di Rocco Civitelli

La teoria della cultura popolare autonoma e antagonista è ormai messa in discussione in tutta Italia. A Napoli il dibattito è complicato perché si confronta con gli stereotipi che affliggono la città.
Particolarmente importante, al riguardo, è stato il seminario organizzato il 20-21 novembre 2015 dal Premio Napoli, per il cinquantesimo anniversario della morte di Ernesto De Martino, con la presenza di docenti e ricercatori provenienti da tutta Italia, da Pierroberto Scaramella a Fabio Dei, da Stefano De Matteis a Ottavia Niccoli.
Al centro dei lavori la domanda: “che cosa è successo al concetto di popolo e di cultura popolare?” (1). Emblematico il titolo: “Il popolo che abbiamo perduto. Un seminario interdisciplinare sulla cultura popolare” . Titolo che riprende quello di un dirompente saggio di Francesco Benigno “Il popolo che abbiamo perduto, note sul concetto di cultura popolare tra storia e antropologia”, che definisce la cultura popolare un relitto. (2)
Le relazioni e il dibattito hanno dato un quadro dei diversi orientamenti.
Solo sullo sfondo, appena citata, è rimasta la posizione Togliattiana e di parte consistente della cultura italiana: “Per Gramsci, nonostante quanto è stato affermato con baldanzosa vacuità, folclore è un concetto negativo. Il compito della filosofia della prassi, in quanto espressione delle classi subalterne è precisamente quello di educare le masse, liberarle dalla loro cultura arretrata e portarle ad una visione del mondo moderna e universale” (3). Visione che può apparire un po’ rigida e pedagogica, ma che delineava il percorso di emancipazione su cui, almeno in parte, la società italiana è andata avanti.
Così come nel Seicento e nel Settecento, sul rapporto della religione e della medicina con la magia anche le classi subalterne hanno colto e condiviso il valore della battaglia antimagica, nel secondo dopoguerra i protagonisti della civiltà contadina e della cultura operaia sono passati con entusiasmo e determinazione alla civiltà di massa.
Si può senz’altro essere critici su questo passaggio, ma è indiscutibile che esso ha consentito di superare condizioni di vita e di lavoro durissime, a volte disumane ed ha aperto orizzonti di solidarietà e di eguaglianza straordinari. Il ritorno oggi, in alcune regioni, dei giovani nelle campagne, in condizioni di vita e di lavoro radicalmente diverse da quelle dei loro nonni, indica strade di costruzione del nuovo e di recupero di antichi valori.
Considero l’apporto più significativo del seminario quello che, confermando che la cultura popolare è “un relitto”, invita a guardarlo con un comportamento alla “Robinson Crusoe, che pur rendendosi conto che la sua nave, ormai distrutta, non può più servirgli per allontanarsi dall’isola su cui è naufragato, torna ripetutamente al suo relitto per ricavarne provviste e attrezzi con cui superare le sue difficoltà” (4) .
Differenziandosi nettamente dall’offerta turistica, la ricerca deve quindi andare avanti centrando l’attenzione sugli aspetti di interazione tra livelli culturali disomogenei, piuttosto che su quelli di autonomia e di contrapposizione (5) .


A Napoli importanti ambienti culturali, politici e religiosi si attardano compiaciuti sul vecchio paradigma della cultura popolare.
Commentando gli scarsi effetti che il seminario ha avuto nella realtà napoletana, Gabriele Frasca, allora presidente del Premio Napoli, mi ha detto: “è una città di gomma, immobile”. Classica espressione che scarica su un indistinto territorio, la città, chiare responsabilità politiche e culturali, che chiamano in causa la politica, l’accademia, la stampa e gli assessorati comunali e regionali alla cultura. Naturalmente assenti al seminario.
Testimonianza di questo immobilismo sono i riferimenti che continuiamo a trovare in studi recenti sul rapporto tra la religiosità napoletana e culture extraeuropee e, da ultimo, sulla “tradizione sciamanica amerindiana” (6) .
Essi possono apparire solo un’esercitazione intellettuale, un astratto attardarsi sui legami meccanici della lotta contro l’oppressione coloniale alla lotta contro l’oppressione di classe, ma invece approdano in tutt’altra direzione: quella del turismo esperienziale.
In un incontro sull’attuazione della convenzione parrocchia-comune per il cimitero delle Fontanelle, alcune pratiche del culto dei morti in America latina sono state richiamate per legittimare le attività ludiche nel cimitero. Solo l’autorevolezza di padre Alex Zanotelli, presente all’incontro, è riuscita a superare le difficoltà della discussione, con l’invito a non accomunare storie e pratiche di realtà diverse.
Mettere in discussione la cultura popolare, la cultura folclorica, non significa negare la validità e la forza della domanda che un secolo fa ha posto Bertolt Brecht: “Tebe dalle sette porte, Chi la costruì”, cioè come far emergere nella storia gli anonimi lavoratori che la costruirono.
Né disconoscere gli apporti di studi e ricerche di un ambito culturale molto ampio che si è avviato con il Romanticismo e di cui noi qui abbiamo esaminato un momento specifico, quello del culto del Purgatorio a Napoli nella seconda metà del Novecento.
Tantomeno significa, come qualcuno teme, il ritorno alla vecchia storiografia etico-politica in cui si parlava solo di guerre, di re e di regine (7) .

