DOMENICA 23 NOVEMBRE 1980
… il tramonto di quella domenica di novembre era spettacolare dal belvedere di Posillipo, seduto su una panca di metallo con Susy e di fronte il drago di Bagnoli, allora, ancora attivo.
Il tremore trasmesso dal metallo, della seduta, fu lungo, prolungato, troppo prolungato e carico di minacce.
In quel periodo, avevo da poco interrotto la militanza full Time che mi aveva portato ad un passo dal rapporto funzionariale, dopo l’esperienza di commissario esterno della FGCI di Avellino. Era stato, sostanzialmente, il mio primo lavoro retribuito da un compenso di 300 mila lire: 100, fornite dalla Federazione del PCI di Avellino, 100 dalla Direzione Nazionale della Federazione giovanile e 100 sottratte dallo stipendio di Luigi Izzi, Segretario Regionale. Gigi … si era tassato 2 volte, per arrotondare il compenso mio e di Federico Libertino, inviato con la stessa funzione a Benevento.
Dopo, quella esperienza Irpina piuttosto drammatica, ero deciso ad affrontare seriamente il percorso universitario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Istituto Orientale di Napoli. L’organizzazione dei comunisti irpini era, all’epoca, un organismo vivace e vitale diretto, dopo l’esperienza “esterna” di Antonio Bassolino, da un esponente delle generazioni segnate dallo scossone del “68 italiano”.
Michele D’Ambrosio , il Segretario appunto, era un uomo colto e tenace, che viveva la sua militanza sotto il segno costante della lezione gramsciana ed era impegnato per il rinnovamento di un partito immerso nel mare dell’egemonia della sinistra democristiana, segnato ancora il PC, nel 1980 dalla lunga stagione amendoliana. Io, poverino, alla mia prima prova di “direzione” provenivo da Napoli e, all’epoca bastava questo per essere sospettato di impurità riformistiche. L’esperienza avellinese, per quanto formativa e illuminante, m’indusse a più miti consigli ed a prendere tempo per la mia formazione.
Quella domenica, quella tragedia immane in cui eravamo precipitati sfidò, i nostri 20 anni ad un impegno fattivo di solidarietà e costruzione.
LUNEDI’ 24 NOVEMBRE 1980
Avevo imparato a conoscere un po’ l’Irpinia, luogo dell’epicentro, ed inevitabilmente si pose l’urgenza di tornarci. Quindi, già il 24 novembre, la mia “gloriosa” Renault 6, imboccò la strada per Avellino. Oltre a me, la squadra in partenza comprendeva Alessandro Pulcrano, Segretario FGCI di Napoli, Paolo Persico e Massimo Anselmo, quest’ultimo appena arrivato al PC da quella “pinacoteca” che fu il partito di unità proletaria per il Comunismo (PDUP). Gli anni 70 si erano chiusi e l’assestamento politico era avviato, in attesa delle tante cose che sarebbero poi accadute.
In quel lunedì, c’era solo la voglia di arrivare presso l’occhio del ciclone, per verificare come ed a quali condizioni dare una mano.
La prima, inevitabile tappa, fu la Federazione del partito a Piazza Macello. Ovviamente, anche il Palazzo che ospitava la sede politica era stato colpito ed era in attesa di verifiche. La baracca di lamiere, ospitava i dirigenti comunisti scontando gli evidenti limiti della situazione, in un’epoca senza cellulari. Conoscevo i compagni e Michele, ma quello che ricordo più nitidamente riguarda la sua pretesa di riprendersi i locali della Federazione, forte della perentoria asserzione “Mi assumo io la responsabilità”. Ricordo i nostri sguardi stralunati. L’emergenza però gridava dall’alta Irpinia, quella considerata zona “nobile” della provincia, dove ancora permaneva la gloriosa storia del movimento di occupazione delle terre incolte e gli insediamenti diffusi della sinistra, vitali ed attivi. L’epicentro del terremoto, la distruzione più ampia, il numero di vittime più diffuso e numerose zone ancora prigioniere delle macerie.
