di Mimmo Grasso
Dopo molti decenni di silenzio, grazie alla cura di Carlangelo Mauro viene riproposto Salvatore Quasimodo (Tutte le poesie, Oscar Mondadori, 2020). L’edizione reca come introduzione il saggio di Gilberto Finzi che già accompagnava l’Oscar precedente, ed ha un puntuale apparato filologico.
Carlangelo Mauro è stato supportato nella ricerca, per gli inediti, dal figlio di Quasimodo, Alessandro, attore e drammaturgo, autore, tra l’altro, di Il teatro della vita, la famiglia dietro il Nobel nonché di Fuori non ci sono che ombre, e cadono, in cui viene messo a nudo il rapporto tra il poeta siciliano e la moglie Maria Cumani. Il lavoro andò in scena al “Teatro Studio” con la partecipazione dello stesso Alessandro, Franca Nuti, Luciana Savignano e, al piano, Ettore Borri.
Piacevole incontrare di nuovo, durante la lettura, nomi storicizzati della critica letteraria e, incitati da questo Oscar, prelevare dalla libreria i bei saggi di Solmi su Erato e Apollion e di Macrì su La poetica della parola.
Sono note le vicende di consenso e dissenso nei confronti di Quasimodo da parte sia della critica che di altri poeti. Mauro, con eleganza, non ne fa il centro del discorso. La questione, tuttavia, continua a ronzare nelle nostre orecchie e, traendo spunto da questo nuovo “Tutte le poesie”, riteniamo di dover assumere una posizione ma considerando, come vedremo, la poesia secondo parametri che le sono propri. A distanza di più di mezzo secolo non c’è, ormai, interesse a chiedersi se siano esistiti un “primo” e un “secondo” Quasimodo in termini di poetica, di stile, di orientamento sociale, di uso e funzione della poesia. Si tratta di problematiche generate, allora, nel clima postbellico, più dalle ideologie e dai loro obiettivi politici piuttosto che dal fare poetico, libero, a dispetto della critica e dell’accademia, di seguire le strade che ritiene di dover intraprendere per portare a consonanza la dissonanza esistenziale e storica. Altresì, molte discipline si sono interessate di poesia dagli anni ’60 in poi e hanno contribuito a una visione non strettamente letteraria del suo manifestarsi. Fra questi strumenti c’è il processo di cambiamento osservato mediante sostituzione di immagini nel campo delle rappresentazioni mentali, immagini sulle quali il poeta lavora, tipico della psicanalisi (p.es. il lavoro di Sergio Piro sull’orizzonte conoscitivo ed emozionale del singolo e delle comunità); dagli anni ’90, con le idee sulla complessità, irrompe il “pluriverso” vs. l’ “universo”, una “vision” del reale e del soggettivo che accoglie la complessità sistemica e si declina in più ambiti.
Ricordiamo, ad esempio, come emblematico di quegli anni, l’intervento censorio di Mario Alicata, Giorgio Napolitano, Giorgio Amendola (che si ravvederà) nei confronti di Rocco Scotellaro, in particolare per gli incompiuti racconti-inchiesta Contadini del Sud dimenticando la produzione poetica, di ben altro valore “sociale” e umano. Ernesto De Martino non aveva ancora messo in campo i suoi strumenti. Se si assumessero come validi i criteri temporali, dimenticando che la psiche opera fuori della cronologia, anche per Scotellaro, come per Quasimodo, si può parlare di un “primo” e di un “secondo” tempo, due atteggiamenti generati da esperienze di vissuto e da interessi sociali profondi che incitavano all’azione.
Erano anche gli anni, in cinema e narrativa, del neorealismo e non si comprende, pertanto, la perplessità nei confronti di un Quasimodo “poeta civile”, ormai tendente a scomparire anche dalle antologie scolastiche.
Quasimodo vinse il Nobel nel ’59 e fu quest’evento che scatenò reazioni incrociate: meritato, immeritato? Dettagli: il Nobel per la letteratura, come tutti i premi, vanno valutati come le garanzie bancarie: “per quel che valgono”. Ne sia prova il fatto che quasi nessuno ricorda a chi è stato assegnato il Nobel e che sul medio periodo sono altri, di solito, gli autori che rimangono nel vissuto dei lettori e che sono capaci di modificarlo, arricchirne i mondi.
Quasimodo, supportato da amici come Pugliatti, La Pira, il cognato Vittorini, era autodidatta. Nel tradurre i lirici greci e Neruda fu talvolta affiancato dalla Cumani, attrice, danzatrice, poeta lei stessa.
Lo stile di Quasimodo, prima delle poesie “civili” (Giorno dopo giorno), era intriso di “realismo mistico”. Ricordiamo qui per il lettore una recensione di Montale (il corsivo è nostro): “…Il libro di Quasimodo non è di quelli che si rivelano senza difficoltà…L’evoluzione evidente…porta dall’abilità alla poesia, dall’artificio che pesa all’espressione che fa dimenticare la propria origine difficile e avventurosa…confido ch’egli vorrà perdonami un linguaggio che rischia di confonderlo con una turba poetante di neomistici”.