Il rinnovamento realizzato nella storiografia del Novecento, innanzitutto dalla scuola degli “Annales”, non può né deve essere messo in discussione.
Significa che il paradigma della cultura popolare ha dato risultati parziali, spesso inventati e poi interpretati in maniera ideologicamente forzata, come dimostra la vicenda del culto del Purgatorio a Napoli.
Resta quindi la necessità di ricerche su tutti gli aspetti del vissuto concreto dei diversi strati della popolazione e sulla loro mentalità sia per il passato, che per il presente. Certamente sulla religiosità: perché in alcuni quartieri la religione è la certificazione di un destino ineluttabile e non la forza per sollevarsi e andare avanti? Quante volte mi sono sentito dire: “professo’ è la vita!”.
Ma non solo ricerche sulla religiosità. Il grande assente è, come sempre, il lavoro. Si può discutere di tutto, ma del vissuto lavorativo non si scrive, né si parla, soprattutto nella cultura meridionale. Anche per Ignazio Silone, in Fontamara, dove protagonisti sono i contadini poveri, troviamo quali sono “i fatti veramente importanti della vita: il nascere, l’amare, il soffrire, il morire” (8) .
La risposta alla provocazione di Brecht possiamo incominciare a darla qui, andando oltre la presunta arcaicità dei culti delle Fontanelle. Entrando nella Basilica del Rione Sanità si resta colpiti dalla grandiosità e dalla bellezza dell’edificio. Chi l’ha costruito? La risposta di tutti è: il domenicano fra Nuvolo. Ma dietro di lui è evidente che c’era un sistema produttivo fatto di architetti, artigiani del legno, del marmo e del ferro di grande livello (splendidi sono gli intarsi di marmo) e una massa di lavoratori. Su questo non ci sono ricerche e pubblicazioni. Nessuna guida turistica ne parla.
Il sistema produttivo di cui non si parla è quello che ha progettato e costruito la chiesa. Era dentro il sistema culturale del Cinquecento e del Seicento napoletano, fatto di straordinarie qualità e di duri scontri come quello tra i domenicani di San Domenico maggiore e quelli della Sanità che erano “riformati”. È in questo contesto produttivo e culturale che nasce una struttura innovativa in cui l’interno della chiesa è dominato dall’ingresso all’ipogeo e da due rampe simmetriche, che lo avvolgono e portano all’altare. Una delle scenografie più suggestive della riforma cattolica.
La storia di una Basilica non può essere racchiusa solo nella storia dell’arte o della religione. C’è la storia del lavoro e del sistema produttivo.
Analogo ragionamento si deve fare oggi per alcune realtà produttive del Rione, come la fabbrica della Valentino, un prestigioso marchio del Made in Italy, che fino a qualche decennio fa occupava circa cinquecento lavoratori e si trova a qualche decina di metri dal cimitero delle Fontanelle.
È la Napoli del lavoro di cui nessuno parla.
Di queste grandi tradizioni possiamo ricostruire qualcosa? Credo proprio di sì; non certo i nomi, ma sicuramente i numeri e per l’oggi possiamo fare la storia dei tanti artigiani, dei tanti giovani e il vissuto dei tanti lavoratori che, a partire dall’offerta turistica e gastronomica, stanno facendo risorgere il Rione.
Una delle protagoniste dell’ultimo libro sulle Fontanelle “Le pezzentelle” (9) , Matilde rifiuta il lavoro che le viene offerto: quattro euro e a nero, preferisce prostituirsi. Ne dobbiamo parlare? Credo proprio di si. Il sottosalario, l’evasione contributiva e fiscale e la debolezza associativa rendono incerto e fragile l’attuale straordinario successo turistico e culturale del Rione.
Negli anni sessanta e settanta si è stati incapaci di costruirvi il distretto industriale che avrebbe valorizzato e consolidato la produzione e la creatività che veniva espressa nella lavorazione delle pelli. Si fallirà anche nella costruzione del distretto culturale perché abbiamo istituzioni incapaci, oggi come allora, di affrontare i nodi che il rapporto tra il territorio e lo sviluppo economico e sociale pone?
Così come credo dobbiamo parlare di un altro dei protagonisti di questo romanzo, Ettore, che vivendo in un basso si laurea in medicina. Qual è stato il suo vissuto di adolescente? Il suo rapporto con la scuola? Dove studiava? In un Rione Sanità dove è stato smantellato il sistema scolastico, abolito il tempo pieno nella scuola media e non si riesce a riaprire la biblioteca comunale chiusa da oltre dieci anni. Visioni diverse si scontrano. Pubblicazioni di successo come “Nostalgia” di Ermanno Rea ignorano il vissuto scolastico dei bambini e degli adolescenti del Rione, mentre è un tratto fondante del fascino e della drammaticità dell’”Amica geniale” di Elena Ferrante.



