensiero del grande gallerista che era. Il ricordo di quella visita di dieci anni fa, l’ inizio di quello che sarebbe stato il mio viaggio, sovente polemico, con l’arte, diventa ogni giorno più sfocato nella memoria in cui resta invece impressa la violenta luce dei finestroni e l’idea dell’incontro mancato.
Dopo la mostra sorse per me la necessità di imprimere un intendimento di tipo filosofico al lavoro, animato più avanti dalla conoscenza dei fenomeni artistici “impegnati”, come Movimento di Arte Concreta, che a Napoli era “Gruppo 58”.
Così Amelio – con il quale non avevo scambiato neppure una parola – e tutti i galleristi rilevanti – diventarono i nemici, i “servi del mercato”.
Non so se quella mostra abbia comportato per me un irrimediabile guasto sovrastrutturale, sicuramente Sgambati, non appena mi rivide al lavoro, osservò preoccupato: «Azz, ma t’ha colpito assaie Kounellis ».
Probabilmente sì, era successo qualcosa, perché da Kunellis in poi fu tutta una polemica e un amore-odio che mi portai fino alla fine dei quattro anni. Al termine di liti furibonde, e tregue temporanee, Sgambati mi disse « Aggio sbagliato a te mannà a cchella mostra, t’aggio ‘nguaiato proprio».

Gennaro Avano




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