Mauro rintraccia i testi espunti e quelli giovanili del siciliano, l’officina segreta, e, sì: si notano artifici e costruzioni a tavolino, un lavoro di “bottega”, ma quale poeta o artista ne è indenne? La maturità espressiva si raggiunge quando la tecnica passa sullo sfondo, quando “l’ emozione è una tecnica dell’arte” (Aristotele), vale a dire quando dispositio e compositio, il montaggio del testo, non ostenta “effetti speciali”, a meno che non sia proprio quest’ultimo lo scopo della costruzione per intercettare architetture cognitive e di comunicazione sociale diverse. Va annotato, in merito, che i testi del Quasimodo civile non presentano alcuna difficoltà ermeneutica, a parte l’ovvia sottolineatura di elementi simbolici. In altri termini, nella produzione ermetica del siciliano prevale il “come te lo dico”; in quella successiva il “cosa ho da dirti”; questo “cosa” rimane, comunque, sempre, coerentemente, in ambito culturale magno-greco.
Rileggendo, il poeta, grazie a Mauro, il “sentiment” più forte è che, durante e dopo la guerra, Quasimodo ha certamente abbandonato la lirica, l’ “io”, per le modalità coreutiche della tragedia. Da Giorno dopo giorno in poi, i testi, nel loro insieme, possono essere uno stasimo: “Uomo del mio tempo”, con altri elaborati, ricorda il coro dell’Antigone sofoclea ed è noto che il coro greco raccoglieva le istanze della città, che era considerato un solo attore, che esprimeva giudizi etici ed aiutava lo spettatore a comprendere ciò che accadeva in scena.
Questo è lo scopo delle poesie civili di Quasimodo che, da un lato, abbandona il suo “isolamento” fatto di parole-cose “verticali”, sorvegliate bocca-a-bocca; dall’altro rivendica la necessità di aprirsi agli altri, di voler essere ascoltato più che letto. Si tratta di modalità diverse, che richiedono apparati discorsivi e un pubblico diversi. Ciò che era un valore aggiunto, una capacità in più (affrontare vari registri espressivi) finì per essere giudicato come una “capriola” (Antonielli) ma generata, è bene sottolinearlo, dall’incontro, vero e reale, col dolore e con la storia. Registriamo qui una bizzarria delle critica italiana degli anni ’30: gli ermetici sarebbero stati “oscuri” per reazione al fascismo, tifoso del futurismo e attento alle masse. I poeti ermetici, se anche suggestionati da un’improbabile riferimento a Ermes e ai suoi fascinosi allegati alchemico-simbolici, con un qual certo autocompiacimento in ordine al presunto “mistero” dell’arte, erano la continuazione di antecessori come Mallarmè o Valéry. In ordine all’ “oscurità”, va detto che la poesia è sempre “ermetica” e che il compito della critica è precisamente quello di portare in luce, dialogicamente col testo, le forme profonde della coscienza, se vi sono.
Il Quasimodo da Tempo di Tolomeo diventa dunque quello della rivoluzione copernicana; quello che voleva essere il segnale di un cambiamento, di una metànoia, nel suo caso assunse il senso di opportunismo, di “moda”. Si può discutere a lungo su questi aspetti ma, oggi, sembrano categorie obsolete.
In questa nota non ci interesseremo della vita del poeta, peraltro orientato alla propria automitobiografia, al proprio personaggio, in cui gran parte è rappresentata, dicevamo, dal clima “magno-greco”. Rinviamo per questi aspetti alle note nelle parti finali dell’edizione di Mauro, che arricchisce la lettura critica per ogni singola raccolta, elaborando il “corpus” quasimodiano con uno sguardo sull’omogeneità tra versi pubblici e “versi privati”, giacché Quasimodo manteneva il suo sorvegliato stile anche nella corrispondenza. Per le traduzioni dai lirici greci e dagli autori latini, da Mauro riproposte, a noi pare che il siciliano abbia anticipato il metodo Berman, l’ idea di camminare verso un “albergo lontano” col poeta da trasferire in un’altra lingua, la dinamica ostis-hospes, inaugurando una modalità di traduzione che, attenta alla “durata” interiore delle parole, si trasforma in riscrittura. Questo fenomeno lo notiamo anche in poeti che si autotraducono. È l’unica strada percorribile: “La poesia è tecnicamente intraducibile” ( R. Jacobson).
Quanto ai saggi, peraltro scritti magistralmente, Quasimodo mostra limiti teorici (Barberi Squarotti) a cominciare da “Il poeta e il politico” in cui pone i filosofi come “naturali nemici dei poeti”. Se questo incipit vuole essere un riferimento all’ atteggiamento di Platone verso i poeti, il siciliano non ricorda che “La Repubblica” è un lavoro sulla paideia piuttosto che sulla politica. I filosofi sono stati, e sono, “naturali” sostenitori del poetare come chiave “originaria” d’accesso all’ essere e alla conoscenza, “dramatis personae” di natura e cultura.