C’è infine da fare un’ultima riflessione sul rapporto tra la storia narrata in queste pagine e la realtà napoletana.
L’interpretazione che viene data del culto del Purgatorio, come espressione di una cultura autonoma e a volte antagonista, conferma che “l’utilizzazione politica” del fenomeno miracoloso è un fatto storico di portata non marginale e non resta circoscritto in un ambito puramente religioso” (10) .
Il “politico” nella realtà napoletana è rappresentato da una pratica ideologica che ritiene impossibile un governo normale della città per “la misteriosa natura di un popolo”.
Espressione di una “autenticità” che resiste all’invadenza della modernità, espressione della cultura dei ceti dominanti. I napoletani “primigeni della natura non si sarebbero smarriti nella modernità” (11) .
Paradossi della Storia. La sindrome del viaggiatore (12), il luogo comune della Napoli pagana e superstiziosa che nel Settecento, nell’Ottocento e nel Novecento attirava il viaggiatore del Gran Tour, guardato con ironia dagli intellettuali e i politici di allora, oggi è diventato uno dei tratti identitari della napoletanità scoperto e difeso da intellettuali e politici napoletani.
Da parte sua il popolo “autentico” osserva. E come sosteneva padre Evaristo a proposito di certe interviste sul cimitero rilasciate da alcune devote delle Fontanelle: “Certo, il napoletano, se gliene viene un utile, ti fa anche il folclore…ti fa fesso e contento. E l’utile non è necessariamente economico, basta un sorriso gratificante”.
Guardando come il regista napoletano premio Oscar Paolo Sorrentino, un altro protagonista dell’avanguardia degli anni Settanta, raffigura Cirino Pomicino, uno dei più importanti e discussi politici napoletani della fine del Novecento, che danza una tarantella nel film “Il Divo”, il pensiero corre all’ironico interrogativo che alcuni decenni fa aveva posto J. Le Goff “«Forse Cristo si è fermato per sempre a Eboli, abbandonando il Sud a Pulcinella?».
Dei “due popoli” che caratterizzerebbero la realtà napoletana, descritti da Vincenzo Cuoco ne resterebbe così uno solo. Quello dei lazzari superstiziosi.