Montammo in macchina e ci dirigemmo verso (sotto correzione di Andrea Amendola) l’Ofantina. Trovammo, la strada chiusa, sbarrata da un cavallo di Frisia fatto di “tubi innocenti”, che provvedemmo a rimuovere a mano. Cominciammo a salire e presto ci imbattemmo con le prime macerie presenti sulla strada. In macchina avevo ancora qualche cesto di buste di latte a lunga conservazione, della Centrale napoletana, che la giunta Valenzi ci aveva chiesto di distribuire ai napoletani nelle ore precedenti la partenza. Lasciammo il latte ad un uomo che restava seduto sul ciglio della strada ad osservare le macerie della sua casa, appoggiato sui gomiti.
Arrivammo di sera a Lioni, governata al tempo da una giunta di sinistra di cui era sindaco il compianto Antonio Gioino. Il paese martire era circondato dai militari e le macerie delle case crollate invadevano le strade, il presidio militare ci impose un lungo giro per l’accesso alla cittadina, mentre Sandro, di tanto in tanto, all’occorrenza, si dava un tono con gli interlocutori presentandosi PULCRANO della Direzione Nazionale della FGCI, portatore della disponibilità di un gruppo di Volontari provenienti da Milano, autosufficienti e attrezzati. Gruppo che nelle ore successive ci è capitato di offrire in diverse occasioni ed a diversi interlocutori.
All’improvviso, i militari sparirono. In un’epoca precedente alla istituzione della Protezione Civile Nazionale che proprio allora cominciò la sua sperimentazione con l’opera di Zamberletti, qualche ordine estemporaneo aveva indotto i militari a spostarsi in un altro luogo ed a quel punto, il primo segno evidente di saldatura tra tragedia e follia, tipico di quei giorni, prese forma. Diverse presenze si palesarono tra le macerie del centro cittadino, scorazzando senza direzione e riferimenti.
Arrivammo al campo base, posto a Lioni, presso il campo di calcio locale, il quale, per fortuna era stato costruito a monte del paese. In quel luogo, ci mettemmo a disposizione del sindaco. Gioino, evidentemente, aveva altro a cui pensare ed era alle prese con le prime scelte dolorose che impattavano sulla popolazione, come l’autorizzazione delle fosse comuni, quale argine per l’infezione e sull’uso della calce viva. Ricordo, i primi notabili, tornati a soffiare sul fuoco appiccato dalle legittime sofferenze, solo per colpire l’avversario politico, aggirando la necessità di fare i conti con l’emergenza. Anche allora c’era qualcuno che sceglieva di strumentalizzare la tragedia.
La notte passò, ovviamente insonne, e ricordo solo un gruppo di volontari, provenienti da Nocera, (non mi sovviene se di giù o di su) che oltre ai viveri per i terremotati ne aveva portati altrettanti per il proprio foraggiamento. Nella flebile luce di morte di quei luoghi, stonava con particolare evidenza lo strombazzare allegro del loro autobus che chiedeva attenzione ed indicazioni. Qualcuno, manco a dirlo, riuscì in quella situazione, anche ad indignarsi per la disorganizzazione.
Noi, il nostro compito “di guide esperte” l’onorammo con dignità.
Il giorno dopo, credo, il ricordo più vivido, riguarda l’insospettata capacità di Paolo Persico, di battere ogni record di velocità sui 100 m piani. Una scossa di assestamento forte ci sorprese tra le macerie ed allora io riuscii a capire con grande nitidezza, la differenza, rispetto alla nostra esperienza napoletana, di quanto vissuto dalla popolazione locale. Un rombo di sottofondo il quale sembrava scaturire dalle viscere del sottosuolo, e la Terra che si rimetteva a tremare. La luce del giorno cambiava in luminosità e con essa cambiava la cognizione stessa della paura. E Paolo scattò alla velocità della luce, per raggiungere una zona completamente aperta.
I ricordi si accavallano, perché alla fine rimasi in quelle zone per oltre tre mesi, dopo i quali cambiò la mia prospettiva e la mia stessa esistenza. Mi sembra giusto chiudere il ricordo con l’immagine degli zoccoletti olandesi, con tanto di bordo in pelliccia, di Rosetta D’Amelio, allora anche lei ragazza e militante del partito a Lioni. Eravamo, probabilmente troppo vicini ad un palazzo che si era accartocciato su se stesso. Uno stabile che sorgeva su un terreno argilloso. Una scossa di assestamento, ed il crollo riprese, e quel fango argilloso catturò totalmente gli zoccoli di Rosetta. Per fortuna è rimasto solo un ricordo che suscita un sorriso.
Pasquale Trammacco
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