Dopo aver letto questo nuovo e completo “Tutte le poesie”, rimane nel lettore l’accattivante “voce” di Quasimodo ed è innegabilmente la stessa sia “prima” che “dopo”. Il vagare nell’animo di questa voce ci induce a intercettare l’origine del “fascinum” quasimodiano, di entrare nelle sue strutture segrete. Riproponiamo, in merito, dopo aver ripescato nella nostra libreria i volumi e i testi critici che parlano del siciliano, un nostro lavoro (Napoli, 1972) che, nonostante il tempo trascorso, sembra ancora utile. L’approccio punta a valutare un testo “iuxta propria principia”. Vediamo..
Cominciamo dalla poesia più famosa:
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole
Ed è subito sera.
È un frammento (fragmentum, frangere) come ritrovato su qualche papiro di anonimo poeta, forse alessandrino, ed è molto denso: terra-sole-sera, Ad essere “trafitto” è sia il cuore che “Ognuno”. La rotazione del frammento si concentra su due elementi oppositivi, “polari”: “sole” (luce) vs. “sera” (buio, o quasi-buio). Riteniamo che è per quest’alternanza ce si parlò delle poesie quasimodiane come intrise di “luce nera”.
Questa opposizione, o alternanza, di forze contrarie, polari, è una costante del poeta ed è ampiamente documentabile. Le evidenzieremo analizzando “Vento a Tindari” (Acque e Terre, 1920-29):
Eccolo:
Tìndari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima
A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tìndari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
L’avvertenza per il lettore è che una poesia non nasce né si conclude con una lettura “verticale” ma che contiene innumerevoli allegati inespressi e che dice molto di più, in termini di metasenso e metatesto, di ciò che dichiara. Facciamo un esempio:
Et iam summa procul villarumm culmina fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.
(Verg, Bucolica, I, 82-83)
Trad.:
e già fumano, laggiù, gli acuminati tetti delle case
e più grandi cadono le ombre dagli alti monti.
La traduzione non rende giustizia alle abilità di Virgilio. Procùl e cadùnt, in posizione di cesura, creano un’altra immagine: “cadono lontano”. Analogamente accade per fumant…umbrae mentre quel maiores implica sia le “ombre più grandi” quanto “le ombre più pesanti” che, liberate dalla gravità, precipitano mentre il fumo – altra ombra – sale. Ma cosa sta vedendo, in termini di astrazione, Virgilio? C’è un moto percettivo verso l’alto (le sinuosità del fumo, le stelle che vengono rivelate dalla caduta cosmica) e il suo sguardo va verso “altissimi tetti”. I tetti delle “ville” (case coloniche) erano e sono di solito triangolari per proteggersi dalla pioggia.
È evidente che i versi in questione nascondono una metastruttura fatta di triangoli (i tetti e i monti) e che il guardare di Virgilio, i suoi occhi, disegna precisamente una forma a triangolo.
Se vale questo tipo di lettura, procederemo in modo analogo per Quasimodo puntando la nostra attenzione esclusivamente sui fenomeni “macro” e tralasciandone numerosi altri.
Osserviamo l’alternarsi di “luce-oggettività/ buio “soggettività” cui corrispondono scelte lessicali e metriche attinenti la semantica del buio e della luce. Il testo, in altri termini, alterna momenti in cui il poeta guarda verso l’esterno e, parallelamente, altri in cui il paesaggio si ripercuote , si “china”, “assale” l’io e il suo corredo di ricordi.
In concreto:
1.Tìndari, mite ti so
2.fra larghi colli pensile sull’acque
3.delle isole dolci del dio,
4.oggi m’assali
5.e ti chini in cuore.
vs 1-3: oggettivazione (luce)
vs. 4-5, soggettivazione (buio)
Questo è un primo nucleo. Continuando:
6. Salgo vertici aerei precipizi,
7. assorto al vento dei pini,
8. e la brigata che lieve m’accompagna
9. s’allontana nell’aria,
10. onda di suoni e amore,
11. e tu mi prendi
12. da cui male mi trassi
13. e paure d’ombre e di silenzi,
14. rifugi di dolcezze un tempo assidue
15. e morte d’anima
Lo schema si ripete: vs 6-10, luce; vs. 11-15, buio, come anche (ma con inversione):
16.A te ignota è la terra
17.ove ogni giorno affondo
18.e segrete sillabe nutro:
19.altra luce ti sfoglia sopra i vetri
20.nella veste notturna,
21.e gioia non mia riposa
22.sul tuo grembo.
vs. 16-18; buio; vs. 19-22, luce.
Le scelte linguistiche sia per la condizione “luce” che per quella “buio”, sono coerenti. Vediamo le parole-guida che compaiono, p.es., in “buio-soggettività”: m’assali, ti chini, mi prendi, mi trassi, affondo rompere…
Il fenomeno non si evidenzia solo in una lettura ordinaria ma si registra anche “saltando” per vari versi: paura d’ombre e si silenzi…nella veste notturna…tacito passo nel buio
fra larghi colli pensile sull’acque…altra luce ti sfoglia sopra i vetri…che mi sporga nel cielo da una rupe…
Grazie di questo bel rinnovato viaggio attraverso i versi di Quasimodo