Conclusioni


Consapevoli che ”le ragioni della nascita di un culto non sono univoche e non sempre facilmente individuabili “ (13) , che la religiosità individuale non è racchiudibile nella religiosità istituzionale e tantomeno nella sola liturgia e che, quindi, non tutto ciò che è fuori dalla liturgia o dalla religiosità istituzionale è paganesimo o superstizione, abbiamo delineato una documentata storia di come il culto delle anime del Purgatorio sia stato praticato nella Basilica di San Pietro ad Aram negli ultimi cinquecento anni. Abbiamo approfondito la ricerca sul Novecento e formulato un’ipotesi documentata su come, quando e perché è nato il rito dell’adozione delle capuzzelle nella Basilica.
Tutto questo affinché non sia offuscato il fatto che il culto è nato, si è sviluppato ed è finito per un’azione della Curia Arcivescovile e di una parte significativa del clero regolare e diocesano napoletano.
C’è il rischio di perdere memoria e ragione di questi luoghi, che sono stati innanzitutto luoghi in cui si è manifestata la cruda realtà della vita. Luoghi di dolore a cui la fede ha aperto una speranza. La storia delle reliquie non è solo la storia delle persone a cui appartengono. È soprattutto la storia delle sofferenze che spesso caratterizzano la vita.
Abbiamo anche aggiunto alcune considerazioni sulla necessità di ricerche su come questa devozione del Novecento sia stata vissuta nella vita quotidiana dei diversi ceti, nell’invenzione folclorica e nell’iniziativa turistica, nella ricerca accademica e nelle suggestioni della “napoletanità”.
È emersa la vistosa carenza di studi e di ricerche che è all’origine dei ritardi sulla storia della religiosità napoletana. Dietro alcune disinvolte interpretazioni, fatte sia da parte di laici che di sacerdoti, c’è “ che mancano analisi documentarie profonde e larghe per l’impraticabilità di fatto di numerosi archivi ecclesiastici, che pochi sono gli studiosi che vi si dedicano con professionalità e ampie vedute, che buona pare di quanto finora prodotto sull’Ottocento ecclesiastico italiano è segnato dalla occasionalità delle ricorrenze, dalla sproporzionata attenzione prestata ai vertici ecclesiastici anziché al vissuto del popolo credente”(14) .

La storia del culto delle anime del Purgatorio a Napoli deve essere considerata un’espressione, anche in campo religioso, della complessità della realtà napoletana. Tutto il mondo cattolico meridionale si interroga sui temi della magia, del paganesimo e della superstizione. Fondamentali restano gli studi di Gabriele de Rosa e Giuseppe De Luca.
Negli anni scorsi è ritornato sul tema il gesuita Giuseppe De Rosa in un saggio su “La civiltà cattolica”, in cui ripropone l’antico interrogativo: è il Mezzogiorno la terra per eccellenza della magia e della superstizione, e non quindi del «vero cristianesimo» (15) .
Ritorna dunque periodicamente, a volte in forme nuove e originali, la polemica innescata dalla fortunata espressione usata dal gesuita padre Michele Navarro, in una lettera al generale della Compagnia di Gesù padre Everardo Mercuriano nel 1575, las Indias de por acà, le Indie di quaggiù, per designare la realtà spirituale e materiale di un Mezzogiorno non molto diverso da las Indias de allà, le Indie di laggiù, i territori del sud America, evangelizzate da san Francesco Saverio.
Ancora qualche anno fa, commentando la pubblicazione delle carte d’archivio di Carlo Levi su La Repubblica, Carlo Lucarelli scrive del soggiorno dello scrittore in Basilicata: “Sono mondi da scoprire, complessi ed esotici, e non importa se sono piccoli, sono Mondi Nuovi . (16) ”.


Allora erano i tempi in cui a Napoli e nel Mezzogiorno operano Gaetano da Thiene, San Gaetano, che fonda l’ordine dei Teatini, Giordano Bruno, Tommaso Campanella. E da Napoli parte per Roma Gian Pietro Carafa. Sarà eletto papa con il nome di Paolo IV e guiderà la Chiesa cattolica verso la Controriforma.
E anche oggi, nel Novecento, alla vigilia della nascita dell’adozione delle capuzzelle, negli stessi quartieri opera Giuseppe Moscati, uno dei primi medici dichiarato santo. Darà, da laico, una straordinaria testimonianza sul rapporto tra scienza e fede e dunque del rapporto della religione con la modernità (17) .

La storia del culto delle anime del Purgatorio a Napoli nell’Ottocento e nel Novecento è una microstoria, cioè un settore specifico della grande storia a cui dà un contributo, in questo caso, a me sembra, originale.
È la grande storia a cui si riferisce Joseph M. Kitagawa nella presentazione delle lezioni tenute nel 1978 da Peter Brown alla Haskell Lecturership della Divinity School dell’Università di Chicago. Quella iniziata circa due millenni fa con la canonizzazione dei primi Martiri e che ha portato all’elaborazione del modello “a due piani” cristallizzato da Davide Hume nella sua storia naturale della religione (18) .

Un dibattito storiografico plurimillenario “sulla netta distinzione tra le esperienze religiose delle élite e quelle del volgo”, dove queste ultime sono generalmente, ma erroneamente “relegate nel regno della superstizione popolare”.
Uno spaccato di questa storia è quella del culto delle reliquie, iniziata con i primi martiri e proseguita per secoli fino ad oggi. Le reliquie che la Chiesa consegna alla devozione del popolo.
Alla devozione del popolo, di tutto il popolo, e non alla devozione dei ceti subalterni.
Se un contributo a questo dibattito viene dagli avvenimenti qui narrati è quello della unitarietà della cultura e della religiosità di un territorio, di un popolo. Se per la Chiesa il popolo della religiosità popolare non può che essere il popolo di Dio, anche i laici non possono smarrire il senso unitario della cultura di un territorio e di un popolo.
Una unitarietà che è certamente articolata, per individui e per ceti, in cui vanno colti i molti aspetti di circolarità, di condivisione e contaminazione, di scontro e di repressione, ma in cui non va smarrito il ruolo delle élite. Cioè di chi guida una comunità; di chi se ne assume e ne porta la responsabilità, senza scaricarla sulla presunta “natura misteriosa di un popolo”.

Rocco Civitelli Impegnato da anni nella valorizzazione del patrimonio rappresentato dalla memoria della cultura popolare napoletana e di quella del movimento operaio di cui, con la CGIL, è stato attento dirigente per lunghi decenni

[1] Il video del seminario è in YouTube, https://www.youtube.com/watch?v=-ufbTAEWBxY

[2] Francesco Benigno, Il popolo che abbiamo perduto, Note sul concetto di cultura popolare tra storia e antropologia, in Giornale di Storia Costituzionale, n.18, II semestre 2009, pp. 151-178.

[3] Intervento di Pierroberto Scaramella in Seminario Premio Napoli citato.

[4]. Ottavia Niccoli, Cultura popolare: un relitto abbandonato? in Studi Storici, 4 2015, p.2010, saggio presentato al seminario del Premio Napoli “Il popolo che abbiamo perduto”, cit.

[5] Peter Burke, Popular Culture Reconsidered, «Storia della storiografia», XVII, 1990, p. 42

[6] Studi Tanatologici, n 10, 1919-2020

[7] Pierroberto Scaramella in seminario del Premio Napoli “Il popolo che abbiamo perduto”, cit.

[8] Ignazio Silone, Fontamara, prefazione, Mondadori 1972

[9] Vincenzo Russo, Le pezzentelle, Homo scrivens 2020.

[10] Pierroberto Scaramella, cit. p. 312

[11] Elisabetta Greco a cura di, Antologia, in Niola cit. p.137

[12] Rocco Civitelli, Alcune considerazioni sul rapporto tra identità e lavoro a Napoli, in Quaderni dell’Archivio Storico di Pomigliano d’Arco n 4, Ncs Napoli. Peter Burke, Scene di vita quotidiana nell’Italia moderna, Laterza 1988, p.23.

[13] Pierroberto Scaramella, cit. p. 312

[14] Ugo Dovere, Chiesa e Risorgimento nel Mezzogiorno, Campania Sacra 43 2012, p. 7

[15] La Civiltà Cattolica n. 3754, 18 novembre 2006

[16] Carlo Lucarelli, L’anima libera di un prigioniero, in Carlo si è fermato a Eboli, La Domenica di Repubblica, 1 marzo 2009.

[17] Giuseppe Moscati, Scienza e Fede, Napoli 2006.

[18] Peter Brown, Il culto dei Santi, Einaudi 1983 p.VII. Luigi Zanzi, Sacri Monti e dintorni, Studi sulla cultura religiosa e artistica della controriforma, Jaca Book, 2005, p.496








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1 commento

  1. Grazie Gianfranco per questo excursus, interessantissimo e sempre pieno di quesiti, sul rapporto di Napoli con la morte ,con l’esoterismo e con la magia
    Questo aspetto pero ‘ che potrebbe farla apparire culturalmente arcaica ,a mio modestissimo avviso ,la sta difendendo da teorie veramente arcaiche e pericolose di sapore del più oscuro medioevo Mi piacerebbe ascoltare una discussione in merito,se e vero come e vero che un po’ tutto il mezzogiorno e più aperto ai diversi ,agli extracomunitari e rifiuta pensieri assurdi di astronomia ante medioevo.

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